PROGETTO GIOVANI COPPIE

 

Avventurarsi nel complesso mondo della vita coniugale significa misurarsi con una serie di novità che fanno della famiglia post-industriale una realtà in gran parte nuova, anche se poggiata sull’eredità ricevuta dal passato.

Il cambiamento più evidente riguarda l’emancipazione femminile nel suo espletarsi all’interno ed all’esterno della famiglia, la comunicazione mediante le parole, il silenzio ed il gesto, gli stili di vita e il modo di rapportarsi fra genitori e figli e con la società.

La stabilità relazionale e familiare dipende in gran parte dai primi anni di matrimonio, del resto preparati dal fidanzamento. La vicenda di una famiglia infatti è giocata sulle tappe concatenate del duo formarsi, e dentro le quali anche le situazioni di crisi possono aiutare la crescita delle persone.

Fidanzamento, matrimonio, giovane coppia coniugale, l’arrivo del primo e sempre più spesso unico figlio, sono in strettissima consequenzialità: dalla qualità dell’uno dipende la qualità dell’altro.

Per questo il nostro progetto ha coinvolto sia la realtà dei fidanzati che quella delle giovani coppie.

 

 

·      Da fidanzati a sposi

·      Nuove relazioni familiari

·      Coscienza morale tra sentimento e razionalità

·      Si fa presto a dire amore

·      Il figlio: benedizione e compito

 

 

 

 

All’indomani della luna di miele i novelli coniugi devono fare i conti con la casa, il lavoro,

le famiglie di origine e gli amici. Solo il buon senso li può aiutare.

 

 

Da fidanzati a sposi

 

 

Il ritorno dal viaggio di nozze è vissu­to dai novelli sposi in modo diverso a seconda delle caratteristiche della loro personalità, ma anche delle varie situazioni più o meno facili che essi prevedono di dover affrontare: c’è chi prova un velo di tristezza malinconica dinanzi alla parentesi che si chiude su giorni di incantevole solitudine a due senza pensieri; c’è chi, di fronte alla vita nuova che si apre con le sue inevitabili difficoltà, non riesce a vincere un’angoscia sottile mista a un fondo di paura; c’è chi invece affronta con gioio­sa euforia il ritorno come il felice com­pimento di un’attesa e l’inizio dell’av­ventura che darà modo ad entrambi di mettere alla prova il proprio amore nella dedizione di ogni giorno.

Il rientro segna in effetti, comun­que venga vissuto, il vero avvio della vita coniugale: l’immaginario che si cala nel reale. Quel che si è previsto e fantasticato cessa di essere sogno, per assumere le tinte concrete di una realtà quotidiana non sempre corrispondente a quella immaginata, anzi talora da essa mille miglia remota.

Si tratta di “prendere in mano” la casa: sistemare i doni di nozze, inte­grarli con eventuali oggetti mancanti, adeguare mobili, utensili, suppellettili alle proprie esigenze concrete. La casa deve diventare “viva”, cioè caldo nido d’amore ma al tempo stesso specchio di due personalità che hanno gusti, abitu­dini, bisogni differenti.

 

Anche la conduzione del “ména­ge” offre possibilità di intesa e di con­trasti. Pensiamo al modo di fare la spesa, di cucinare, di provvedere alla pulizia della casa e al bucato. Occorre mettersi d’accordo e fare un piano di collaborazione rispettoso dei due ruoli, ma ispirato al principio che l’amore è pure condivisione degli impegni e dei pesi della casa.

Poi c’è il problema del bilancio: si tratta di prevedere gli introiti e di di­stribuirli in modo oculato per le varie necessità. Alcuni si servono di buste con tanto di titolo: “affitto”, “bollette”, “vitto”, “vestiario”, ecc.; altri preferi­scono tenere in casa il denaro sufficien­te per la spesa settimanale e prelevare

dalla banca di volta in volta quanto è richiesto per le altre “uscite”. Non sempre si è d’accordo sul metodo, ma l’importante è cercare la so­luzione più adeguata, che esprima insieme la comunio­ne di intenti e una certa ela­sticità di fronte alle preferen­ze personali.

Per quanto riguarda il la­voro, due osservazioni sem­brano importanti: chi si sposa presenta nel proprio ambiente lavorativo una modificazione sostan­ziale della sua identità: da “single” è diventato “coniuge”, e questo lo ob­bliga a mutare anche il comportamen­to e la modalità della sua relazione con i colleghi, al fine che la sua nuova situazione di partner si affermi, sia accettata e rispettata; anche l’attività lavorativa va adeguata alle esigenze della vita coniugale, per quanto ri­guarda prolungamenti di orario, inca­richi e missioni particolari, sposta­menti e viaggi fuori sede.

D’altra parte le spese domestiche, il peso delle rate, la programmazione di un primo bebè, richiedono non solo serietà nell’impegno lavorativo ma spesso anche disponibilità a prestazioni più ampie. Occorre che ogni ‘problema legato al lavoro venga discusso in cop­pia, alla luce anche delle rispettive idee circa il tenore di vita, la cura della casa e dei futuri figli e la qualità del tempo in cui si sta insieme.

 

Un altro impegno dei nuovi sposi è la ripresa di contatto con le proprie famiglie: impegno non lieve, in quanto si tratta di dare fin dall’inizio una chia­ra impostazione ai rapporti reciproci. Lui ha “lasciato” suo padre e sua ma­dre; lei ha “lasciato” i suoi; ma è pro­prio vero? La vita di coppia richiede che ci si stacchi sul serio, per salvaguardare l’autonomia e l’intimità.

Sarà bene fissare insieme qualche regola in merito alla frequenza dell’una e dell’altra famiglia, agli inviti a casa propria, all’intensità degli scambi co­municativi (telefonate, lette­re). Fare fuoco con la propria legna e camminare con le proprie gambe sono condi­zioni fondamentali per l’au­tonomia decisionale e opera­tiva, rispetto alla cura della casa, all’amministrazione dei beni, alla prospettiva di un figlio.

L’inesperienza porta spes­so i più giovani ad appoggiar­si, a chiedere consiglio, ad invocare aiuti da parte di chi possiede un ricco bagaglio di esperienze di vita coniugale e familiare. Può essere un segno di umiltà e di docilità, ma anche di immaturità e di passività.

Allo stesso modo diventa difficile tal­volta distinguere tra la fedeltà ai propri sentimenti di affetto, di devozione e di riconoscenza verso chi ci ha dato molto e l’intrappolamento in una specie di “routine” affettivo-comportamentale («tutte le domeniche a pranzo dai miei», «guai a non chiedere il parere dei tuoi», «mia madre vuole che le telefoni tutti i giorni per sapere come sto»).

 

L’amore per i genitori è sacrosan­to: va custodito e coltivato con cura e da parte di entrambi i coniugi, perché i genitori di lui sono diventati i genitori di lei, e viceversa. Ma certi eccessi rive­lano “cordoni ombelicali” non ancora tagliati, alleanze intergenerazionali (madre-figlio/a, padre-figlio/a) di vec­chia data e resistenti anche al nuovo legame. L’aiuto scambievole dei due sposi può essere un valido sostegno per la maturazione personale e, di conse­guenza, perla ristrutturazione dei rap­porti di sangue.

Non indifferente è in questa prima fase della vita coniugale trovare il giu­sto posto alle amicizie. Intanto: si con­tinua a coltivare quelle antiche, o è meglio farne nascere di nuove? E’ prefe­ribile avere come amici coppie di coniu­gi e di fidanzati oppure dei “single”? Quando e come incontrarsi con loro? Possono entrambi (o uno dei due) con­tinuare a frequentare un amico (o un’amica) indipendente­mente dall’approvazione del coniuge?

Non ci sono regole fisse, ovviamente. Sta alla coppia decidere per il meglio di volta in volta, tenendo presente che: l’amicizia è un senti­mento prezioso, ma viene do­po l’amore e deve essere fun­zionale a questo: gli amici di vecchia data (amici per lo più di uno dei due) possono di­ventare comuni, ma non possono esse­re imposti come tali; il “single” che stabilisce una certa intimità con i due partner vive una posizione molto deli­cata: ha da essere particolarmente di­screto, padrone di sé e della propria affettività, imparziale nei confronti dei due coniugi; gli incontri con gli amici sono piacevoli e utili se evitano l’inva­denza, l’abitudine e l’unilateralità (“sempre a casa nostra” o “sempre a casa vostra”).

 

Una parola va spesa anche a pro­posito degli “impegni esterni”, ossia le varie attività di volontariato sociale o parrocchiale a cui molti oggi si dedica­no. Ci sono coppie i cui membri, prima del matrimonio, hanno largamente operato nel mondo esterno, impegnan­dosi sia per la loro crescita sia per porgere aiuto ad altri.

Dopo le nozze tutto cambia: lasciano ogni impegno per chiudersi nel bozzolo confortevole del rapporto di coppia. Se sono indispensabili, specie in questo primo periodo, l’intimità e il raccogli­mento, è però anche vero che una chiu­sura troppo protratta può nuocere alla coppia stessa: tanto più si cresce insie­me, quanto più ciascuno dei due ali­menta la propria vita con relazioni fina­lizzate anche al bene degli altri.

Abbiamo lasciato per ultimo, onde dargli il massimo risalto, l’argomento più importante, di cui il resto è corolla­rio: il rapporto coniugale.

Il tendere dei coniugi l’uno verso l’altro in uno sforzo unitivo è essenzia­le per l’amore: al fine di conseguire unità occorre superare le re­sistenze dell’egoismo, del­l’egocentrismo, dello spontaneismo, della timidezza e del­la chiusura, che possono de­rivare bensì dal tempera­mento nativo o dall’ambien­te in cui si è vissuti, ma so­prattutto da un insufficiente impegno della persona stessa a seguire chiare e solide rego­le di vita e di relazione. La tensione all’unità rispetta però le differenze, che permangono, e sono in sostanza benefiche per la com­plementarietà.

L’identificazione con l’altro non è amore (anche se può nascere dall’amo­re): ognuno dei due ha il diritto-dovere di mantenere una certa autonomia, che gli consenta di continuare a crescere, per arricchire anche l’altro. I due part­ner in sostanza sono come due sfere, che per ruotare insieme lungo un’ellis­se, devono ruotare attorno al proprio asse.

Sono dunque da favorire, ad esempio, un’autonomia geografica (avere un proprio spazio “fisico” per leggere, me­ditare, ascoltare musica, custodire og­getti e ricordi, eseguire qualche lavoretto), un’autonomia temporale (avere tempi di solitudine, silenzio, svago), un’autonomia economica (disporre di denaro senza dover renderne conto ri­gorosamente all’altro), e così via.

 

Naturalmente l’autonomia va fi­nalizzata all’armonia, altrimenti nasce la divisione, l’isolamento, la frattura. Cioè la fine della coppia. Pur nella diversità, l’uomo e la donna sono dotati di capacità intellettuali, morali ed ope­rative di pari dignità e hanno uguali doveri e uguali diritti.

Per questo nella coppia si può stabili­re una situazione di “partnership”: rapporto reciproco e simmetrico, nel quale la modalità comunicativa proce­de da adulto ad adulto. L’autentico dialogo di coppia, cioè la vicendevole comprensione attraverso il linguaggio e ogni altra forma di comunicazione, è possibile solo quando i due partner infondono alla presenza reciproca le qualità di un’accettazione e di uno sti­molo paritari.

Attenti alle sperequazioni che si pos­sono venire a creare fin dagli inizi, quando uno dei due “ha tutto” e l’altro “non ha niente”, per gentile concessio­ne del “minorato” stesso, malato di passività o di paura, di viltà odi vittimi­smo, di fronte all’attivismo o all’esibi­zionismo o alla presunzione grintosa dell’altro. La parità non può nemmeno fissarsi in un rapporto di tipo infantile e immaturo: «siamo tutti e due poveri, deboli, incapaci, vittime della società» o viceversa «sfrenati, ribelli, intempe­ranti, inclini alle fughe e alle evasioni».

Se l’amore è vero, genera un rappor­to paritario di alta qualità, in cui non c’è posto né per il calcolo meschino da ragioniere né per il ricatto, né tanto meno per la reciproca degradazione o la complicità malvagia. Esso si nutre in­vece di gratuità, di generosità, di tra­sparenza, di fiducia, in vista del perfe­zionamento delle due persone nello sta­to adulto.

 

Un impegno particolare viene ri­chiesto alla nuova coppia per l’avvio di una vita sessuale che corrisponda alle rispettive esigenze. La caduta dei tabù e la liberazione sessuale cui abbiamo assistito nel volgere degli ultimi tren­t’anni hanno portato ad un’innegabile banalizzazione della sessualità, ed an­che ad una preoccupante confusione sul significato e sul valore delle “esi­genze” personali.

Le perversioni tradiziona­li, considerate un tempo pa­tologiche, oggi rischiano di essere contrabbandate come se fossero “esigenze” del tut­to normali. Non è raro perciò imbattersi in coppie che di buon accordo tendono ad usare il sesso come gioco (con il coinvolgimento di altre persone o di altre coppie). Oppure è uno dei due part­ner che propone, e talora impone, all’altro “amori” di questo tipo. Bisogna essere molto chiari e perspi­caci: mentre per la patologia occorre il medico e può intervenire persino la dichiarazione di invalidità del matri­monio, nel caso di attività “anormali” ludiche è in ballo la responsabilità mo­rale dei due partner: di tutti e due, di chi chiede e di chi accetta.

Occorre ridare alla sessualità la sua funzione: di relazione eterosessuale (affettiva e genitale) tra due persone che si amano e che sono aperte alla procreazione. Un matrimonio non si può dire riuscito se la vita sessuale non funziona (l’“amore senza sesso” va la­sciato a situazioni del tutto ecceziona­li); ma non è nemmeno accettabile il “sesso senza amore”.

Fin dall’inizio i due coniugi devono scambiarsi quell’insieme di cure e di attenzioni che chiamiamo “tenerezza”: esse potenziano la vita sessuale e ne sono a loro volta potenziate. Più la sessualità passa attraverso il cuore, la ragione e lo spirito, più la relazione dei due coniugi diventa ricca, interessante e unitiva.

Anche per la vita intima è necessario un rodaggio, che varia in durata a se­conda delle coppie e che non è identifi­cabile con il periodo precedente il ma­trimonio in cui i due partner abbiano indulto ai rapporti prematrimoniali.

 

Il rodaggio vero inizia con la condi­visione di tutta la vita: del pane spezza­to a tavola, dell’affitto da pagare, della casa da pulire, della biancheria da stira­re. Difficoltà del rodaggio (non difficili da superare, ma pur sempre degne della massima consi­derazione) possono essere: la divergenza dei bisogni ses­suali circa il momento da ri­servare ai rapporti (sera, mattino, pomeriggio), la loro durata, il loro ritmo; la repul­sione causata dalla volgari­tà o dall’aggressività del co­niuge, oppure anche dalla scarsa cura igienica che egli ha verso la sua persona; uno stato psicologico disturbato da conflitti relazionali con un familiare o da qual­che contrasto con il partner.

Due parole sull’impotenza maschile:

la vera impotenza, quella “di erezione”, preclude la possibilità della penetrazione del pene in vagina (l’atto risulta impossi­bile e il matrimonio invalido); l’impoten­za generativa invece, precludendo la sola procreazione, non invalida il matrimo­nio (ma doveva essere dichiarata alla moglie prima delle nozze, nel caso che fosse palese!). Oggi per questo proble­ma esistono notevoli possibilità di in­tervento, a livello medico e psicologico. L’importante è non drammatizzare, ma neppure minimizzare la cosa.

Da parte della donna ci può essere frigidità, cioè mancanza (totale o par­ziale) di partecipazione orgiastica al coi­to. E’ un problema di molte donne, acuito oggi dall’acquisita consapevolez­za dei propri diritti, nonché, bisogna riconoscerlo, dalla enfatizzazione del sesso operata dai vari mass-media (in particolare dal cinema e dalla Tv). Il marito può aiutare la moglie usando tenerezza e abilità (tenga presente che una donna frigida diventa facilmente nevrotica come partner e come madre); ma anche lei è chiamata a ricercare con qualche valido aiuto le origini, spesso inconsce, delle sue difficoltà e a scopri­re le vie di una soluzione.

Tra due coniugi che si amano non è certo assente il litigio. Come non lo era durante il fidanzamento. Litigare è se­gno di vitalità e di dinamismo, a patto che si osservino alcune regole: non avere la pretesa di vincere a scapito dell’altro, non trascendere nei modi e nel linguag­gio (l’altro non deve avere dubbi sul­l’amore e sulla stima del coniuge), evitare l’uso di parole etichettanti e generaliz­zanti, evitare il litigio alla presenza di terze persone (genitori, parenti, amici).

 

AI litigio segue di norma la ricon­ciliazione, che è auspicabile sia tempe­stiva, totale (senza riserve), perenne (senza ritorni). Converrebbe anche analizzare, a posteriori, le cause del litigio, la modalità del suo svolgimento, il contesto spaziale e temporale in cui è avvenuto e la sua conclusione: se ne potrebbero ricavare notizie utili non solo sulla tipologia e l’entità dei conflit­ti presenti nella coppia, ma anche sulle caratteristiche delle due personalità e sul loro modo di interagire.

Molto è affidato alla creatività della coppia e all’amore che la unisce; ma se le cose appaiono un po’ troppo compli­cate, conviene non perdere tempo e ricercare un aiuto esterno qualificato (di un consulente, uno psicologo, un sacerdote, un medico) per sciogliere tempestivamente incomprensioni, ri­serve, rancori, diffidenze, che col tempo possono radicalizzarsi provocando nel­la coppia fratture irreversibili.

 


 

Io sono un camminatore,

guarderò sempre avanti.

O menzogna,

perchè mi chiami indietro?

Non resterò fermo in un angolo della casa

amoreggiando con la morte”.

(Tagore)

 

Per che cosa vivo?

In che cosa credo?

Chi è Dio per me?

 

 

Ogni uomo porta, nel cuore, interrogativi profondi e insopprimibili:

Qual è il senso della vita?

Per chi o per che cosa vivo?

Che cosa significa amare?

Dove sta la felicità?

 

Di fronte a queste domande sentiamo di poter dare risposte diverse,

a volte addirittura opposte,

a volte complementari.

Non solo.

Ci chiediamo anche:

c'è una risposta di verità per queste domande?

O dobbiamo accontentarci di opinioni o di intuizioni del tutto soggettive?

 

Purtroppo c’è anche il rischio di non interrogarsi: ci si accontenta delle ricchezze umane che si hanno e si vive come se tutto dipendesse dai beni terreni (affetti, ideali, salute, casa, lavoro...)

Così si inizia la corsa al “ben‑essere” inteso come “ben‑avere”.

Questo rischio è reso ancora più grave dalla cultura contemporanea.

I modelli di vita che vengono proposti sono infatti molto orientati ad identificare la felicità della vita con i beni che si hanno.

Di conseguenza viene attribuito un grande, o esclusivo, valore alla carriera, ai diplomi, alle ricchezze, alla ricerca dei divertimenti e dei piaceri e non invece alla riflessione sul senso vero della vita e sui fondamenti della autentica felicità.

 

 

L'esperienza dell'innamoramento

Quando un giovane vive una vera esperienza di innamoramento, si rende conto che tutta la sua vita viene illuminata di serietà e di maggior senso di responsabilità.

Incomincia a chiedersi :

quale persona sto accogliendo per tutta la vita?

quale persona sto offrendo a chi mi ama?

sono pronto ad assumere nuove responsabilità?

Di conseguenza, si è molto più spinti ad interrogarsi sui valori più grandi e più veri della vita.

Non illudiamoci, però. Anche nell'innamoramento, purtroppo, si può continuare nell'appiattimento morale e ricercare prevalentemente il piacere e il divertimento, riducendosi ad usare l’altro/a per i propri scopi od interessi immediati.

 

L'interrogarsi sul futuro

Anche nella giovinezza, mentre si vivono esperienze belle e affascinanti, ci si può scontrare con esperienze molto difficili e sconcertanti: pensiamo ad esperienze di dolore, di prove, di morte prematura, di insuccessi. Sorgono domande come queste:

Anche queste domande hanno la capacità di rimettere in discussione tutto il senso della propria vita.

 

ALESSANDRO D'ALATRI, STEFANIA ROCCA E FABIO VOLO
Regista e interpreti di 'Casomai' raccontano la loro esperienza sul set

trucco!

 

trucco!

Una scena del filmtrucco!

Fabio Volo, ex Iena, ex nome di punta del canale televisivo La 7, ex panettiere (come scopriamo scorrendo la sua “curiosa” biografia redatta personalmente) debutta al cinema interpretando il nuovo film di Alessandro D’Alatri Casomai. Scelto, a sentire il regista, per la spigliatezza, la generosità, l’ironia ed una mascolinità evidente ma al tempo stesso fragile, si rivela una piacevole sorpresa nelle inediti vesti d’attore a fianco della “navigata” Stefania Rocca, dalle qualità ancora troppo poco utilizzate dal nostro cinema!

Ma D’Alatri le regala un ruolo di donna “completo”, costruendo attorno a questa inedita coppia cinematografica un divertente, emozionante e sincero girotondo sulle immani “fatiche d’Ercole” per salvare dallo sfacelo una coppia innamorata!

 

Come nasce l’idea del film Casomai?

ALESSANDRO D’ALATRI Era da un po’ di tempo che questa storia mi frullava nella testa. Ho incontrato Anna Pavignano al Premio Solinas e le ho raccontato questa idea. Al cinema prediligo l’osservazione dei comportamenti, e guardandomi attorno mi sono reso conto di questo malessere dei sentimenti e di questa sorta di destino avverso ed ineluttabile che accompagna le storie di coppia. Con Anna abbiamo “studiato” storie di crisi e chiesto la collaborazione di avvocati divorzisti, ed alla fine abbiamo voluto puntare l’attenzione sulle forti pressioni che vivono due persone che stanno insieme. Amici, familiari, conoscenti e colleghi di lavoro benedicono la nascita di una nuova coppia (l’innamorato è il più felice della comitiva, il più produttivo al lavoro, etc), ma quando i due decidono di costituire un nucleo familiare ed inevitabilmente incominciano le prime difficoltà, in questo momento in cui si ha più bisogno dell’affetto e della vicinanza delle persone più care, si rimane soli! Oggi una coppia che si ama è destabilizzante... e non è difficile stare insieme, ma lo diventa riuscirci in questa società che premia il “singolo” in quanto più produttivo (due persone divise hanno due case, due macchine, etc): l’infelictà è un businness!

 

Ed anche le strutture sociali non aiutano molto la coppia...

ALESSANDRO D’ALATRI Avere oggi due figli è come avere due Ferrari, ed è un notevole peso per la società . Non ci si deve lamentare se l’Italia è un Paese a crescita zero, perché la nostra è una società che non è preparata a trattare con i bambini. Un esempio? Provate la sera ad andare ad un ristorante con un bambino, e subito vi renderete conto di come siano un peso e non ci sia spazio per loro. E’ il film più politico che abbia mai scritto, proprio perché si occupa di cose di cui la politica oggi non si occupa più, ossia la quotidiana vita della gente.

 

Come nasce la scelta di Don Livio come voce narrante del film?

ALESSANDRO D’ALATRI Inizialmente con Anna avevamo pensato alla figura di un grillo parlante, ma ci siamo subito resi conto che risultava troppo complicato per il lavoro sugli effetti speciali. Chi poteva allora incarnare questa voce della coscienza? E così è nata l’idea di un prete che vive ai margini, isolato in questo paese, ai bordi della società e che quindi potesse permettersi di essere un provocatore sino a fondo! Per i più curiosi, chi lo interpreta non è un attore ma lo sceneggiatore Gennaro Nunziante!

 

 

Cosa vi ha fatto innamorare di questa storia e del vostro personaggio?

STEFANIA ROCCA Mi sono innamorata immediatamente della storia che D’Alatri voleva raccontare, e di questo personaggio che vive i passaggi di crescita che tutte le donne percorrono (figlia, fidanzata, moglie, madre) sempre osservata con un occhio di riguardo e mai di superficialità. Ci sono molti film che parlano delle coppie, ma qui si parla della quotidianità di vita di una coppia, e la cosa non da assolutamente fastidio.

FABIO VOLO Io sono felicissimo di questa mia prima esperienza cinematografica, e sinceramente non ho fatto molti sforzi per interpretare Tommaso, riconoscendomi in lui per moltissimi aspetti. Lo stesso D’Alatri mi ha detto di aver pensato a me per questo ruolo dopo aver letto il mio libro, e di aver scoperto molte affinità! Mi sono innamorato del regista perché la pensava esattamente come me!

 

Perché è stata scelta la voce di Elisa come “colonna sonora” portante del film?

ALESSANDRO D’ALATRI Credo che la voce di Elisa sia una delle più potenti della musica italiana. E l’incontro è nato veramente casualmente e sotto i migliori auspici: mentre ritornavo in macchina da un sopralluogo e pensavo ad alcune canzoni di Elisa per il film, ricevo una chiamata sul telefonino: era Caterina Caselli che mi chiedeva se ero disponibile a girare il video di un nuovo brano di Elisa!

 

E la scelta di ambientare a Milano questa storia?

ALESSANDRO D’ALATRI A prescindere dalle professioni dei due protagonisti (pubblicità e moda), Milano è la città che, a mio avviso, esercita la pressione maggiore sui comportamenti degli esseri umani. Sicuramente perché è la città più “moderna” del paese, ma anche perché vi risiedono industria, moda, tv e pubblicità. A Milano l’immagine pesa più che in qualsiasi altra città: i manifesti sono grandi come palazzi, ed i modelli di maschilità e femminilità sono irraggiungibili. Di conseguenza qui vivi un senso di inadeguatezza per ciò che sei in modo più pressante!

 

Cosa pensate del matrimonio?

STEFANIA ROCCA Fino a poco tempo fa ne ero spaventata, ma questo film mi ha molto aiutato a riflettere: il matrimonio è importante come valore personale, e quando mi sposerò lo farò soltanto perché ci crederò fino in fondo.

FABIO VOLO Io ci credo moltissimo, e per questo non sono ancora sposato! E credo seriamente che sia un impegno da mantenere e rispettare con tutte le nostre forze!

 

 

Riprendiamo le domande iniziali

 

Per che cosa vivi?

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In che cosa cerchi la felicità?

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Fai l'esperienza della felicità?

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2

 

Rilevanti cambiamenti strutturali hanno modificato il rapporto di coppia e le dinamiche fra genitori e figli.

 

 

Nuove relazioni familiari

 

La grande stagione del cambiamento della famiglia italiana è ormai alle nostre spalle. Con l’approvazione del nuovo diritto di famiglia e l’introduzione dell’istituto del divorzio; con la depenalizzazione dell’aborto; con l’instaurarsi di nuove modalità di relazione fra uomo e donna, e con una serie di altri mutamenti, il cambiamento della famiglia ha subito una brusca accelerazione e gli anni ‘90 appaiono un periodo di assestamento.

Ciò non significa che la famiglia ita­liana non continui a cambiare, ma certo il mutamento che l’attraversa ha assunto e assumerà altre forme ed altre dimensioni.

La prima sfera di cambiamenti delle modalità di relazione familiare riguarda il nuovo rapporto che si è venuto a determinare fra pubblico e privato. Potrebbe sembrare, questo, un tema ininfluente sulla modalità delle relazioni familiari; ma in realtà esse non sono mai esclusivamente private o interiorizzate ma sono in qualche modo socialmente mediate.

Vi sono state alcune indebite accentuazioni di questa egemonia del pubblico sul privato; ma non vi è dubbio che solo illusoriamente si può ritenere che chiudere porte e finestre della propria casa significhi tagliare i ponti con la società: la società è in noi stessi, nel nostro modo di lavorare, di vivere, di pensare.

 

Ciò è sempre stato vero, ma lo è a maggior ragione in un’epoca come l’attuale in cui basta premere il pulsante del televisore, e tutte le inchieste pongono in evidenza quanto diffuso e persistente sia il ricorso alla televisione, anche nei bambini, perché uno spezzone della società (non certo tutta la società!) penetri fra le pareti domestiche. Non esistono, dunque, “isole” più o meno “felici”: la famiglia è in mare aperto ed attraversata dalle correnti che agitano tutta la società.

La privatizzazione della famiglia è un sogno ed un’utopia, dunque: essa sta piuttosto a indicare che dei “messaggi” che la società formula, soltanto alcuni vengono recepiti e introiettati dalla famiglia, e più specificamente quelli che sembrano andare in direzione del rafforzamento del privato.

Un certo modello di coppia integrale e “fusionale”, del tutto ripiegata sulla sfera affettiva e sentimentale; una casa bella, confortevole, accogliente; l’automobile che consente frequenti spostamenti e viaggi, e così via: tutti questi messaggi solo apparentemente sono espressione del “privato”; in realtà vengono surrettiziamente proposti, e di fatto imposti, al “privato” da una sfera pubblica, in questo caso da una certa cultura o da un certo sistema produttivo, che dall’esterno tende a condizionare il privato. Le persone credono di rifugiarsi nella loro rassicurante intimità, ed invece questa intimità è spesso definita, plasmata, quasi preconfezionata da persone che non sono i soggetti della relazione familiare.

 

In questa luce privatizzazione della famiglia significa non tanto esclusione della sfera del pubblico, ma assoggettamento a quella specifica sfera del pubblico che, per essere accettata, assume surrettiziamente la forma del privato: si crede di decidere e si è oggetto di altrui decisioni; si crede di scegliere ed invece in qualche modo si è già scelti, da altri....

Uno dei paradossi dell’attuale stagione dell’Occidente, di quella che viene ormai chiamata la stagione della “post-modernità”, è questa illusione di privatezza cui si accompagnano condizionamenti esterni non meno pesanti e non meno cogenti di quelli di ieri.

Il nodo da sciogliere diventa conseguentemente quello dell’instaurazione di nuove forme di rapporto fra pubblico e privato, muovendo dal presupposto che, in una società articolata e complessa come l’attuale, il “puro privato” non esiste, non può esistere più: si tratta soltanto di scegliere tra uno pseudo-privato che in realtà è frutto di sottili e inavvertite manipolazioni, ed un autentico privato che è e può essere soltanto il frutto di un maturo e consapevole rapporto con la società, dal quale ed attraverso il quale la famiglia possa liberamente scegliere quali messaggi accogliere e quali rifiutare.

La società contemporanea tende ad erodere progressivamente la sfera del privato, a proiettare la famiglia sul piano del pubblico anche quando essa non ne abbia consapevolezza (gli individui credono di essere autonomi e sono invece guidati e manipolati da altri) e a immettere nel corpo sociale forti spinte verso una nuova dimensione tra pubblico e privato.

 

Il crescente isolamento della famiglia determina, per effetto della sua radicalizzazione, spinte di segno con­trario, in direzione, cioè, di nuove for­me di rapporto e di collegamento tra le famiglie, di nuove reti di vicinanza e di solidarietà. Non sono più vicinanze e solidarietà “naturali”, quali erano nell’antica società contadina ed anche nel­la realtà operaia fino agli anni Cin­quanta, ma in qualche modo reti “arti­ficiali”, che le famiglie si costruiscono e di cui comunque avvertono fortemente il bisogno.

L’ambito in cui vengono a maturazio­ne, a volte in forme di estrema radicaliz­zazione, le linee di mutamento presenti già a partire dagli anni Sessanta, è quello del rapporto di coppia, in generale e specificamente nella sua dimensione fa­miliare. Il fatto nuovo degli anni Novan­ta non è il femminismo ma, per così dire, un femminismo che raggiunge le masse.

Ciò che duecento anni addietro era patrimonio di poche “suffragette” esposte alla facile ironia maschile; ciò che trent’anni addietro sembrava pe­rentoria e quasi nevrotica ri­vendicazione di ristretti gruppi intellettuali, è diven­tato ormai un fatto di massa. E’ probabilmente questo il mutamento più profondo, in un certo senso epocale, intervenuto nell’universo fa­miliare.

Se alcuni fatti per così dire “esteriori”, quali l’accre­sciuta instabilità matrimo­niale o il forte restringimen­to della dimensione della famiglia per l’esclusione degli anziani e per la con­trazione della natalità, appaiono più vistosi e vengono spesso ritenuti i cam­biamenti più significativi ed influenti, è invece nell’area del rapporto fra uomo e donna che si è consumata quella che può essere considerata la più grande significativa “rivoluzione silenziosa” del ventesimo secolo.

Bruciate ormai le scorie di certo fem­minismo competitivo e rivendicativo, resta nell’immaginario collettivo que­sta idea, o se si vuole questo mito, della “parità”; e poche idee come questa han­no inciso ed ancor più incideranno sullo stile delle relazioni familiari.

In questi anni, per la prima volta nella storia, si è realizzata nel sistema scolastico l’eguale partecipazione dei due sessi, con un movimento che ha raggiunto anche l’università. Nessuna sensibile differenza è ormai percepibile nell’accesso all’istruzione di maschi e femmine, a tutti i livelli.

 

Eguali mutamenti si sono verifica­ti nella spinta all’accesso al lavoro ex­tradomestico. Certo, il tasso di occupa­zione femminile, almeno quello evi­denziato dalle statistiche, è ancora largamente inferiore a quello maschile, ma si è ormai fatta strada nella cultura comune la convinzione dell’eguale di­ritto al lavoro di uomini e donne. Pre­sente ancora nel costume, la discrimi­nazione fra i sessi sotto il profilo del­l’accesso al lavoro è superata dalla legi­slazione e in parte anche dalla cultura dominante.

Se in talune sfere della vi­ta e in alcune aree del Paese, basti pensare al rapporto fra donna e politica o alla condi­zione della donna in vaste aree del Mezzogiorno, que­sto cammino verso la parità, o più propriamente verso la reciprocità, segna battute di arresto, tuttavia il rapporto fra uomo e donna nella fami­glia appare profondamente segnato, in positivo e in nega­tivo, da questo insieme di mutamenti.

In positivo, perché una relazione col­locata su un piano di reciprocità, di integrazione, di complementarità, ap­pare potenzialmente più ricca, più si­gnificativa, più creativa; in negativo, perché il passaggio dalla “struttura pa­terna” (a dominante maschile) alla “struttura fraterna”, basata appunto sulla reciprocità, appare difficile e spes­so traumatico: l’ordine familiare sembrava, almeno in apparenza, me­glio garantito da una struttura autori­taria che non da una paritaria; la demo­crazia, anche la “democrazia familiare”, fatta di confronto, di divisione, in qualche modo di “contrattazione”, ha tempi e costi, ma anche risorse ed op­portunità, diversi da quelli della “auto­crazia familiare” per migliaia di anni dominante nella storia dell’uomo.

 

La “nuova coppia” è quella che si caratterizza ormai per una notevole flessibilità, se non per un’assoluta in­terscambiabilità dei ruoli. Lo stesso ridimensionamento del fenomeno della maternità evidenzia un fatto di cui troppo spesso si sottovalutano le impli­cazioni culturali: la maternità non è più tutta la vita della donna (della donna del passato, la cui esistenza, dalle gravidanze precoci alla morte essa pure precoce, era tutta incentrata sulla funzione materna), ma ne è solo uno spicchio, quasi una parentesi, all’inter­no di un’esistenza non più ritmata pre­valentemente dai figli ma da altre real­tà: lo studio, il lavoro, l’impegno nella vita pubblica, la stessa relazione coniu­gale recuperata e in qualche modo ri­scoperta al di là del suo tendenziale e tradizionale appiattimento sulla rela­zione genitoriale.

Certo, il figlio è oggi oggetto di un forte investimento affettivo: ma questo investimento affettivo è comune, o po­trebbe essere e di fatto spesso è, ad entrambi i genitori.

La genitorialità è un elemento comu­ne, a differenza della maternità, ele­mento specifico: nella cultura moderna si assiste appunto ad un vistoso sposta­mento della femminilità dall’area dello specifico, la maternità, all’area del generale, la genitorialità, appunto, e questa è, nella storia, una vera e pro­pria rivoluzione.

L’esperienza della maternità, dun­que, si è spostata dal centro alla perife­ria della vita della donna e della stessa relazione coniugale.

 

Ecco dunque la prima e fondamen­tale connotazione della nuova coppia, sotto questo aspetto profondamente di­versa da quella del passato: una coppia nella quale la relazione coniugale ha decisamente la prevalenza su quella genitoriale. Sarebbe interessante ana­lizzare in quale misura la mancata evo­luzione della dimensione relazionale incida sulle crisi di coppia che interven­gono negli anni della piena maturità, quando la funzione genitoriale rimane definitivamente in ombra e la coppia che su di essa soltanto si fosse appiatti­ta si ritrova povera, sola e muta.

Ma il mutamento è avvertibile anche sotto un secondo profilo, e cioè l’inseri­mento professionale della donna, che modifica profon­damente lo stesso rapporto uomo-donna nel matrimo­nio. La novità non è rappre­sentata dal lavoro della don­na, in sé e per sé: la donna ha sempre lavorato, spesso più duramente e continuativa­mente dell’uomo. Ma in pas­sato il lavoro della donna si svolgeva all’interno della sfe­ra di controllo, se non addi­rittura di dominio, dell’uomo, come lavoro agricolo od artigianale, ma sem­pre subalterno.

Le prime esperienze di fabbrica non hanno in sostanza scalfito questo mo­dello, sia per la struttura intimamente “patriarcale” delle aziende delle prime generazioni industriali, sia perché il salario femminile veniva tradizional­mente considerato come integrazione e completamento del salario maschile (di quello del padre per le nubili, di quello del marito per le coniugate).

 

Oggi, invece, lavoro dell’uomo e lavoro della donna sono entrambi auto­nomi e comunque reciprocamente in­terdipendenti l’uno dall’altro (anche se non è certo scomparso il modello dell’azienda familiare, sia nelle campagne sia nella piccola industria ed in alcune componenti del settore terziario). Ciò pone un problema di relazione per mol­ti aspetti nuovo: le due diverse profes­sionalità rischiano di essere due paral­lele che non si incontrano mai o che, se si incontrano, entrano in rotta di colli­sione. Questo stato di cose è aggravato dal persistente rifiuto di gran parte dell’universo maschile di accollarsi compiti domestici (numerose indagini lo evidenziano con estrema chiarezza).

In altri termini, vi era in passato una divisione di compiti modellata sulla di­visione di ruoli fra marito-lavoratore extra-domestico e moglie lavoratrice domestica; dicotomia che è persistita e persiste, almeno a livello di mentalità, anche là dove la nuova coppia di rela­zione è rappresentata da lavoro extra­domestico aggiunto a lavoro domestico.

Questo stato di cose è foriero di tensioni e conflittua­lità: sarà probabilmente il problema fondamentale del­la futura relazione di coppia e certo causa di potenziali tensioni, ma insieme di arric­chimento della coppia se que­sta saprà fare della “famiglia a doppia carriera” non il luo­go di incontro di due espe­rienze incomunicabili ma l’integrazione di due diverse sensibilità e personalità all’interno di una comune con­duzione dei compiti domesti­ci e della funzione educativa.

Un’ulteriore importante sfera di cambiamenti delle modalità delle relazioni fa­miliari che apparentemente non riguarda la coppia né la famiglia nella sua globalità, ma soltanto le nuove genera­zioni, è rappresentata dalla eclisse del­la società fraterna.

Avere un fratello e una sorella è stata per centinaia di anni l’esperienza quo­tidiana di tutti i nuovi nati. Da una trentina di anni a questa parte in Occi­dente, e, con particolare accelerazione, nell’Italia dagli anni ‘80 in poi, questo modello è in via di superamento. Il tasso medio di fecondità per donna si è talmente ridotto che oggi oltre un terzo dei bambini italiani sono figli unici, e figli unici quasi sempre per scelta deli­berata dei genitori. In talune aree del Nord il modello del figlio unico si è ormai affermato come dominante e le famiglie con due o più figli sono ormai l’eccezione, non più la regola.

Questo restringimento della fami­glia determina una serie di importanti, e sinora poco esplorate, ripercussioni sulla stessa dinamica interna della vita di famiglia, sia dalla parte dei genitori sia dalla parte dei bambini.

 

Dalla parte dei genitori, la scelta, quasi sempre volontaria, del figlio unico si esprime in forme di forte con­centrazione affettiva sull’unico figlio desiderato, voluto, accettato. L’artico­lata dialettica che nelle famiglie non solo del remoto ma anche del recente passato si determinava fra genitori e figli si concentra in un modulo “unidi­rezionale”, quello che va dalla coppia genitoriale al bambino.

La persona del figlio, il suo futuro, la sua autorealizzazione, la sua “carrie­ra”, si carica di una serie di attese sempre più elevate, spesso tanto più elevate quanto più modesto il livello di partenza dei genitori. Sul figlio si coagula un “sistema di attesa” che carica il rapporto padre-figlio e madre-figlio di connotazioni affettive sempre più forti e cogenti, al limite non del tutto favorevoli al pieno esplicarsi della personalità del bambino. La prolungata permanenza in famiglia di giovani adulti sembra collegata a questa difficoltà di distacco dalla fa­miglia di origine, difficoltà tanto maggiore quanto più la famiglia è ristretta e quanto più i rapporti affettivi si fanno stretti e profondi.

Nello stesso tempo, concentrata e in1 qualche modo “drammatizzata” per l’assenza di alternative, l’affettività dei genitori può assumere a volte forme esasperate e quasi ossessive e introdurre nella dinamica della coppia elementi di frizione e talora di aperto conflitto, quando la “resa professionale” od an­che le scelte di vita del figlio non corri­spondono a quelle dell’uno o dell’altro genitore (o di entrambi).

 

Considerazioni analoghe posso­no farsi, anche se solo per analogia, per le famiglie che hanno due figli (statisti­camente il gruppo attualmente ancora più numeroso). Anche qui si determi­na, seppure in minor misura, il fenome­no della «concentrazione affettiva”, con i conseguenti problemi che ne derivano per il processo di autonomia dei figli: e qui si intende autonomia reale, non quella apparente che si collega alla ca­duta di pressoché tutte le forme di controllo del comportamento dei figli a partire dalla prima adolescenza, alme­no per la maggioranza delle famiglie.

In altri termini, la relazione di cop­pia è strutturalmente condizionata dalla presenza e dal numero (oltre che dall’età) dei figli. La coppia moderna, che si confronta con uno o due figli, rappresenta sotto questo aspetto una realtà completamente nuova e che nessuna società del passato ha conosciuto, almeno a livello di massa.

Considerazioni analoghe, ma in altra prospettiva, possono farsi per il “vissu­to” dell’esperienza familiare tipico dei figli unici, in relazione alla scomparsa, o alla riduzione, della “società frater­na”. Allora si evidenzia che dietro il normale “vissuto” degli adulti di oggi, uomini e donne, sta l’inconsapevole esperienza della fraternità.

 

Un’esperienza paradossale, perché insieme amicale e conflittuale: la paradossale esperienza dell’affetto che normalmente permane e si svilup­pa attraverso la rivalità e le spesso aspre contese dell’infanzia e dell’adole­scenza. Sotto questo aspetto la società fraterna è un fondamentale e probabil­mente insostituibile luogo di rivalità mediata dall’amicizia, esperienza pro­fondamente diversa da quelle che in ambiti diversi dalla vita familiare nor­malmente si fanno: quella della rivalità senza amicizia, o quella dell’ amicizia senza rivalità. Nel momento in cui la “società fraterna” viene meno, entra in crisi una fondamentale esperienza del­l’uomo e della donna.

Ciò non significa che della “società fraterna” non si possano dare sostituti, nell’ambito della famiglia estesa o della scuola materna od elementare, nelle amicizie intrecciate nel quartiere o nel vicinato. Troppo poca attenzione viene accordata a questa forte esigenza di socializzazione. Certi atteggiamenti egocentrici, individualistici, intimistici che vengono segnalati nelle nuove ge­nerazioni, e a volte la stessa difficoltà di giovani a stabilire un rapporto rela­zionale profondo e non limitato al solo piano della “comunicazione sessuale” con l’altro sesso, hanno indubbiamen­te la loro spiegazione nell’eclissi della società fraterna. Anche di qui deriva una serie di nuovi problemi per la cop­pia e per la famiglia del futuro.

In sintesi, la “rivoluzione demografi­ca” alla quale assistiamo sta determi­nando un fenomeno di concentrazione dei rapporti affettivi sconosciuta in passato: mai come oggi i rapporti tra madri (ed anche padri) e figlio/figli si sono fatti continuativi, prolungati, in­tensi, profondi. Ciò che ieri era impos­sibile contemporaneamente per i pro­lungati tempi di lavoro extradomestico e per la molteplicità dei figli ai quali accordare le proprie cure, oggi è diven­tato possibile. Le nuove opportunità vanno collegate alla possibilità di rap­porti che nelle varie età della vita, dei bambini e dei genitori, possono espri­mersi in forme varie e duttili, con ampi spazi di tempo (almeno potenziali) e in condizioni ambientali ed abitative che favoriscono il dialogo e lo scambio.

I nuovi rischi si riconducono alla ten­denza ad esercitare sui figli una presa tanto forte e cogente, al limite ossessiva ed oppressiva, da non lasciare altro spa­zio che la rottura violenta o il conformi­smo: di qui la tendenza non tanto a proporre ma ad imporre modelli, stili di vita. Non è facile, per il figlio della famiglia ristretta e fortemente affettiva di oggi, compiere scelte autonome, sce­gliersi la propria strada, pagare il prezzo necessario per l’uscita dal nido e per la rottura del cordone ombelicale che, visi­bilmente o meno, lega sempre i figli alle madri (e, in senso traslato, anche ai padri).

 

 

 

 


 

 

Le coppie si trovano oggi ad affrontare situazioni inedite legate al prolungarsi della permanenza nella famiglia d’origine, alla minore incidenza dei valori tradizionali riguardo al matrimonio ed alla famiglia, all’impoverimento di ideali che spesso motivano la scelta di sposarsi e di formare una famiglia.

Per sua natura il rapporto di coppia proietta i giovani verso le grandi scelte della vita e a sperimentare la bellezza dell’incontro, della conoscenza e del camminare insieme.

Ma questo importante processo, da cui alla fine dipende la felicità delle persone e della coppia, è lasciato alla spontaneità e all’evolversi delle cose.

C’è in definitiva  un grosso slancio sentimentale che carica il rapporto di coppia di grosse aspettative umane ed affettive, ma le relazioni non sono radicate in un sistema di valori e in un quadro istituzionale.

E’ logico quindi  che il passaggio dal fidanzamento al matrimonio non sempre determina l’assunzione piena di responsabilità nei confronti dell’altro e dei figli.

Quando il rapporto di coppia con il matrimonio non passa dal semplice star bene insieme al dono totale di sé è facile che una volta sposati ci si accorga di aver fatto un passo a cui non si era preparati.

La nascita della coppia non è un fatto razionale. Il rapporto affettivo e di coppia non si costruisce a tavolino. L’innamoramento è uno degli eventi più straordinari della vita perché rappresenta l’apertura del proprio Io ad un Tu con il quale si decide di condividere la propria esistenza.

L’amore sorge con l’attrazione reciproca, ma diventa “coniugale” quando diventa una scelta matura e consapevole da parte di entrambi.

Ci si può innamorare di una persona perchè suscita interesse e possiede un certo fascino, ma non si può dire di avere un rapporto autentico di amore se non si conosce a fondo l’altra persona e non si è scelto di condividere la vita con lei.

Inoltre l’amore di coppia ha un carattere specifico che non può essere confuso con la semplice attrazione o con un sentimento generico di affetto.

Il matrimonio è dato infatti dal consenso che sancisce la piena comunione di vita.

Il consenso nasce dal desiderio di condividere la propria vita con l’altro ma è soprattutto un’espressione, razionale e deliberata, della volontà di realizzare assieme all’altro una famiglia..

Col proprio consenso i due diventano una cosa sola, accettano di non vivere più per se stessi ma “con” e “per” l’altro.

E’ il momento in cui due coscienze devono giungere a condividere principi e scelte che spesso non hanno maturato neanche personalmente.

L’amore pone la coppia in cammino verso una meta che sovrasta entrambi, e con un cammino che è comunque ricerca di verità e di autenticità.

L’essere umano è capace di rinnovarsi, di rinascere: ed innamorarsi è esperienza soggettiva della nascita, la creazione di un nuovo mondo.

Ma poi perché ci sia un senso occorre crescere, occorre progettare e costruire insieme.

 

 

In quali valori credi?

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Il passaggio dall’innamoramento al legame definitivo esige la piena condivisione dei criteri di riferimento

 

Coscienza morale tra sentimento e razionalità

 

 

Le dinamiche relazionali della coppia sono soggette oggi a forti trasformazioni dovute sia alla condizione psicologica dei giovani in generale, sia alla maturazione della coppia nell’attuale contesto sociale e culturale. In una fase di veloci cambiamenti non è facile cogliere tutti i fattori di incidenza né individuare con precisione le linee di tendenza.

E’ certo però che le coppie si trovano ad affrontare situazioni inedite legate al prolungarsi della permanenza nella famiglia d’origine, alla minore inciden­za dei valori tradizionali riguardo al matrimonio e alla famiglia, all’impove­rimento degli ideali che molto spesso motivano la scelta di sposarsi e di crea­re una famiglia.

Per sua natura il rapporto di coppia proietta i giovani verso le grandi scelte della vita e a sperimentare la bellezza dell’incontro, della conoscenza e del camminare insieme. Ma questo impor­tante processo, da cui alla fine dipende la felicità delle persone e della coppia, è lasciato alla spontaneità e all’evolversi delle cose. I giovani ritengono impor­tante la fedeltà reciproca e il rispetto, ma appare più una pretesa e un bisogno che una motivata scelta di vita. Di fronte alle prime difficoltà, caduto il trasporto sentimentale, scompaiono anche fedeltà e rispetto.

Viene allora da domandarsi quale sia il significato e il valore che danno i giovani al rapporto di coppia e come si pongono di fronte alle responsabilità morali legate a tale relazione sia nella fase del fidanza­mento che della successiva vita coniugale. Quale rile­vanza assume la coscienza morale nella vita della coppia in considerazione dei senti­menti e delle convinzioni ra­zionali che guidano le scelte dei fidanzati e dei giovani sposi?

I giovani che vivono un legame affettivo non amano, in genere, considerarsi fidanzati, e non solo per una questione terminologica. In molti casi nascondono una certa reticenza a sentirsi legati e impegnati nei confronti dell’altra persona. L’uso, anche in presenza di un rapporto ormai consolidato, delle espressioni “stiamo insieme” o “siamo buoni amici” al po­sto del classico “siamo fidanzati” rivela la tendenza a considerare il rapporto di coppia più in riferimento all’esperienza immediata che al suo naturale orienta­mento verso il matrimonio. La recipro­ca attrazione e lo star bene insieme esauriscono spesso lo spazio progettua­le della coppia.

Una tale considerazione dovrebbe portare i giovani a scegliere la convi­venza invece che il matrimonio. In real­tà le statistiche dicono che la percen­tuale delle convivenze, almeno in Italia, è bassa. Emerge una contraddi­zione tra l’atteggiamento psicologico e le scelte che poi vengono fatte.

 

Nelle inchieste e nei colloqui che si fanno con i fidanzati in preparazione al matrimonio emergono anche le cause di tale contraddizione. Le coppie, inter­pellate sui motivi che le spingono a sposarsi o messe di fronte alla doman­da: «Perché non convivere invece di sposarsi?» denunciano la mancanza di motivazioni e di convinzioni profonde.

Il 60% risponde che la scelta di spo­sarsi fa parte di un processo naturale ed è resa necessaria dal contesto sociale in cui si vive, ma non sono in grado di spiegare che cosa determini il passaggio dal fidanzamento al matrimonio. Il 25% ammette che si sposa per semplice tradizione e che se non ci fosse il condiziona­mento dei genitori e dell’am­biente non avrebbe fatto una tale scelta. Solo un 15% delle coppie è in grado di definire con una certa chiarezza e consapevolezza i motivi che li spingono a sposarsi.

Tra questi motivi emergo­no il significato religioso del­la consacrazione sacramen­tale, la necessità di garantire ai figli un’accoglienza adeguata in una fami­glia, il dovere di costituirsi come nucleo familiare di fronte alla società civile con i relativi diritti e doveri.

E’ evidente che il matrimonio eserci­ta ancora un forte fascino nella vita dei giovani, ma le motivazioni sono poco chiare e comunque prevalgono motivi esteriori più che convinzioni interne e maturate insieme. La forte carica emo­tiva porta la coppia a vivere una relazio­ne molto intensa dal punto di vista sentimentale ma poco assimilata sul piano della elaborazione progettuale e valoriale.

 

Di qui nasce l’apprezzamento per la famiglia come luogo di vita e di espressione dell’amore reciproco tra marito e moglie e tra genitori e figli, ma risulta poco rilevante il matrimonio come scelta istituzionale o sacramenta­le che impegna la coppia in ordine ad un progetto civile ed ecclesiale.

C’è in definitiva un grosso slancio sentimentale che carica il rapporto di coppia di grosse aspettative umane e affettive, ma le relazioni non sono radi­cate in un sistema di valori e in un quadro istituzionale.

E’ logico quindi che il passaggio dal fidanzamento al matrimonio non sem­pre determina l’assunzione piena di responsabilità nei confronti dell’altro e dei figli. Quando il rapporto di coppia con il matrimonio non passa dal sem­plice star bene insieme al dono totale di sé è facile che una volta sposati ci si accorga di aver fatto un passo a cui non si era preparati. Le ricorrenti crisi vissuta dai giovani spo­si, che in certe zone riguarda­no il 50% delle coppie, costi­tuisce un fenomeno tipico della società contemporanea e denuncia il modo superfi­ciale con cui molti giovani affrontano l’impegno coniu­gale e familiare.

La nascita della coppia non è un fatto razionale. Il rapporto affettivo e di coppia non si costruisce a tavolino. L’innamo­ramento è uno degli eventi più straordi­nari della vita perché rappresenta l’apertura del proprio Io ad un Tu con il quale si decide di condividere la propria esistenza. L’amore sorge con l’attrazio­ne reciproca, ma diventa “coniugale” quando diventa una scelta matura e consapevole da parte di entrambi. Il passaggio dall’innamoramento al­l’amore coniugale non è né automatico né consequenziale.

Ci si può innamorare di una persona perché suscita interesse e possiede un certo fascino, ma non si può dire di avere un rapporto di amore autentico se non si conosce a fondo l’altra perso­na e non si è scelto di condividere la vita con lei. Inoltre l’amore di coppia ha un carattere specifico che non può essere confuso con la semplice attrazione o con un sentimento generico di affetto. Come l’amore verso i genitori trova la sua specificità nella dedizione del padre e della madre verso i figli e nella ricono­scenza dei figli verso i genitori, così l’amore sponsale presuppone l’appar­tenenza e la donazione reciproca di un uomo e una donna.

 

Il sentimento quindi non basta, o perlomeno non è sufficiente, per costi­tuire una famiglia. Il matrimonio è dato infatti dal consenso che sancisce la piena comunione di vita. Il consenso nasce dal desiderio di condividere la propria vita con l’altro ma è soprattut­to un’espressione, razionale e delibera­ta, della volontà di realizzare assieme all’altro una famiglia. Con la manife­stazione pubblica del proprio consenso i due diventano una cosa sola, accettano di non vivere più per sé stessi ma “con” e “per”.

Il valore del consenso è oggi molto sfumato. Più che agli impegni solenni ci si affi­da al comune sentire e al naturale evolversi delle si­tuazioni. Se questo atteggia­mento fa sembrare più per­sonale e spontaneo l’amore, dall’altra parte rappresenta spesso una sottile illusione.

Molte coppie nascondono le loro insi­curezze e i vuoti di progettualità dietro un’intensa relazione affettiva in genere collegata ad un esercizio della sessuali­tà prematrimoniale. Non si accorgono che la sessualità fuori del matrimonio, cioè fuori di una scelta definitiva e irrevocabile, rappresenta un unione fittizia e in parte illusoria.

Il sentimento e la razionalità sono ugualmente necessari per rendere sta­bile e solida la relazione di coppia. Il sentimento deve essere vagliato dalla razionalità delle scelte e la razionalità dell’impegno che progressivamente viene assunto deve accrescere il senti­mento di bene reciproco e di donazione.

 

La complessa vicenda del passag­gio dall’innamoramento al legame sta­bile e definitivo è anche la fase estrema­mente delicata in cui si modella e si definisce la coscienza morale della cop­pia. E’ un momento importante perché due coscienze devono giungere a condi­videre principi e scelte che spesso non hanno maturato neanche personal­mente. Nell’attuale cultura segnata dal soggettivismo e dal relativismo morale è facile che i giovani si avventurino nell’esperienza della relazione di cop­pia senza orientamenti morali o criteri di riferimento.

Il fatto di non sentire la presenza di Dio che opera nella loro vita porta le coppie a fare della propria sensibilità l’unico criterio di giudizio e di regola morale. Oltre alla evidente soggettività e relatività delle valutazioni morali questa attitudine rende le coppie inca­paci di porsi con un atteggiamento cri­tico di fronte ai messaggi, spesso privi di valori, veicolati dai grandi mezzi di comunicazione.

La relazione di coppia apparente­mente liberata da ogni rigore morale esterno in realtà rischia di perdere la misura e il senso più profondo del­l’amore stesso. La morale cristiana, se ben intesa, non è riduttiva ma liberan­te, perché conduce la coppia a crescere nella misura dell’amore di Cristo che ha dato sé stesso per la Chiesa. L’inse­rimento dell’amore umano in quello divino non espropria la coppia dei senti­menti e della libertà, ma la rende parte­cipe della gratuità con cui Dio ama.

 

Il vero amore infatti è quello ispi­rato alla gratuità del dono, un dono totale che non è reso possibile nella sua compiutezza né dal sentimento, né dal­la razionalità, ma solo dalla grazia co­me evento che investe la coppia e la rende sempre più conforme al modello supremo dell’amore.

Gesù ha dato anche alle coppie una norma morale fondata sul suo esempio:

«Amatevi gli uni e gli altri come io vi ho amati» (Gv 15, 12).

L’ambito dove maggiormente si ac­centua il conflitto tra le scelte di coppia e le indicazioni della morale cristiana è certamente quello della sessualità. L’insegnamento della Chiesa, che attri­buisce un grande valore alla verginità prematrimoniale e alla castità coniuga­le, viene sentito come estraneo e fuori moda. Il problema non si può liquidare dicendo che tutti i giovani sono insensibili e pri­vi di valori, e che la Chiesa è ancorata a norme morali su­perate. La questione è molto più complessa e va affrontata tenendo conto dell’influsso che la modernità ha esercita­to sul nostro tempo e in par­ticolare sui giovani.

La modernità infatti è contrassegnata da una forte attenzione all’uomo e alle sue capacità tecnico-scientifiche. Più che all’essere si guarda all’apparire e quindi all’im­magine. Il fare e l’avere sono diventati il termine di riferimento. Si dice non a caso “ho il ragazzo/a” o “ho fatto l’amore”. La sessualità nella mentalità cor­rente è considerata tra le cose da usare e da sperimentare.

Ne consegne che l’amore è spesso confuso con l’attrazione fisica e con il piacere o il divertimento derivante dal­l’esercizio della sessualità. E stata ro­vesciata la scala dei valori. Invece di camminare verso la pienezza dell’amo­re che si esprime nel diventare una sola carne, si affida alla sessualità il compito di tenere unita la coppia. La Chiesa insegna che la sessualità, quale segno del dono reciproco e dell’essere ormai una cosa sola, ha il suo naturale ambito di esercizio nel matrimonio dove è ga­rantita la vera e totale unità delle per­sone e dove l’atto sessuale può essere vissuto serenamente come gesto di unione e di amore fecondo aperto con­cretamente alla generazione della vita.

L’amore non è un prodotto dello stare insieme, è un evento che trascen­de la coppia e la pone in cammino verso una meta che sovrasta entrambi. L’amore autentico trascende e trasfi­gura le persone per conformarle al mo­dello originario dell’amore che viene da Dio e a Lui conduce.

 

L’amore nella sua radice è no­stalgia dell’assoluto e ricerca di una pienezza che non nasce dalla somma delle due individualità. L’amore è in certo senso un miracolo per­ché fa nascere nella coppia qualcosa d’altro che scaturi­sce da essa ma non si esauri­sce in essa. L’amore infatti unisce la coppia, ma soprat­tutto manifesta il suo carat­tere specifico nella fecondità.

Il punto discriminante per verificare la qualità del­l’amore nella coppia è oggi proprio l’atteggiamento di fronte alla fecondità, sia fisi­ca che spirituale. La coppia che si accontenta della reci­proca gratificazione resta lontana dalla vera bellezza dell’amore e pone le premes­se per l’inaridimento. L’amore vero non accetta di essere imprigionato dentro il reciproco bisogno affettivo.

Il paradosso della nostra epoca, ben documentato dal­l’impressionante calo demo­grafico, consiste proprio nel­l’illusione di preservare e accrescere la qualità dell’amore depotenziandolo della sua fecondità.

Quando nella sessualità vengono scissi arbitrariamente i due significati, unitivo e procreativo, non si tutela né l’amore né la vita, ma si creano le premesse per minare il nucleo centrale dell’amore che è dato dal dono totale di sé e dall’apertura generosa alla vita.

I giovani sentono l’attrazione verso l’amore, e non potrebbe essere diversa­mente, ma non si accorgono di imboccare spesso una strada che li allontana da ciò che ricercano. Il processo di sempli­ficazione introdotto dalla mentalità corrente nel rapporto di coppia (più amore e libertà = divertimento ed esclusione dei figli; maggiore rispetto e autenticità del rapporto = esclusione di ogni impegno matrimoniale e genito­riale...) è alla radice delle crescenti diffi­coltà a cui vanno incontro in modo particolare i giovani sposi. delle

Attualmente in Italia il 60% delle coppie che si sposano chiedono il matrimonio concordatario. Una percentuale così alta lascia perplessi, soprattutto se la si confronta con la religiosità dei giovani. C’è indubbia­mente una discordanza tra la fede professata in genere dai giovani e la richiesta di rice­vere il sacramento del matri­monio. Non bisogna però trarre conclusioni affrettate.

La scelta di sposarsi in Chiesa non deve essere attri­buita solo al radicamento della tradi­zione o agli aspetti esteriori della ceri­monia nuziale. I giovani che decidono di ricevere il sacramento, seppur spesso lontani dalla pratica religiosa, intuisco­no che il matrimonio è un avvenimento in cui oltre alla loro vita è in gioco un mistero più grande. E un’intuizione preziosa legata al momento di grazia che stanno vivendo.

Quando si accompagnano in mo­do adeguato i giovani nella preparazio­ne al matrimonio si tocca con mano la loro disponibilità ad un serio confronto con la proposta di vita cristiana e in molti casi nasce in loro il desiderio di rivedere quegli atteggiamenti che sono in contrasto con la fede e la morale cristiana.

In questi anni è molto cambiata la sensibilità rispetto ai valori religiosi. Se nel passato la preparazione religiosa al matrimonio era tollerata e quasi subi­ta, oggi è accolta e in molti casi attesa e desiderata. I valori religiosi del matri­monio cristiano diventano sempre di più una risposta concreta alla ricerca di senso e di autenticità che accompagna l’esperienza affettiva dei giovani.

I temi del dono reciproco, della fedel­tà, dell’amore come unione e fecondità, letti alla luce della parola di Dio, illumi­nano la stessa esperienza umana, la motivano e la preservano da interpre­tazioni riduttive o superficiali.

C’è una convergenza tra il cammino della Chiesa, che ha reso più esistenzia­le l’annuncio di fede sul matrimonio, e la ricerca di motivazioni profonde e di ideali da parte dei giovani. Nonostante la situazione critica in cui si trovano tante coppie di giovani sposi bisogna anche rilevare che sta nascendo una nuova generazione di famiglie non più disposte ad essere espropriate dei valo­ri più sacri della vita. Sono le coppie che hanno affrontato un serio tirocinio di preparazione al matrimonio e, una vol­ta sposati, continuano un cammino umano e religioso nella comunità o in un gruppo di giovani sposi.

 

Possiamo forse affermare che ci troviamo all’alba di una nuova stagione. Ancora sono evidenti i segni dello sgreto­lamento causato dalle trasformazioni in atto, ma si intravede anche il germoglio di una nuova coscienza morale che si affaccia nel cuore dei giovani come ricer­ca di verità e di autenticità.

Non è certo ancora sufficiente a ga­rantire la chiarezza e la coerenza delle scelte, ma è il presupposto per rico­struire una coscienza morale capace di tradurre nelle situazioni attuali i valo­re eterni. L’esperienza emotiva e senti­mentale non è nemica della morale, anzi offre oggi un terreno carico di aspettative a cui la morale, con la sua fondazione evangelica e razionale, può dare risposte concrete e motivate.

Se è vero che i giovani non sono dispo­nibili ad accogliere norme rigide ed estra­nee alla loro sensibilità è anche vero che di fronte a proposte motivate e calate dentro la loro esperienza non temono di fare scelte impegnative e coraggiose.

 


 

Quel capriccio che spinge all'avventura e all'infedeltà

 

Che cosa ha sempre spinto gli uomini sposati, con figli, con responsabilità, a cercare avventure erotiche pericolose, talvolta catastrofiche?

Che cosa ha spinto molte donne sposate a rischiare di venir uccise per un’accusa di adulterio? Noi immaginiamo che ci sia alla base un qualche motivo grave, una profonda insoddisfazione del matrimonio, oppure un grande amore appassionato.

Ed invece no, di solito non è l'amore, non è la disperazione. E' un motivo più futile, un piacere più capriccioso, gratuito. E' il gusto del nuovo, della diversità, della sfrenatezza, del gioco, una spinta primordiale e irrazionale. E' stata questa oscura forza che ha affascinato Freud e l'ha spinto a porre la sessualità alla base delle attività umane. Perché gli pareva la potenza più difficilmente disciplinabile, più indomabile e capricciosa. Eppure questa stessa sessualità ha la misteriosa potenzialità di legare. Ogni incontro erotico, anche un semplice sguardo, un desiderio che ci scuote, una frase di corteggiamento, il fugace contatto con la mano, con il braccio, con il corpo dell'altro, è il potenziale inizio di qualcosa di diverso. Ha in germe una possibile relazione, un possibile amore, quindi una possibile nuova vita. E questo ogni tanto avviene. Nell'innamoramento.

Quando siamo pronti a cambiare, quando siamo maturi per una nuova esperienza di vita e incontriamo una persona che simbolizza la strada che possiamo seguire, si mette in moto questo processo.

Il vero innamoramento, anche se incomincia come colpo di fulmine, anche se parte da una chat o da un fortuito incontro erotico, tende a fondere non solo i corpi, ma anche lo spirito dei due innamorati e a creare una nuova comunità che organizza attorno a sé la vita sociale e affronta unita e solidale il mondo. Nell'innamoramento la sessualità raggiunge il suo massimo ma, da potenza errabonda e capricciosa qual era, muta natura, diventa esclusiva.

L'innamorato ama solo quella persona specifica e vuol essere amato da lei nello stesso modo assoluto ed esclusivo. L'espressione «ti amo» vuol dire: «Amo solo te e amerò solo te per sempre». L'innamoramento produce un patto, implicito o esplicito, di esclusività. E' questo patto la sorgente della gelosia erotica. Io sono geloso di chi si è impegnato a volere solo me e, invece, si concede ad un altro. Lo stesso per il tradimento. Tradisce chi viene meno ad un impegno preso.

Nelle società dove il matrimonio non è basato sull'innamoramento, ma sull'accordo fra famiglie, c'è solo l'obbligo della fedeltà femminile per timore che abbia un figlio da un altro. Per il maschio nulla. Dove vale la poligamia o sono ammesse concubine troviamo invidia per la posizione di privilegio o di potere, ma non gelosia erotica. E' solo in Occidente, dove il matrimonio viene basato sull'innamoramento, che la più lieve infedeltà sessuale provoca una gelosia erotica tanto forte da mettere in moto il divorzio.

Ma la nostra società, proprio mentre fonda la coppia e la famiglia sulla fedeltà amorosa, dimentica l'insegnamento di Freud sulla potenza capricciosa ed insidiosa della sessualità. Ostenta la sessualità, la stimola, la promuove con tutti i mezzi. Per di più legittima tutte le forme di infatuazione, anche quelle senza consistenza e destinate a svanire in brevissimo tempo. Il risultato è che la coppia fondata sulla fedeltà esclusiva, continuamente attaccata, insidiata, erosa da ogni parte, spesso, ad un certo punto, esplode.

 

quale scelta o sacrificio abbiamo già compiuto in modo profondo per la nostra coppia?

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quale scelta o sacrificio non siamo stati capaci di compiere per la nostra coppia?

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quale scelta o sacrificio saremmo in grado di offrire per la nostra coppia?

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quale scelta o sacrificio non saremmo mai disposti, o difficilmente, a compiere per la nostra coppia?

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American Beauty

 

American Beauty è uno di quei film che sin dal momento in cui escono nelle sale cinematografiche hanno già delle nomination all'Oscar. La critica Americana è entusiasta di questo film che può all'apparenza sembrare una delle solite pellicole Americane, ma che nasconde dei risvolti molto più profondi e meditativi.

American Beauty è come un viaggio dai mille colori attraverso la vita nei quartieri residenziali americani. Il titolo svela i significati del film, a cominciare dalla varietà di rose coltivate da Carolyn Burnham (Annette Bening "Il Presidente - una storia d'amore", "Rischiose Abitudini"), che con il suo giardino perfetto, la macchina perfetta, la casa perfetta si sente una donna realizzata, appartenendo a quella categoria di persone che non si accorgono di quanto sia vuota la loro esistenza, colmata con i beni materiali. Ma American Beuty è anche Angela (Mena Suvari "Il Collezionista", "American Pie"), che incarna il mito della tipica bellezza americana: capelli biondi, occhi azzurri, forme perfette, tutto il contrario della sua amica Jane Burnham (Thora Birch "Giochi di potere", "Dungeons and Dragons"), la tipica adolescente arrabbiata, sempre scontrosa e insoddisfatta. Sono amiche, ma a guardar più a fondo lo sono solo apparentemente, infatti Jane spera di ricevere un po' di bellezza riflessa da Angela, e quest'ultima usa la sua amicizia con Jane solo per sentirsi speciale. Angela è ossessionata dalla sua bellezza e dall'effetto che questa può suscitare negli uomini, soprattutto nel padre di Jane, Lester (Kevin Spacey "I Soliti Sospetti", "L.A.Confidential") che cercherà di riconquistare la sua giovinezza perduta, confrontandosi con la parte emozionale a lungo repressa dentro se stesso.

Il film è uno spaccato di vita quotidiana, che incarna nei suoi personaggi il tipo di realtà americana, analizzando e sviluppando alcuni preconcetti tipici della maggior parte delle persone, e sulla realtà che spesso risulta imprevista, e si trova la bellezza dove meno ci si aspetta.

Questo film vede per la prima volta alla regia Sam Mandes, grande regista di teatro, acclamato per la realizzazione del revival del musical "Cabaret", che, con la sua esperienza ha dato un tono più sentimentale ed interiore alle inquadrature cinematografiche, lo stesso Kevin Spacey lo definisce "un artista visivo" per la maniera in cui accosta gli attori e le relazioni spaziali, organizzando l'inquadratura per far emergere ciò che sta accadendo, dal punto di vista dei sentimenti, e delle relazioni tra i personaggi.

 

 


 

4

 

Amore coniugale e dono della vita:

un legame problematico e sempre più fragile.

Le ragioni delle difficoltà

sono numerose e non sottovalutabili.

 

 

Si fa presto a dire amore

 

 

Due si conoscono, si piacciono a sufficienza e quindi, rag­giunta una certa età in cui tipicamente si è stanchi di cercare, ci si sposa. E via bambini su bambini». Questa la prospettiva matrimoniale presentata dal mensile Cosmopolitan dell’aprile 1992 (pp. 156-158), nell’arti­colo intitolato “Scappa, uomo, scap­pa”, dove si riporta la lettera immagi­naria di un neomarito che riferisce all’amico le motivazioni che l’hanno con­dotto al matrimonio e le esperienze che ne sta ricavando.

L’articolo rappresenta bene il clima culturale in cui si trovano i giovani sposi oggi; un clima che non favorisce certo quell’ottimismo senza il quale diventa difficile scegliere in due di ab­bandonarsi all’avventura di donare la vita: qui il matrimonio sembra vissuto in una prospettiva subita più che co­struita, quindi già pregiudicata rispet­to all’apertura alla vita che è rischio, disponibilità all’imprevedibile.

Del resto questo è il clima e il desti­no matrimoniale che caratterizza i per­sonaggi delle telenovelas che costantemente occupano gli spazi più abitati delle nostre case, e il clima reale, so­prattutto, in cui molte coppie si trova­no a vivere.

I dati che si possono trarre dall’esa­me dell’utenza di un consultorio fami­liare qualunque (in questo caso il con­sultorio diocesano di Venezia, aderente alla Confederazione italiana dei con­sultori di ispirazione cristiana) sono significativi in proposito: il 43% è com­posta di giovani coppie (0-10 anni di matrimonio), che presentano preva­lentemente problematiche relative alla convivenza e/o alla fecondità, intesa in senso lato.

 

Parlare di giovani sposi oggi, trascurando i dati che provengono dai messaggi massmediali significa ri­schiare la mistificazione o almeno un discorso tendenzialmente astratto e banalmente ottimistico.

Essere giovani sposi oggi è più fati­coso di quanto sembri e di quanto le coppie oggi mature possono ricordare che lo fosse un tempo, e più faticoso diventa in questo clima aprire il proprio amore alla vita. Certo, il messaggio della Chiesa è in­coraggiante e stimolante: l’ideale della famiglia nume­rosa e felice, aperta alle pro­blematiche sociali ed eccle­siali che del resto qualche coppia riesce ancora a realiz­zare, richiama climi umani ed affettivi che possono an­che suscitare pensieri no­stalgici. Ma la realtà è pur­troppo molto più dura, e sa­rebbe superficiale imputarne le cause ai soli sposi e al loro egoismo come spesso, specie nelle comunità cristiane, si tende a fare.

Quando si parla dei giovani sposi, della loro vita, dei problemi e delle difficoltà che si trovano ad affrontare nella cultura di oggi, si tende facilmen­te a vederli collocati nell’attualità della loro situazione e proiettati nella pro­spettiva del futuro; meno facilmente si pensa di prendere in considerazione la loro storia.

 

Ma l’atteggiamento attuale si è costruito in una storia, non sempre così frettolosa e banale come quella sintetizzata dalla lettera del giovane sposo di Cosmopolitan, ma nemmeno così consapevole come implicitamente sembra si pensi che sia, valutando le attese che la società e la comunità cri­stiana esprimono nei loro confronti.

La decisione per il matrimonio è sta­ta elaborata attraverso esperienze che hanno segnato la loro evoluzione di coppia portandoli fino a quella situa­zione di giovani sposi che oggi, specie nei confronti dell’amore e del dono della vita, si trovano a vivere con parti­colare difficoltà.

I giovani che celebrano con una ceri­monia civile o religiosa il loro matrimo­nio, che in un modo o nell’altro voglio­no socializzarlo, rappresentano un nu­mero considerevole. Ciò avviene nono­stante i molti indici di problematicità e i segnali di diffidenza che emergono diffusamente rispetto a ciò che è istitu­zionale in genere e, soprattutto, rispet­to alla presunta incompati­bilità tra sentimenti, affetti e istituzioni, tra dimensioni affettive e dimensioni istitu­zionali della vita.

Al matrimonio oggi si giunge per molte strade, me­no predeterminate che in passato, frutto almeno appa­rentemente di scelte più con­sapevoli, strade tuttavia se­gnate dalle novità portate nel costume non solo da quella che viene chiamata rivoluzione sessuale, ma anche e almeno a pari merito dal benessere economico giunto ai limiti estremi dell’opulenza consu­mistica, dai significati indotti dai mass media e inconsapevolmente e acritica­mente recepiti, dalla modificazione del ruolo sociale della donna.

In questo universo magmatico di messaggi e di significati, l’invito della Chiesa a crescere e moltiplicarsi cui si aggiungono ormai analoghi richiami della società assillata dalla preoccupa­zione di un calo demografico giunto ai limiti, coglie i giovani sposi con la rigi­dità di ingiunzioni inquietanti.

Eppure le prospettive iniziali di que­sti giovani erano diverse: in numerosi questionari distribuiti negli ultimi 5 anni nelle scuole superiori alla do­manda sulle loro aspettative in ambito affettivo l’87% dei ragazzi e l’82% delle ragazze risponde che intende “sposarsi e avere figli”.

 

Gli stessi ragazzi       identificano l’elemento negativo della loro differenza rispetto alle ragazze nell’impossibi­lità di essere madri; ma quando si chie­de loro quale significato e prospettiva attribuiscano all’attuale rapporto affettivo con un partner, scartano mas­sicciamente risposte coerenti con le aspettative come “aiutarsi a maturare, imparare la responsabilità, preparare il futuro”, in favore di risposte del tipo “divertirsi, l’intimità, stare bene”.

Probabilmente qui sta il gap tra le prospettive aperte dal Magistero (e le rispettive attese) alle giovani coppie e i loro comportamenti effettivi rispetto a un’interpretazio­ne dell’amore che includa la prospettiva della vita.

I giovani hanno sempre sognato, ma mentre ieri il materiale onirico disponeva di una base di realtà (la vita dei loro genitori e il tessuto sociale in genere), oggi esso è sostanziato prevalentemente e in modo inconsapevole, senza cioè che ci sia la possi­bilità (tempo, occasioni, aiuti) di sotto-porlo a vaglio critico, dalla fiction: i messaggi mass-mediali presentano tipologie di famiglie artefatte, in positivo e in negativo, su cui si innervano molte delle costruzioni di significato perso­nali e collettive che determinano i comportamenti e le scelte.

I giovani sposi si trovano spesso a dover sostenere i genitori nel momento in cui scoppia quella “sindrome del nido vuoto” che si manifesta con esage­rate intromissioni nella loro vita, con ricatti di tipo affettivo ed economico, con attese eccessive sul piano della riu­scita sociale, tutti comportamenti e messaggi che rivelano la sorda insoddi­sfazione con cui si trova a fare i conti la mezza età, inevitabile immagine pro­spettica cui sono costretti a fare riferi­mento i giovani sposi di oggi.

Problemi pratici, affettivi, di significato convergono a costruire un muro di prudenza, di perplessità, di indecisio­ne, di rifiuto davanti alla prospettiva di un matrimonio che si apre al dono della vita.

 

Ma le cose non sono nemmeno così semplici e lineari: oggi i giovani sposi generalmente non si presentano a un servizio consultoriale per chiedere come evitare la generazione. Per que­sto sanno ormai arrangiarsi da soli, utilizzando il farmaco prescritto fret­tolosamente anche solo dal medico di base o il mezzo che possono trovare anche al supermercato.

Oggi i giovani sposi si presentano al consultorio per avere il figlio: af­fitto dell’utero, inseminazio­ne artificiale, banca dello sperma, adozione nazionale e internazionale.

Le domande spaziano in­differentemente su aree di­versissime e dovrebbero in­durre a spostare l’allarme dell’operatore pastorale e so­ciale dal piano dei comporta­menti a quello dei significati. Sopita in linea generale la paura di avere figli indesiderati grazie alle varie tecniche contraccettive ormai alla por­tata di tutti, oggi sembra emergere con sempre maggior evidenza un rapporto di bisogno tra giovani sposi e figlio, inteso in senso oggettuale, come il ne­cessario completamento che consente di giungere all’omologazione della “fa­miglia felice”.

 

Questi atteggiamenti, in cui è evidente e massiccia l’induzione di si­gnificati di matrice massmediale, non hanno nulla a che fare con l’apertura alla vita e con l’inveramento della defi­nizione di famiglia cara a Giovanni Paolo II «culla della vita e dell’amore», perché il bisogno di avere un figlio non ha nulla a che fare con l’amore; ha piuttosto a che fare con l’esasperazio­ne dei bisogni affettivi prodotto dalla faticosità dei rapporti interpersonali e sociali, con una certa prepotenza an­siosa indotta dalla tecnologia, che illu­de sulla possibilità di avere sempre tutto e subito.

Ma quale immagine di figlio hanno interiorizzato queste coppie così impa­zienti di diventare genitori? «Un bam­bino in una casa è tutto, porta gioia, tenerezza, riempie la vita», rispondeva alla perplessa intervistatrice televisiva la signora resa tecnologicamente ferti­le a sessant’anni, glissando disinvoltamente sui problemi concreti che il fi­glio si sarebbe trovato ad affrontare e che la giornalista tentava di porle.

L’immagine di figlio che i giovani sposi sono indotti fatalmente a interio­rizzare è l’eterno bambino degli spot, senza passato e senza futuro, pago di merendine e gadget, senza altri pro­blemi che quello di chiedere e ot­tenere oggetti.

Non bisogna poi dimenticare un al­tro problema, del tutto nuovo, che si affaccia alla coppia oggi, rispetto alla scelta di donare la vita: a chi appartie­ne il figlio? Non è problema che scoppia solo in modo evidente e drammatico nel caso di separazione e di divorzio; quando il figlio diventa oggetto di con­tesa e di baratto insieme alle altre pro­prietà messe insieme dalla coppia.

 

Lo “scandalo”, ovviamente ben pubblicizzato, di un’attrice che decide di avere un figlio utilizzando in modo indifferenziato il seme di tutti i suoi ex partner ed escludendoli tutti dalla re­sponsabilità paterna, così come del re­sto le “banche del seme” che garanti­scono la disponibilità generativa al di là della morte, non sono che la punta di un iceberg che sta costruendosi una base subacquea sempre più solida nella tendenza delle donne a procreare con una sorta di partenogenesi affettiva, cioè escludendo il partner da ogni par­tecipazione affettiva e corresponsabili­tà educativa.

I segnali vengono dal numero cre­scente di matrimoni che si incrinano e spesso si rompono definitivamente all’indomani della nascita del figlio, per una manifesta e insuperabile in­capacità della coppia di rinegoziare in modo diverso i rispettivi compiti e le collaborazioni emotive e pratiche.

Matrimoni che si conclu­dono con l’autorizzazione anche giuridica per la donna di realizzare quella tendenza al possesso che essa prova fortemente in sé dopo il par­to e che solo un riequilibrato e rifondato rapporto coniu­gale le permette di superare, a tutto vantaggio proprio e del figlio, denunciano l’as­senza di legame tra amore e vita a livello di significati.

Ieri si tendeva a giustificare il per­manere nella madre di una forte ten­denza al possesso solo o prevalente­mente con l’ottusità di lui, con il suo isolamento nel carrierismo selvaggio, con la sua incapacità di staccarsi emo­tivamente dalla mamma e dalle abitu­dini legate alla sua precedente vita di singolo un po’ viziato.

Oggi è necessario fare i conti anche con il fatto che la carriera è una tenta­zione forte pure per le donne. La ricer­ca citata sopra sugli studenti delle su­periori ha evidenziato una maggior concentrazione di interessi femminili rispetto a quelli maschili nei confronti del successo sociale e della carriera.

Anche queste linee di tendenza non nascono dal nulla: «Sono bella e non ho alcuna intenzione di innamorarmi e di spegnermi in un rapporto di coppia. Ne vedo abbastanza in televisione di unio­ni terribili, gente che litiga..., come se il mondo fosse fatto solo di ex innamora­ti diventati scontenti. Io voglio usare la mia bellezza per fare carriera, come un’altra usa l’intelligenza, poi si ve­drà...», confida una sedicenne a Natalia Aspesi sul Venerdì di Repubblica.

 

Queste riflessioni tentano di met­tere a fuoco, necessariamente, solo gli aspetti più evidenti e i comportamenti quantitativamente più rilevanti e ri­guardano per forza di cose le fasce sociali numericamente più ampie. Ma dietro e oltre le generalizzazioni e le grandi linee non bisogna dimenticare i problemi di tipo economico socialmen­te indotti e tutte le vecchie povertà che si sommano, per le giovani famiglie, a quelle nuove, indotte alla cultura consumistica.

Tutto contribuisce a inco­raggiare la tendenza all’auto-tutela, anche rispetto alla no­vità rappresentata non solo e non tanto dal figlio biologico, ma da tutte le forme di aper­tura alla vita suggerite dalla creatività propria dell’amore.

Anzi, la concentrazione sul desiderio del figlio biologico che non arriva (i livelli di ste­rilità sono in continua cresci­ta) attutisce la capacità e la disponibilità a cogliere le mol­te occasioni che la vita di oggi offre alle giovani coppie per vivacizzare e rendere fecondo il loro amore: dall’ospitalità ai rapporti amicali e di aiuto tra famiglie, dall’impegno educa­tivo per tutti i bambini alla tutela dei minori in difficoltà, dall’atten­zione alle necessità degli anziani alla disponibilità di compagnia per ogni for­ma di solitudine.

E quasi inevitabile che la giovane cop­pia oggi, nei ristretti margini di sicurez­za affettiva in cui è costretta a vivere dalla cultura contemporanea, percepisca il messaggio del vangelo, mediato dagli inviti insistenti del magistero a lavorare per promuovere una cultura della vita e dell’amore, come intrusivo, autoritario, scoordinato e anacronistico, disturbante e astratto, quasi ulteriore complicazione ad una situazione già troppo complicata, invece che dono fecondo che rende fecon­di riempiendo la vita.

 

D’altra parte la Chiesa è stata gene­rosa con queste coppie fin dalla nascita nel dar loro i sacramenti: solerte nel somministrare il battesimo, inserendoli così a tutti gli effetti nel numero dei suoi figli; nel dar loro il dono della comunio­ne, del perdono dei peccati, della confer­mazione nello Spirito. Meno solerte nel­l’offrire loro occasioni attraverso le quali elaborare un orizzonte di significati con­gruente con questi doni, come se le cose potessero con naturalezza crescere in armonia.

Anche questi giovani, che sono stati adolescenti negli anni ‘70, sono stati solleciti nell’accogliere le proposte sacramentali della Chiesa o, per loro, lo sono stati i loro genitori.

Ma quando le prime pulsioni sessuali si sono fatte sentire con forza, quando gli stimoli prodotti dalle catechesi massme­diali hanno avuto il sopravvento,  perché più facili, più permissivi, più congruenti con le spinte ormonali proprie dell’età, ri­spetto agli stimoli spirituali delle catechesi parrocchiali, essi hanno progressivamente e impercettibilmente, in modo apparentemente indolore, ab­bandonato quadri di riferi­mento, sistemi di significato e di valore, obiettivi e progetti congruenti con quelle scelte sacramentali, per organizzar­si autonomamente.

La tappa matrimoniale li ha però visti ancora una volta alla ricerca di un segno religioso, che la Chiesa con indulgenza e benevolenza ha loro concesso. Ma ora si tratta di maturare una capacità di coe­renza, una fedeltà alla scelta fatta, che chiede ulteriori scelte, attraverso le quali si elabora una cultura.

 

Pena ridursi, come il neosposo fittizzio di Cosmopolitan, a immagina­re un futuro squallido, chiuso a ogni speranza, caratteristico di una cultura che non lasciando spazio agli altri e alla vita, non lascia spazio ad alcun’altra apertura: «Mi vedo già stempiato, un filo adiposo, a rincasare tardi dall’en­nesima cena di lavoro. Quella sera mia moglie non ci sarà, ma stavolta non sarà dalla mamma. Sarà in un posto qualsiasi, a rischiar d’incontrare un qualche adorabile scapestrato. Di quel­li che: “Sposarmi io? Mai”»

 


 

Il lancinante bisogno di conoscere la vita dell'altro

 

C'è una differenza fondamentale fra una attrazione erotica anche intensissima e il più timido affacciarsi dell'innamoramento. Due persone possono buttarsi l'una nelle braccia dell'altro frementi di desiderio, fare all'amore, cercarsi appassionatamente ma, se non si è messo in moto il processo di innamoramento, nessuno sente lancinante il bisogno di conoscere la vita dell’altro. Nell’attrazione puramente erotica siamo appagati della presenza, ci completiamo entrambi nel presente, nella pregustazione del prossimo incontro. Invece fin dalla fase iniziale del processo di innamoramento sentiamo il bisogno di sapere altre cose della persona che ci ha colpito e che ci ritorna in mente. Chi è veramente? Cosa sta facendo in questo momento, come passa le sue giornate, cosa ha fatto nel passato? Non possiamo più appagarci solo del presente.

Siamo inesorabilmente trascinati a cercare nel suo e nel nostro passato il segreto del nostro possibile futuro.

Noi ci innamoriamo soltanto quando siamo interiormente cambiati, stanchi del modo in cui viviamo e aperti a esperienze nuove. Questo avviene in certe fasi cruciali della vita, oppure quando cambiamo lavoro, o città o Paese. Allora andiamo inconsciamente alla ricerca di una persona che ci aiuti a sviluppare noi stessi, ci completi, ci apra nuove prospettive vitali, sociali. In questo stato di predisposizione, i nostri sensi diventano più vigili, la nostra sensibilità più intensa e incominciamo delle esplorazioni, degli innamoramenti embrionali.

Per questo, quando incontriamo una persona che evoca alcune potenzialità, ne restiamo colpiti, affascinati. Percepiamo in lei un valore, una forza, una ricchezza. È come una porta che ci apre nuovi orizzonti. Ma attraversando quella porta, andando verso il nuovo, ci domandiamo che cosa sappiamo, in realtà, di lei. Quasi nulla. Pochi gesti, poche parole, uno scritto, qualcosa che ci siamo raccontati febbrilmente. Ma chi è veramente? Cosa ha fatto nel corso della sua vita? Chi l’ha accompagnata lungo il suo cammino? Chi ha amato, da chi è stata amata? Noi incontriamo diverse persone che hanno su di noi un grande potere. Dovremmo cercare di capirle, studiarle per agire in modo opportuno. Ma non lo facciamo. Perché non ci importa nulla del loro animo. Il desiderio di conoscere in profondità il mondo affettivo di un altro si risveglia solo con l’affacciarsi dell'amore. Solo l'amore vuol sapere tutto dell'amore. Per questo, già al primo affacciarsi di un potenziale innamoramento, diventiamo gelosi di tutti coloro che quella persona ha amato. E, più pensiamo a lei, più la sua natura essenziale ci sfugge, ci appare inaccessibile, misteriosa. Dovremmo conoscere le sue emozioni più nascoste, gli atti più segreti della sua vita, e non basterebbe ancora.

La storia dell'amore è la storia di questa ricerca reciproca: che si conclude subito se ti accorgi che non era chi cercavi, altrimenti dura finché sei certo che ama solo te, e non è più condizionata dal suo passato. L'amore, anche quando è solo una possibilità iniziale, si proietta verso il futuro, verso una intimità totale, verso una comunità formata da noi due e la cui nascita coinvolge tutte le persone che amiamo. È sempre potenzialmente la partenza in un lungo viaggio con un compagno che non conosciamo, su una nave che non abbiamo mai visto, in un mare misterioso. Quindi brivido, incantesimo, dilemma, speranza, entusiasmo, paura.

 

Francesco Alberoni

 

 

quale immagine di noi vorremmo che l’altro non perdesse mai?

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quale bella immagine dell’altro non vorremmo mai perdere?

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Il “Bacio” di Klimt esemplifica bene la complessità di quest’incontro, dove una situazione di chiarezza (i due volti che si baciano) emerge da due abiti molto meno definiti e unitari nella loro forma e decorazione: sono vestiti che in qualche modo, unitamente al limite superiore del dipinto con quel taglio così deciso, costringono i due protagonisti, li rallentano, invitandoci a riflettere come nell’amore è assurdo risparmiare tempo. E’ un concetto ribadito dal brano del Piccolo Principe: ogni insistenza e ogni precipitazione possono solo nuocere all’amore, perché proprio le più timide tra le persone che amano, le più sensibili ed appassionate hanno bisogno di un avvicinamento lento che le abitui progressivamente alla presenza dell’altro, che ogni giorno diventa più familiare. Non si possono comperare l’affetto, la fiducia, la presenza ricca di aspettative della persona che si ama. Ma a poco poco si può imparare a capire al lingua dei suoi occhi, l’espressione della sua bocca e il gesto delle sue mani.

 

 

 

“Non posso giocare con te,” disse la volpe, “non sono addomesticata.”

“Ah! Scusa,” fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: “Che cosa vuol dire ‘addomesticare’?”

In quel momento apparve la volpe. “Buon giorno,” disse la volpe.

“Buon giorno,” rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.

“Sono qui,” disse la voce, ”sotto il melo…”

“Chi sei?” domandò il piccolo principe, “sei molto carino…”

“Sono una volpe,” disse la volpe.

“Vieni a giocare con me, “ le propose il piccolo principe, “sono così triste…”

“Non posso giocare con te,” disse la volpe, “non sono addomesticata.”

“Ah! Scusa,” fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: “Che cosa vuol dire “addomesticare’?”

 …

È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire ‘creare dei legami’ …” “Creare dei legami?”

“Certo,” disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.”

“La mia vita è monotona. Io do la caccia alle, galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù, in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me, è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticata. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”

La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: “Per favore… addomesticami,” disse.

“Volentieri,” rispose il piccolo principe,” ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose.”

“Non si conoscono che le cose che si addomesticano,” disse la volpe. “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami!”

“Che cosa bisogna fare?” domandò il piccolo principe.

“Bisogna essere molto pazienti,” rispose la volpe. “In principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…”

Il piccolo principe ritornò l’indomani.

“Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora,” disse la volpe. “Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore…          

Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l’ora della partenza fu vicina:

“Ah!” disse la volpe “…piangerò.”

“La colpa è tua,” disse il piccolo principe, “io non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”

“È vero,” disse la volpe. “Ma piangerai!” disse il piccolo principe.

“È certo,” disse la volpe. “Ma allora che ci guadagni?” “Ci guadagno,” disse la volpe, “il colore del grano.”

Poi soggiunse: “Va’ a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto.”

Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose.

“Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente,” disse. “Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora è per me unica al mondo.”

E le rose erano a disagio.

“Voi siete belle, ma siete vuote,” disse ancora. “Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi assomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparata col paravento. Perché su di lei ho ucciso i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa.”

E ritornò dalla volpe. “Addio,” disse.

“Addio,” disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi.”

“L’essenziale è invisibile agli occhi,” ripeté il piccolo principe, per ricordarselo.

“È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante.”

“È il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.

“Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…”

“Io sono responsabile della mia rosa…” ripeté il piccolo principe per ricordarselo.

 

Da “Il piccolo principe”, di Antoine De Saint-Exupery

 

 

Non si possono comperare l’affetto, la fiducia, la presenza ricca di aspettative della persona che si ama. Ma a poco poco si può imparare a capire al lingua dei suoi occhi, l’espressione della sua bocca e il gesto delle sue mani. Ed è un gioioso sorprendersi, per chi ha il coraggio di investire energie e pazienza. Una dinamica questa ben esemplificata dalla struttura di una composizione musicale classica, il Canone di Pachelbel. Le quattro battute del basso ostinato fanno pensare alla vita: otto note che scendono ad intervallo di IV° e risalgono di II°, semplice e lineare. Un’armonia che da la dimensione del tempo che scorre, il tappeto sonoro della nostra esistenza. E’ il fatto stesso di innamorarci, che non siamo noi a decidere, ma ci viene dato. Ed ecco che emerge la parte più interessante: siamo noi a poter decidere come vivere questa esperienza. Le otto note discendenti ad intervallo congiunto, che risalgono nella parte finale, sono note che ogni strumento rende ogni volta diverse in ritmo (sempre più incalzante), colore (l’intensità aumenta continuamente), timbro (l’incontro tra gli strumenti aumenta le possibilità di dialogo). Non è così anche la nostra vita nell’incontro con l’altro? Esso diviene più autentico e più vero se impariamo ad ascoltare i messaggi che ci invia e ne sfruttiamo le grandi potenzialità. Continuiamo a tornare su noi stessi più ricchi, più profondi e più veri:  e non a caso nella parte finale il canone si placa, ritorna quasi uguale all’inizio, semplice, scarno, ma con le tracce, che ancora vibrano nei suoni, di un percorso che raggiunta la massima espressione sta volgendo al termine ed ha la profondità di una vita vissuta in prima persona. Ogni attimo di pienezza avrà allora acquistato un valore infinito in forza della fatica con cui si sono attraversate, insieme, le desolazioni del dubbio, dell’incomprensione, della noia.

L’amore, quando è vero, quando prende tutta la persona, le fa intendere il proprio limite da superare, l’impeto che sfonda ogni chiusura: ci si sente abitati da qualcos’altro, qualcosa di nuovo e non definibile, così già posseduto e così lontano da quello che riusciamo a capire. Questa misteriosità dell’amore umano fa già intuire che alla base non sta un piccolo sentimento, né un istinto fisiologico, bensì la realtà superiore ed infinita che è Dio stesso. Il brano biblico del “Cantico dei Cantici” diventa addirittura il riferimento preferito nell’esemplificare il rapporto di Cristo con la Chiesa e con l’intera storia umana: la sorgente ultima della fiducia e del rapporto d’amore si trovano proprio in un Dio che è in se stesso amore.

 

Chiediamoci:

Quale frutto, quale cambiamento di carattere, di atteggiamento verso la vita, l’altro ha prodotto in noi durante la nostra storia di coppia?

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Cosa pensiamo di aver prodotto nell’altro?

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5

 

L’esperienza infantile richiama quella dell’ esodo biblico, ossia il tempo della vita in cui si è portati in braccio. Come appare lontana la visione che ne danno i mass media.

 

 

Il figlio: benedizione e compito

 

Uno dei momenti più significativi dei primi anni di vita della coppia, se non addirittura il più significativo, è certo quello della nascita del primo figlio. Nell’esperienza della massima parte delle coppie contemporanee tale momento non interviene subito; è ormai molto diffusa, fino ad essere considerata quasi normale, la convinzione che sia meglio aspettare alcuni anni, per consentire ai due di assestare il proprio rapporto di coppia e così disporsi ad accogliere con maggiore consapevolezza e maturità il figlio.

Avviene spesso che la decisione, ri­mandata in prima battuta, appare poi non così facile da prendere. In ogni caso, sembra facile l’eventualità che i giovani sposi avvertano con certa evi­denza psicologica l’inevitabile margine di congetturalità, se non addirittura di arbitrio, che sembra affliggere la loro decisione di generare.

L’aspetto più nuovo nell’esperienza della generazione non è quello che si debba scegliere semplicemente il mo­mento giusto, ma che si debba più in generale decidere di generare. Un tem­po infatti il figlio non era oggetto di una scelta precisa ed esplicita, distinta e ulteriore rispetto alla precedente scelta di sposarsi. Decidere di sposarsi signifi­cava, insieme, decidere di avere figli o, meglio, disporsi ad accogliere il figlio che Dio stesso volesse concedere. Oggi è invece diventata comune la consapevo­lezza che il figlio deve essere oggetto di una precisa decisione, e addirittura di una decisione responsabile.

Che cosa significhi esattamente una decisione responsabile in questa materia non è così facile da dire. Questo perché

alla grande enfasi posta sul principio genericissimo della responsabilità non corri­sponde in alcun modo un proporzionale e preciso ap­profondimento della nozione morale corrispondente. In tal senso, quell’enfasi appare obiettivamente come soltan­to retorica.

La riduzione dei grandi enunciati morali a pura reto­rica, d’altra parte, sembra essere una caratteristica abbastanza diffusa della cultura pubblica contem­poranea. Essa non riguarda soltanto la responsabilità nella decisione di gene­rare, ma tutti gli aspetti della responsa­bilità dei genitori nei confronti dei figli.

È ribadita fino allo spasimo la racco­mandazione della responsabilità nell’educazione, ma anche in questo caso sembra non essere in alcun modo chia­rito che cosa voglia dire precisamente educare. Si suppone, evidentemente, che la consistenza concreta di tale com­pito sia subito ovvia; in realtà non lo è affatto.

Non lo è a motivo delle note circo­stanze civili generali; e non lo è anche a motivo del fondamentale difetto di ri­flessione teorica sul tema dell’educa­zione. La vecchia pedagogia, che si rico­nosceva quale capitolo della filosofia morale, ha ormai ceduto il posto alle moderne e spigliate scienze dell’educa­zione, le quali in realtà di educazione in senso vero e proprio non parlano più per niente. La nominano certo, ma allu­dendovi soltanto, per di più in termini decisamente elusivi o obiettivamente ipocriti.

 

Ne parlano infatti di volta in volta come di socializzazione, ossia di aiuto all’apprendimento dei codici sociali del vivere; oppure come di cura per l’igiene mentale, per raccomandare cioè l’at­tenzione al benessere psicologico del minore; o ancora come di sostegno del­l’autorealizzazione, fondamentale di quel processo di crescita che avrebbe nella spontaneità del bambino i suoi unici criteri pertinenti.

In ogni caso, il compito educativo è descritto nei testi educativi quasi esso potesse e dovesse prodursi senza rife­rimento all’autocoscienza dei genitori; senza riguardo soprattutto al fatto che essi sono appunto genitori, e che questa loro identità costitui­sce per sé stessa, anche a prescindere dalla loro volon­tà, un preciso ed essenziale messaggio per i figli.

Molta della incertezza dei giovani sposi, di fronte alla decisione di genera­re, dipende appunto dalla percezione oscura, e tuttavia indubitabile, della enorme promessa che di fatto comporta per il figlio la scelta di metterlo al mondo.

 

La grande insistenza degli studio­si sulla responsabilità educativa dei ge­nitori, un’insistenza certo per sé stes­sa del tutto pertinente, abbondante­mente avvalorata dall’evidenza empiri­ca, in assenza di una riflessione più determinata intorno ai suoi contenuti e ai suoi criteri, si traduce di fatto in un aggravamento obiettivo di quel senti­mento di inevitabile inadeguatezza al compito, che sembra oggi affliggere i genitori effettivi o soltanto potenziali, anche a prescindere dall’insistenza in questione.

La pratica cessazione di una rifles­sione pedagogica di profilo propria­mente morale corrisponde, nel tempo e presumibilmente anche nelle ragioni, a quella complessa trasformazione civile che è all’origine dell’obiettiva e crescente difficoltà del compito educa­tivo genitoriale.

Ci riferiamo a quel passaggio, più volte descritto, dalla vecchia civiltà “or­ganica” alla moderna società “comples­sa”. La prima era caratterizzata da un alto grado di consenso per quanto ri­guarda i costumi e la “visione del mon­do” in genere; la seconda invece confina la morale e la religione entro l’ambito insuperabilmente “privato” delle com­petenze della coscienza individuale.

Nella vecchia civiltà il compito dei genitori appariva certo assai meno im­pegnativo: essi sembravano di fatto as­solverlo senza neppure chiaramente proporselo. Tale circostanza s’intende alla luce dello stretto intreccio che allo­ra sussisteva tra il sistema famiglia e il sistema sociale in genere. Rompendosi tale intreccio, da un lato accade che il sistema sociale si organizzi secondo cri­teri (secolari) che ignorano il riferimen­to a quelle questioni ultime riguardanti il senso complessivo del vivere, che viceversa sono imprescindibili per la coscienza individuale; d’altro lato acca­de che la famiglia si trovi investita in esclusiva del compito di provvedere alla coscienza del singolo, senza più poter disporre delle risorse offerte da una cultura ambiente.

La coscienza del singolo a cui ci rife­riamo è certo anzitutto quella del mino­re; ma è poi anche quella dell’adulto; non a caso si parla della famiglia come dell’istituzione che provvede in esclusi­va, non soltanto alla “socializzazione primaria” del minore, ma anche alla “stabilizzazione emotiva” dell’adulto (T. Parsons).

 

Il linguaggio è discutibile ma il concetto è relativamente chiaro e perti­nente. Anziché parlare di semplice “stabilizzazione emotiva”, si dovrebbe più francamente dire che la famiglia conferisce alla vita dell’adulto quella sintetica prospettiva di senso della vita intera, che egli stenta invece a tenere ferma per riferimento ad altri aspetti della sua esperienza esisten­ziale. Non a caso, alle frattu­re che si producono a livello di rapporti familiari corri­spondono facilmente profon­de e generalizzate crisi di identità della persona.

L’incipiente separazione tra coscienza personale e si­stema sociale è stata certo uno dei fattori che hanno propiziato gli inizi della ri­flessione moderna sul compi­to educativo. La rappresentazione ri­flessa dell’educazione proposta dalla teoria pedagogica moderna sembrò per altro ignorare, fin dai suoi inizi (pensia­mo tipicamente nel Sei-Settecento a Locke e a Rousseau), il rilievo del rap­porto di generazione per intendere lo stesso rapporto educativo.

Quello che pure dovrebbe apparire del tutto evidente ad ogni persona di buon senso non fu in alcun modo rico­nosciuto dalla pedagogia; che cioè èsoprattutto il genitore ad educare, a propiziare dunque quel grandioso e sorprendente processo mediante il qua­le il bambino giunge a dire “io”, a dare nome a tutte le cose, a percepire la realtà intera come sensata, come pro­porzionata al proprio desiderio di vive­re, come spazio promettente e “dome­stico”, il quale consente di vivere e amare, di chiedere e promettere.

 

La pedagogia fino all’Ottocento pensò l’educazione assai più per riferi­mento alla figura del precettore, che per riferimento alla figura della madre e del padre; la pensò dunque in termini disperatamente astratti.

Il rilievo essenziale delle figure pa­rentali nella formazione della coscienza sarà messo in evidenza soltanto nel ‘900, ad opera della psicologia di indi­rizzo clinico, a procedere dunque dal gran maestro in materia che è certa­mente Freud. Neppure in tale prospet­tiva per altro, anzi, in questa prospet­tiva meno che mai, al riconoscimento del rilievo decisivo della figura dei geni­tori si accompagnò una riflessione sulle conseguenze che obiettiva-mente ne derivano per quan­to riguarda il compito educa­tivo, e prima ancora per quanto il significato dell’atto che sta all’origine della vita, la generazione.

La cultura moderna nel suo insieme sembra pensare l’uomo così come la lettera agli Ebrei descrive Melchise­dek: «Senza padre, senza ma­dre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita...» (Eb 7, 2). L’obiettiva censura dell’interrogativo circa il senso della generazio­ne, e quindi della nascita, corrisponde ad una sorta di idiosincrasia della cultura moderna per ogni aspetto della condizione umana che offenda l’ideale autarchico della vita.

Pensiamo in specie al­l’idiosincrasia nei confronti della figura del padre. Viene oggi talvol­ta lamentata la latitanza dei padri nel compito educativo; e tuttavia la presen­za che ci si aspetterebbe da loro non sembra essere quella propriamente pa­terna; è diventato difficile immaginare una paternità non paternalistica. La censura del momento della nascita è poi il correlato di quella più nota e depreca­ta censura che colpisce la morte; esse hanno in comune la rimozione del tem­po e del limite.

Ma l’uomo non è autarchico. Non viene al mondo per scelta propria; né può starvi secondo il proprio beneplaci­to. L’uomo nasce senza sceglierlo, e muore anche senza scegliere. La nasci­ta come la morte, nonostante l’abissa­le differenza che le separa, sono anzi­tutto un destino. Non però un destino che tragicamente s’imponga a lui. Un destino piuttosto che ha la figura della promessa anticipante, la quale sola consente all’uomo di volere, e quindi di aggiungere al fatto di esserci il proprio consenso.

Volere davvero infatti, e non essere invece semplicemente trascinati da insicure voglie, nei cui confronti di neces­sità s’impongono molte riserve e molti esperimenti, l’uomo può soltanto a condizione che a lui sia fatta una pro­messa, e quindi che egli possa ad essa accordare credito.

 

La fignra fondamentale        della condizione umana appare sotto tale profilo efficacemente illustrata dal­l’epopea biblica dell’esodo e rispettiva­mente dell’alleanza. Il popolo d’Israele non prende l’iniziativa, non sceglie di uscire dalla terra di schiavitù; ad essa è invece come strappato a forza. E’ portato fuori “su ali di aqui­la”, ossia è portato fuori in braccio, come un bambino. L’obiettiva “prepotenza” di Dio non suscita però certo alcuna ribellione nel popolo; suscita al contrario il suo fa­cile, euforico e quasi infantile consenso.

L’iniziativa unilaterale di Dio, per altro, non basta a istituire la condizione della libertà definitiva (escatologica); essa istituisce piuttosto un’altra liber­tà, quella che consiste più precisamen­te nella possibilità e anche nella neces­sità per l’uomo di volere per vivere, di decidersi per essere.

Esattamente questo è il senso del­l’alleanza del Sinai, che segue al primo viaggio miracoloso attraverso il mare. Fino a qui vi ho portato in braccio, dice il Signore; ma “ora, se vorrete ascoltare la mia voce e se custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà particolare tra tutti i popoli” (Es 19,5).

 

Dall’esperienza dell’amore anti­cipante, in termini biblici dall’elezio­ne, il popolo trae la capacità di cammi­nare sulle proprie gambe; non solo la capacità, ma insieme l’evidente impe­gno a fare tanto, e dunque a diventare “grande”. Quell’esperienza infatti di­schiude una promessa; e credere alla promessa vuol dire concretamente camminare nella direzione indicata dalla Torah, dai comandamenti che soli istruiscono intorno alla via che consen­te di attraversare il deserto.

L’esperienza infantile ha la stessa figura dell’esperienza dell’esodo: esso è il tempo della vita in cui siamo portati in braccio, e attraverso una tale espe­rienza siamo posti nella condizione di conoscere la promessa certa di cui è gravida la vita.

Prima ancora dell’esperienza infan­tile, la nascita stessa è come un passag­gio attraverso il mare, che dà inizio gratuito e da noi non scelto al cammino della libertà. Il tempo dell’infanzia è, sotto tale profilo, quasi il dispiegamen­to di una donna di mettere al mondo un figlio. In quel tempo si realizzano le condizioni perché il bambino possa per­cepire la promessa che è all’origine della propria vita, possa quindi poi an­che rispondere praticamente a quella promessa.

Ministri di tale promessa sono l’uo­mo e la donna. Ministri soltanto, non artefici in proprio; testimoni, non auto­ri di quella promessa che sola può auto­rizzare il consenso di ogni figlio che nasce all’avventura del vivere. L’Autore della vita è uno solo; egli è dal principio e abita in una luce inaccessibile; pur non avendo dapprima nome, da lui solo prende nome ogni paternità, in cielo e sulla terra (cfr. Ef 3, 15).

 

L’autorizzazione a generare, e quindi ad educare, a provvedere al bene del figlio e insieme ad esercitare un’autorità nei suoi confronti, viene all’uomo e alla donna in prima battuta attra­verso le forme spontanee dell’esperienza. Il progetto di generare non nasce dalla testa, e neppure dal cuore soltanto; nasce originariamente da quelle forme immediate dell’accadere spontaneo, che suscitano insieme meraviglia e così manifestano ad essi di essere benevol­mente preceduti nel cammino della vita. Non solo è, infatti, soltanto il figlio ad essere portato in braccio; lo sono in certo senso anche i genitori.

Infatti l’accadimento sorprendente della nascita prima, ma poi la stessa prima relazione col bambino, sono eventi che sorprendono la coscienza, e non possono in alcun modo essere ridotti alla figura di realizzazione di un progetto previo. So­no eventi gravidi di un senso:

di un messaggio prometten­te e insieme impegnativo, al quale l’uomo e la donna debbono poi con proporzionale consapevolezza e libertà ri­spondere.

Attraverso l’esperienza grata della generazione, attraverso la benedizio­ne del figlio, essi conoscono il senso della loro stessa vita. Questa non può essere in alcun modo trattenuta; non se ne può raccogliere il vantaggio presso di sé; quando si tentasse di farlo, si cono­scerebbe inevitabilmente l’inesorabile prepotere della morte.

La vita deve essere donata, soltanto a questo patto si può evitare che essa ci sia strappata dal tempo che fugge. Ma come donarla, e a chi? Il figlio è una benedizione appunto per questo: non semplicemente perché la sua presenza appare gratificante, capace di riempire i giorni e i pensieri; ma perchè essa consente all’uomo e alla donna di avere colui al quale può essere fatto dono della propria vita, colui che saprà certa­mente apprezzare un tale dono, e dunque impedirà che la vita appas­sisca inutile.

Il senso della scelta del generare, e quindi dell’opera tutta della cura del figlio, è dunque in radice iscritto nella meraviglia che ne accompagna gli inizi; riceve però poi parola e figura attraverso le forme del costume e della tradizione civile tutta. Soltanto attraverso le risorse offerte da queste forme più esplicite di­venta possibile all’uomo e alla donna volere, promettere, decidere, impegnare il proprio futuro; vivere dunque la gene­razione come un compito.

 

Il senso del figlio istruito attraver­so le forme della civiltà appare per altro per molti aspetti precario, incompiuto, e anche dubbio, come abbondante­mente dimostrano in parti­colare le forme della civiltà contemporanea.

Al di là delle forme della civiltà, la libertà di ciascuno deve cercare il volto stesso dell’Autore che abita in una luce inaccessibile. La verità del suo nome di Padre ci è compiutamente rivelata sol­tanto dal Figlio. La fede nel suo Vangelo deve perciò di­ventare il principio di una rinnovata comprensione del mistero nascosto nella esperienza della genera­zione, e più radicalmente del mistero nascosto nell’amore stesso dell’uomo e della donna.

Si tratta di una rinnovata compren­sione: essa non può prescindere dal riferimento a quelle evidenze origina­rie, che soltanto l’esperienza immedia­ta consente di conoscere nella loro pri­ma emergenza emotiva, che rispettiva­mente soltanto la tradizione della cul­tura consente di nominare e figurare in forme socialmente condivise.

L’illusione facile dei discorsi eccle­siastici sulla generazione è appunto quella di poter ignorare tale circolarità di rapporti tra il momento arcaico ed emotivo dei sentimenti, quello della tradizione culturale e finalmente quel­lo libero della decisione etico-religiosa, e quindi della fede. Spesso il senso del “progetto”, che brutta parola!, del figlio è proposto in termini immediata­mente ed esclusivamente evangelici, quasi dimenticando l’autorizzazione che quella scelta deve invece cercare a livello di sentimenti.

La stessa consistenza del compito educativo è descritta ricorrendo imme­diatamente al gergo ecclesiastico (“chiesa domestica”, “ministero coniu­gale”, la mamma come prima “catechi­sta” ecc.), scavalcando illusoriamente il complesso terreno del discernimento culturale. All’estremo opposto, il di­scorso ecclesiastico, quello dei teologi e degli “esperti” di consulenza matrimo­niale in specie, adotta talvolta imme­diatamente il gergo psicologico, o ri­spettivamente quello civile e “umani­stico” dei “diritti del bambino”, senza scorgere in alcun modo il nesso impre­scindibile del mistero familiare con il mistero di Cristo.

Il difetto di un discorso insieme cristia­namente pertinente ed umanamente “esperto” costituisce proporzionale mo­tivo di incompetenza del ministero della Chiesa di fronte al compito di aiutare la coscienza dei giovani sposi ad esprimere quell’atto di fede, assolutamente qualifi­cante dell’esperienza cristiana del matri­monio, che è la decisione di generare.

 


 

Nel grembo di tua madre

Vuoi un paragone?

Torna indietro, indietro nel tempo e immaginati nel seno di tua madre. Chiuso nelle sue viscere, con le mani, coi piedi, col tuo essere puoi toccare tua madre. Tu la percepisci, la senti, la tocchi ma non la vedi. Non è ancora il tempo.

Puoi dubitare di essa, della sua presenza, del suo essere,? Eppure non la vedi.

Il ventre di tua madre è la tua genesi e nella genesi ci sono molte cose che bisogna accettare senza capire. E ciò che illumina la genesi è solo la fede che è l'occhio della realtà che tu non puoi vedere e la speranza che è la certezza di venire alla luce quando sarà l'ora. Nella genesi hai mille e mille maniere di sentire la presenza di chi ti sta generando, ma devi accettare il tuo limite. Verrà il tempo!

Allora tu uscirai con tutta la creazione dalla sua matrice. Allora vedrai Dio faccia a faccia, allora toccherai il Trascendente col dito del tuo amore.

Nessun paragone mi ha aiutato di più a capire il perché del buio della fede e il perché dobbiamo essere piccoli dinanzi al mistero dell'Essere. Noi viviamo nel ventre delle cose, nel ventre della storia, nel ventre del contingente, nella dinamica del divenire. Solo alla fine dei tempi ci sarà aperta la visione della Trascendenza divina, l'al di là delle cose, e allora vedremo Dio faccia a faccia. Ma allora tutto sarà compiuto e spiegato. Prima non c’è che da attendere.

(Carlo Carretto)

 

Messaggio di tenerezza

 

Ho sognato che camminavo in riva al mare con il Signore e rivedevo sullo schermo del cielo tutti i giorni della mia vita passata. E per ogni giorno trascorso apparivano sulla sabbia due orme: le mie e quelle del Signore.

Ma in alcuni tratti ho visto una sola orma, proprio nei giorni più difficili della mia vita. Allora ho detto: “Signore, io ho scelto di vivere con te e tu mi avevi promesso che saresti stato sempre con me. Perché mi hai lasciato solo proprio nei momenti più difficili?”.

E Lui mi ha risposto: “Figlio, tu lo sai che io ti amo e non ti ho abbandonato mai: i giorni nei quali c'è soltanto un’orma sulla sabbia sono proprio quelli in cui ti ho portato in braccio”.

(Anonimo brasiliano)

 

 

 

Per che cosa sei disposto a dare la vita?

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La stanza del figlio

Tanti misteri attorno alla Stanza del figlio, ultimo film di Moretti. Ma l'ex enfant prodige del cinema italiano, sostiene che non si tratta di una strategia pubblicitaria, ma semplicemente il desiderio di regalare allo spettatore la sorpresa di un film di cui nessuno ha scritto fiumi di parole raccontandone malamente e approssimativamente la storia.

E cosi "La stanza del figlio" è riuscito a mantenere tutto il suo segreto, fino all'ultimo.
Questa volta Moretti aggiunge un nuovo elemento alla sua "poetica cinematografica": il sentimento. Con questo non vogliamo dire che le sue pellicole precedenti di sentimento non ne avessero, ma in questo film c'è l'essenzialità dei sentimenti: sofferenza, perdita, amore tutti purificati da orpelli inutili che in alcuni casi persino le troppe parole possono essere.


Racconta la storia di una famiglia normale, qualsiasi, in una cittadina di provincia. Giovanni psicoanalista, Laura sua moglie e i due figli adolescenti, Irene e Andrea. La morte accidentale del figlio è una deflagrazione troppo forte perché i membri non ne restino colpiti. Come pezzi di una bomba che scoppia, si allontanano l'uno dall'altro davanti all'inenarrabile dolore affrontando in modi diversi e spesso opposti, la perdita.

Giovanni ripercorrendo ossessivamente la fatale giornata domenicale, tentando persino coscientemente di cambiarne il corso; la sua rabbia lo porta a considerare uno dei suoi pazienti responsabile dell'incidente, della fatalità che lo ha voluto lontano dal figlio anziché insieme a lui.

Paola che urla il suo dolore piangendo tutte le sue lacrime e tentando la via del ritorno alla vita attraverso la lettera di una giovane amica del figlio spedita senza sapere.

Irene che sbattendo contro la solitudine di uno o dell'altro genitore piange di nascosto in un camerino di prova e fa uscire la sua rabbia picchiando i compagni di gioco.

È un dolore che allontana, divide le persone che si amano di più.

Si cercano ma restano distanti, in un silenzio e una solitudine che li disorienta, li confonde portandoli in un inferno di domande e sentimenti contraddittori dal quale però riusciranno miracolosamente a ritrovare la via del ritorno alla vita.

Riunendosi concluderanno quel diverso cammino che la sofferenza ha fatto percorrere loro.

Come sopravvissuti Giovanni, Paola e Irene ritorneranno "a casa", in una giornata di sole e luce accecante, con le loro diverse esperienze che serviranno a ricostruire una nuova e differente quotidianità.

Un film lungamente pensato: tre anni durante i quali Moretti, insieme a Linda Ferri e Heidrun Schleef, ha lavorato alla sceneggiatura, poi alle riprese, poi al montaggio. Un lavoro abitualmente lento perché molto meditato il suo, ma per sua stessa ammissione, mai tanto lento come per questo film. Non è facile parlare di lutti così fortemente sentiti, e ancora meno facile parlarne in modo essenziale, tralasciando ogni artificio tipicamente cinematografico che avrebbe potuto alleggerire o drammatizzare l'evento.
Moretti invece ha voluto tutta la concentrazione dello spettatore, tutta la sua commozione per partecipare a questo dolore a volte inesprimibile che lacera ogni minuto, ogni ora di più senza tregua.
L'intensità della Morante, accorata ma mai sopra né sotto le righe; la voce rotta e lo sguardo perso di Moretti che rende così giustizia ad una recitazione minimalista da tutti oramai conosciuta. Per tacere dei camei di Stefano Accorsi e Silvio Orlando, due pazienti di straordinaria ed elettrizzante bravura. Ma su questo nulla di nuovo, sono solo delle conferme.


 

6

 

Il clima creato in casa

da mamma e papà favorisce o contrasta

la crescita globale dei bambini

 

 

 

Educare ai valori religiosi

di ROBERTO ZAGNOLI

(psicopedagogista)

 

 

Il rapporto educativo è un rapporto globale che coinvolge ogni singolo aspetto dell’educazione. Di conse­guenza, l’impegno di educare non può rinunciare a nessuno degli aspetti che compongono una equilibrata personali­tà, perché è tutta la persona che deve essere educata. Quindi dire “famiglia ed educazione” significa affrontare anche il problema dell’educazione ai valori reli­giosi, e d’altronde dire “educazione ai va­lori religiosi” significa porsi il problema di tutta l’educazione. Il discorso porta a sot­tolineare una consapevolezza a cui l’uo­mo è tranquillamente pervenuto nella storia pedagogica della scoperta di sé: ognuno è una unità inscindibile, nessuno degli oggetti della personalità è separabile in assoluto dagli altri e ognuno di questi finisce per arricchire o condizionare gli altri. Se questo è vero, l’impegno educati­vo ai valori religiosi impone attenzione ad un itinerario molto lungo che ha come prima tappa l’essere educatore.

In principio c’è l’educatore come perso­na che incarna valori e li vive. E lui il primo strumento educativo. Prima dei metodi, delle parole che usa, il suo modo di educare è legato a quello che egli è. Se il soggetto del nostro discorso è la famiglia, è logico che il primo problema è legato ai genitori i quali, prima di essere considera­ti coppia, debbono essere considerati co­me individui con un loro retroterra di educazione personale e quindi con un loro modo di essere.

 

È questo “modo di essere” unito al modo di essere dell’altro che crea il clima educativo. Molte situazioni educative non scattano o scattano male perché i due o almeno uno dei due non ha maturato per sé quello che desidererebbe comuni­care all’altro. Il primo problema allora è veramente legato all’individuo e alla sua formazione e per quanto riguarda il pro­blema religioso occorre veramente farsi alcune domande fondamentali.

Certi interrogativi quali l’idea di Dio, l’incidenza del “religioso” nella vita quotidia­na, il rapporto tra fede e culto eccetera è necessario verificar­li. I motivi per i quali, ad esem­pio, si chiedono i sacramenti dell’iniziazione cristiana per il figlio non possono essere legati solo alla tradizione: «Si è fatto sempre così» (qualcheduno addirittura dice: «Mio figlio de­ve avere tutto quello che han­no gli altri bambini»), ma ad una convin­zione che si traduce poi in uno “stile di vita”.

Se il rapporto educativo è rapporto di due con uno è logico che le convinzioni individuali debbono essere messe insie­me e diventare convinzioni di coppia. Og­gi il problema non viene posto. In una società dove è frequente il caso di persone che si sposano pur con fedi diverse (ovvia­mente nel nostro caso alla parola “fede” si intende dare un significato generico di “punti di riferimento”) pare quasi natu­rale non porsi e non porre il problema.

Non dico sia impossibile una vita di coppia dove gli individui pongono alla propria radice riferimenti ideali diversifi­cati, certo è molto difficile. Occorrerebbe per lo meno che si mettesse nei conti di ricercare insieme la verità, ma non penso che questo sia un atteggiamento molto diffuso.

 

Si accetta semplicemente e tacita­mente che ognuno la “pensi come vuole” e in tanti casi che, nei primi anni di vita, almeno fino alle soglie dell’adolescenza, il bambino abbia una “certa” educazione religiosa in gran parte affidata alla madre o a certi parenti (soprattutto le nonne) e, successivamente in età scolare, alle istitu­zioni demandate allo scopo, quali ad esempio, le parrocchie.

E’ questo il motivo per cui il problema della necessaria educazione ai valori cri­stiani nella pastorale sia posto in netta evidenza. I tempi e gli strumenti ci sono. Ne indichiamo due: preparazione della coppia al matrimonio e preparazione al battesimo del figlio.

Ai genitori, prima di iniziare il vero e proprio rito del battesi­mo, si chiede espressamente di esprimere la loro consapevo­lezza sugli impegni che si assu­mono chiedendo di battezzare il figlio. E ancora analoga con­sapevolezza è richiesta agli sposi prima della promessa re­ciproca quando si domanda lo­ro la disponibilità ad accettare i figli e ad «educarli secondo la legge di Cristo e della sua Chie­sa». A quelle domande quanti “si” sono veramente convinti?

Le scienze psicologiche e pedagogiche sono concordi nell’affermare che nessun momento è libero dall’impegno educati­vo. Dal concepimento, anzi, dal modo di essere dei genitori come coppia e come individui ogni relazione con il figlio è edu­cativa.

 

La vita di relazione con un bambino appena nato e il suo modo di crescere è tutto legato alle sensazioni da cui è circon­dato. Apparentemente par che si nutra e dorma soltanto, in realtà dentro di lui si compongono le situazioni che l’ambiente circostante gli sollecita. Ogni stimolo gio­ca dentro di lui in positività o in negativi­tà. Le linee future portanti la sua perso­nalità vengono tutte tracciate nei primi tre anni di esistenza.

La prima esigenza fondamentale di una nuova creatura è l’esigenza d’amore. Ma questa esigenza è legata profonda­mente ad una esperienza che è l’esperien­za di Dio. I genitori incarnano fin dai primi momenti dell’esistenza l’amore di Dio e lo rivelano ai figli. Più sono piccoli e più apprendono per sensazioni ed espe­rienze immediate. Recita il nuovo Cate­chismo: «Lasciate che i bambini vengano a me», «I diversi modi di esprimere l’amo­re proposti dalla presenza della madre e da quella altrettanto necessaria del pa­dre, diventano insieme i segni dell’amore fedele dell’unico Padre. In questo i geni­tori sono mediatori tra Dio e i bambini».

E ancora: «Quando i bambini vedono che i genitori li trattano con tenerezza e con fermezza, e che non sono né deboli né rigidi, il loro cuore si apre al senso della paternità divina. Il sorriso dei genitori attrae il sorriso dei bambini: è un riflesso della gioia del Padre. Il pianto dei bambini sollecita le cure dei genitori come eco della bontà del Padre. L’immagine di Dio-Amore si offusca e si deforma se il sorriso non è incoraggiato, se il pianto non è con­solato» (pag. 61).

 

Il rapporto Dio-genitore-bambino è così stretto che la scienza psicologica, so­prattutto quella legata all’età evolutiva, ha potuto dimostrare che ognuno incarna un’idea di Dio legata al modo di come i genitori si sono rapportati a lui. L’affida­mento completo alla madre e al padre dei primi anni di vita, ha comunicato un’idea della paternità di Dio, che poi è misurata pari sul modo di essere dei genitori.

Da tutto questo allora l’enorme impor­tanza che hanno i primi anni di vita; il ruolo insostituibile del clima familiare sull’educazione religiosa dei figli ad ini­ziare da quei primi momenti; l’affettività intesa come partecipazione totale dei ge­nitori al figlio e nel contempo come ele­mento manifestativo e tangibile dell’Al­tro che ama.

Già il tema dell’amore è legato intima­mente alla tangibilità. Essa nella condi­zione umana è la conditio per ogni tipo di comunicazione anche quella di Dio con l’uomo.

Lasciamo che sia ancora il Catechismo per l’iniziazione cristiana dei bambini ad illuminare su questo tema. «Dio nessuno l’ha mai visto. Come può farsi conoscere dai bambini? Dio parla di sé attraverso le persone, i fatti, le cose. Dio è amore e tutti i gesti di amore hanno radice in Lui. L’incontro dei bambini con la tenerezza che Dio ha per tutte le creature avviene attra­verso i gesti bontà degli adulti» (pag. 61).

La pedagogia dei segni è l’aspetto fondamentale di un’educazione ai valori reli­giosi. Il bambino che vive l’ade­sione piena e totale di sé alle cose, dalle cose riceve sollecita­zione allo stupore, alla gratitud­ine, all’entusiasmo e alla paura. E im­portante abituarlo a capire che ogni cosa ha in sé un valore di rimando, è l’inizio di una scoperta. Questa situazione i bambini la vivono “naturalmente”.

Il gioco fantastico ed entusiasmante apre a loro orizzonti che possono aiutare anche gli adulti a comportarsi con un po’ più di creatività e fantasia. La scoperta fondamentale alla quale debbono essere indotti è che «tutto viene da Dio» e ogni cosa è un piccolo barlume della sua prov­vidente grandezza.

 

“Tutto viene da Dio, non solo i pesci rossi, anche i serpenti. Non solo il prato soffice, anche il legno duro. Non solo il sole, anche la pioggia... E importante edu­care i bambini al rispetto del creato e accompagnarli alla scoperta di ogni dono nel segno della condivisione e della solida­rietà con tutti i bambini del mondo” (cit. pag. 63).

Il “Dio che non si vede” ha parlato e si è manifestato a noi per mezzo del Figlio (cfr. Ebrei 1,1-2). Questo Figlio è Gesù. Senza insistere più di tanto si invita a leggere tutte le pagine che nel nuovo Ca­techismo parlano dell’annuncia di Gesù e dell’incontro con lui. Si vuole sottolineare un aspetto che è veramente fondamenta­le per quell’incontro. «E’ decisivo che il primo incontro col nome di Gesù avvenga sotto il segno della vita e sia associato alla gioia e all’amore. Quando ciò avviene tut­ti i successivi incontri saranno più facili perché evocano una presenza di bene» (cit, pag. 65).

Due, comunque, sono le strade obbli­gate nella ricerca dei segni evocativi della presenza del Signore Gesù in mezzo alla storia: narrare di lui e legare le parole sempre alla tangibilità: i gesti, le im­magini, gli oggetti che i bambi­ni fanno, toccano, vedono.

«C’è un giorno, c’è un’ora nella vita di un bambino, in cui per la prima volta risuona al suo orecchio il nome: Gesù... E’ giunto il momento in cui i bam­bini ascoltano i primi racconti su Gesù e ripetono il suo nome.

Ogni discorso su Gesù deve conformarsi al Vangelo, cioè portare la buona notizia che lui per primo ci ha amati, ci ama e ci amerà sempre, prima ancora che noi sia­mo capaci di amarlo e fare qualcosa per lui» (cit, pag. 69).

 

La raccomandazione di leggere il nuovo Catechismo, vale anche e a mag­gior ragione, per la voce “narrare”. Tra l’altro il testo si preoccupa di avvertire che «le parole che seguono sono soltan­to un esempio di come si può raccontare di Gesù per incoraggiare genitori ed educatori in questa meravigliosa im­presa” (pag. 66); rimane e viene confer­mata la fondamentale positività dell’elemento narrativo come essenziale per un’educazione al valori religiosi.

Tale essenzialità è riconosciuta an­che da tutte le scuole e sistemi pedagogi­ci e vale per l’educazione in genere.

Sul fronte dei genitori, però, sembra che lo strumento educativo del narrare faccia difficoltà ad entrare. Oberati da un’esistenza frenetica, con minor tem­po a disposizione verso i figli, alla fine quella che viene a mancare è proprio la pazienza del narrare. Eppure, gli ele­menti fondamentali per una consuetu­dine al dialogo, per una sollecitazione a cogliere continuità nelle esperienze frammentate dell’esistenza, per fissare un minimo di linearità ideale nei valori di riferimento e nei comportamenti, so­no certamente favoriti da un’educazio­ne che riconosca lo strumento della nar­razione come indispensabile per confer­mare tutto questo.

La parola che non ha riferimento alla tangibilità, nella mente del bambino ri­schia l’inconcludenza. Il bambino fini­sce per accogliere solo quelle parole che si incarnano nelle cose e nei gesti. Fuori da questo inevitabile rapporto la parola è vuota ed inefficace.

Il Gesù che “non si vede” occorre ac­costarlo e “farlo vedere” attraverso le cose che possono rimandare a Lui: il fascino di una candela accesa o di una luce, «la muta meraviglia per una gran­de croce vista in chiesa, l’esclamazione commossa per l’uomo che vi è appeso, la

curiosità del Presepe, la richiesta di po­tere mangiare un pezzetto di pane bian­co quando il babbo o la mamma si acco­stano all’Eucarestia, la vista di un’im­magine sacra... il linguaggio da usare con loro deve essere sempre legato alle esperienze visive, alle parole e alle cono­scenze che i bambini hanno fatto pro­prie». (Cit, pag. 55).

Uno strumento fondamentale che ha dalla sua una forza evocativa straordinaria è certamente l’anno li­turgico con la celebrazione delle sue memorie. La pedagogia della Chiesa ha pensato all’anno liturgico proprio come possibilità di far vivere nel tem­po e nel memoriale delle celebrazioni i grandi temi della salvezza. L’accosta­mento ai segni liturgici e all’ambiente liturgico, cioè la chiesa, fatto con quel­la gradualità che è rappresentata dalla crescita evolutiva del bambino, è uno degli strumenti più efficaci per un’educazione ai valori religiosi.

 

Chi dallo scritto si aspettava indi­cazioni più precise, sarà forse rimasto deluso. Ma se queste sono esigenze, sia ben chiaro legittime, vorrei rimandare alla lettura di quel testo, praticamente l’unico citato, che è il “Catechismo per l’iniziazione cristiana dei bambini” edi­to a cura della Conferenza Episcopale Italiana. La consultazione continua e la lettura attenta saranno certamente più efficaci di quanto si possa leggere in un articolo.

Ho creduto di insistere, invece, su alcuni principi fondamentali, necessa­ria premessa ad una educazione ai valori religiosi. Ho insistito anche su un perio­do di tempo, la primissima infanzia, perché veramente determinante per la crescita equilibrata e futura della perso­na. “Catechismo dei bambini” e artico­lo, comunque, saranno veramente effi­caci solo se incontrano una famiglia che prima di tutto ispira i propri comporta­menti alle dinamiche cristiane e da que­sto sa cogliere con fantasia gli elementi da comunicare a quell’originale e irre­petibile soggetto che è il loro figlio.

 

Roberto Zagnoli


 

La fede cristiana

In termini molto sintetici, cerchiamo di riassumere i tratti fondamentali della fede cristiana, rispondendo a queste due domande.

 

Che cosa non è la fede cristiana?

La fede cristiana:

 

Che cosa è la fede cristiana nella sua identità?

La differenza tra il credere in una persona ed il credere in una dottrina viene messa in evidenza anche dall'esperienza dell'amore: voi amate una persona, non un ideale di persona.

La “carta di credito” offerta da Gesù Cristo a noi per poter credere in lui è la sua morte e risurrezione.

Per questo S. Paolo, fin dagli inizi della vita della Chiesa, scrive: “Se Cristo non fosse risorto è vana la vostra fede”.

Questa presenza di Gesù attraverso la Chiesa non esclude che Egli possa raggiungere ogni uomo, di ogni tempo e luogo, mediante l’azione imprevedibile e immediata del suo Spirito.

 

 

 

Alcuni rapporti tra la ricerca di Dio e la fede cristiana

 

La ricerca di Dio è comune a tutti i credenti.

Ma per chi crede in Cristo, anche la ricerca di Dio ha alcune caratteristiche particolari.

Se per il credente il verbo fondamentale è “cercare” Dio, per il cristiano l'atteggiamento fondamentale è “accogliere” Dio che mi cerca.

Se per il credente il punto essenziale è la propria capacità di trovare Dio, per il cristiano il primo passo è “affidarsi” al Dio che mi vuole incontrare in Cristo.

Se per il credente il soggetto della ricerca di fede è l’uomo, per il cristiano il protagonista è Dio che dona a noi la sua vita: a noi il compito di accoglierla con gioia nella libertà e nella conversione.

La sintesi di questo tipico cammino cristiano potrebbe essere formulata così: “cerchiamo Colui che ci cerca”.

 

Gesù ha detto: “Io sono la luce del mondo”.

Invochiamo questa luce divina perché guidi i nostri cuori in ogni giorno della nostra vita.

 

 

Riprendiamo le domande sulla fede e preoccupiamoci di pensare, non alla fede in generale ma alla “mia” fede, al mio personale cammino di fede.

 

Quale importanza ha Dio nella tua vita?

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Chi è Dio per te?

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Quale rapporto hai con Dio?

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Quando ricorri a Dio?

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Qual'è il tuo cammino di fede? E’ solo ricerca razionale? E’ solo pratica religiosa? E’ solo una fede generica?

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La tua fede è veramente fede cristiana oppure è una religiosità generica?

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Quali sono per te i punti fondamentali della tua fede cristiana? Sono solo l'osservanza di alcune norme o di alcuni impegni oppure è veramente la persona di Cristo?

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Più volte Gesù ha chiesto ai suoi discepoli: “Per voi, io chi sono?”.

Che cosa risponderesti alla domanda: “chi è Gesù per te?”.

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…‛azzah kammawet ’ahabah

 

Queste tre parole ebraiche della finale del Cantico – Forte come la Morte è l’Amore -  possono diventare la sigla poetica, simbolica e spirituale di questo gioiello letterario della Bibbia.

Un libro consacrato dall’amore all’amore, un libro dedicato a Lei e a Lui, l’eterna coppia che appare sulla faccia della terra ogni giorno, avvolta nella felicità dell’amore. Un libretto dedicato all’amore giovane, primaverile, presente non solo nella coppia bella di due giovani ma anche nell’immutata e indistruttibile tenerezza di una coppia anziana ancora innamorata, seduta sulla panchina di un parco cittadino davanti ai giochi liberi e festosi dei bambini. Un poemetto folgorante dedicato soprattutto alla femminilità, perché in esso la donna è protagonista più dell’uomo nonostante il sedimentato maschilismo dell’Oriente da cui proviene. Un testo dedicato a liquidare tutte le ipocrisie, perché l’occhio del suo poeta è puro e vede con passione lo splendore della natura, del corpo, dell’eros, del sentimento, della tenerezza, della comunione, degli aromi, dei suoni, dei colori, delle armonie. Un inno continuo dedicato alla gioia di vivere: quando il cielo è spento dalle nuvole – scriveva Paul Claudel – la superficie del lago è piatta e metallica; quando brilla il sole essa si trasforma in uno specchio mirabile delle tinte del cielo e della terra. Così, infatti, è della vita dell’uomo quando s’accende l’amore: il panorama è sempre lo stesso, il lavoro è sempre monotono e alienante, le città anonime e fredde, i giorni identici l’uno all’altro; eppure l’amore tutto trasfigura ed allora si ama tutto e tutto si vede con occhi diversi, perché l’uomo sa che alla sera incontrerà la sua donna. Perché l’uomo credente sa che alla sera della vita incontrerà il suo Signore.

Un cantico supremo dedicato all’amore visto come frammento di infinito. Un messaggio dedicato, quindi, a tutti coloro che attraverso l’amore incontrano l’uomo e il Dio che è amore infinito.

Il Cantico è, perciò, il libro di tutti gli uomini veri, autentici, che sanno amare.

L’amore del Cantico è fieramente umano ma questo amore umano ha in sé un seme divino, è il paradigma per la conoscenza del «Dio che è amore». L’amore è segno di infinito; il punto di partenza del Cantico è terrestre e umano ma aperto al teologico e al mistico. Le parole di Bonhoeffer, il pastore protestante martire nei campi di concentramento nazisti, nella sua opera Resistenza e resa sono significative per precisare questa inseparabilità, nella distinzione, dell’amore umano e di quello divino:

“Ogni grande amore comporta il rischio di farci perdere di vista quella che io chiamerei la polifonia della vita. Dio e la sua eternità vogliono essere amati da noi pienamente, ma quest’amore non deve né nuocere né indebolire l’amore terreno; dev’essere in qualche modo il canto fermo attorno a cui cantano le altre voci della vita; l’amore terreno è uno di questi temi a contrappunto che, pur avendo la loro piena indipendenza, si riferiscono però al canto fermo”.

 

… Nei versi del Cantico il lettore scoprirà soprattutto l’abbandono ad una relazione intima e personale che è fatta tutta di io-tu/mio-tuo. Questa perfetta intimità passa attraverso tre gradi. Conosce la sessualità che è “molto buona”, come si dice nella Genesi, cioè creata da Dio e adatta all’uomo. Lutero giustamente affermava che il corpo viene da Dio. Ma la sessualità da sola è cieca, fisica, animale. L’uomo può nel sesso intuire l’eros, cioè il fascino della bellezza, l’estetica del corpo, l’armonia della creatura. È ancora Lutero che a proposito di questa seconda tappa affermava che il desiderio umano verso la donna è un dono buono di Dio. Ma con l’eros i due esseri restano ancora un po’ “oggetto”, esterni l’uno all’altro. È solo con la terza tappa, quella dell’amore, che scatta la comunione piena che illumina e trasfigura sessualità ed eros. Ed è solo l’uomo che può percorrere tutte queste tappe giungendo alla perfezione dell’intimità e del dialogo.

 

Canto dell’intimità e della comunione d’amore, il Cantico conosce, però, anche la “finitudine” dell’amore umano, il suo silenzio.

La profonda identità tra i due, fatti carne della stessa carne, vita della stessa vita, non deve però cancellare la ricchezza della loro singolarità e della loro diversità anzi la deve esaltare. L’amore vero non mortifica ma armonizza due esistenze in una sinfonia di vita e di voce. È quello che vogliono dire i numerosi ritratti che i due innamorati disegnano l’uno dell’altro.

È quello che esprime limpidamente il poeta libanese Khalil Gibran nella lirica seguente che sentiamo come un commento nuovo e libero al Cantico.

 

Allora Almitra nuovamente parlò e  disse:

“Che cos’è il Matrimonio, maestro?”.

Ed egli rispose dicendo:

“Voi siete nati insieme, e insieme starete per sempre.

Voi sarete insieme quando le bianche ali della morte disperderanno i vostri giorni.

Sì, insieme anche nella tacita memoria di Dio.

Ma vi siano spazi nella vostra unione,

E fate che i celesti venti danzino tra voi.

 

Amatevi reciprocamente, ma non fate dell’amore un laccio:

Lasciate piuttosto che vi sia un mare in moto tra le sponde delle vostre anime.

Riempia ognuno la coppa dell’altro, ma non bevete da una coppa sola.

Scambiatevi il pane, ma non mangiate dalla stessa pagnotta.

Cantate e danzate e siate gioiosi insieme, ma che ognuno di voi resti solo,

Così come le corde di un liuto sono sole benché vibrino della stessa musica.

 

Datevi il cuore, ma l’uno non sia in custodia dell’altro.

Poiché soltanto la mano della Vita può contenere entrambi i cuori.

E restate uniti, benché non troppo vicini insieme:

Poiché le colonne del tempio restano tra loro distanti,

E la quercia e il cipresso non crescono l’una all’ombra dell’altro”.

 

Khalil Gibran


 

Quale tempo dedichi, nella tua giornata e nella tua vita, alla Parola di Dio e alla lettura del Vangelo?

Alla preghiera?

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Partecipi alla celebrazione eucaristica domenicale? Per quale motivo? (abitudine, tradizione, convinzione...). E in quale modo?

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Partecipi a qualche forma di catechesi ? Ne senti l'esigenza? Quali sono le difficoltà da superare?

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