PER NON DIMENTICARE

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"An eye for an eye leaves the whole world blind"   Gandhi.

 

di Tiziano Terzani

di Oriana Fallaci

di Dacia Maraini

di Sergio Romano

di Tiziano Terzani

di Giovanni Sartori

di Giuliano Zincone

Dossier di Narcomafie

di Tiziano Terzani

di Massimo Introvigne

di Tiziano Terzani

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dall'enciclopedia Encarta

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

QUEL GIORNO TRA I SEGUACI DI BIN LADEN

di Tiziano Terzani

 

Per loro quello delle armi non è un mestiere ma una missione. La civiltà musulmana, un tempo grande e temuta, si sente ora sempre più marginalizzata, umiliata e offesa dallo strapotere dell’Occidente. L’Islam è una grande e inquietante religione con una sua tradizione di atrocità e di delitti (come tante altre fedi peraltro), ma è assurdo pensare che si possa cancellarla dalla faccia della Terra.

 

Il mondo non è più quello che conoscevamo, le nostre vite sono definitivamente cambiate. Forse questa è l’occasione per pensare diversamente da come abbiamo fatto finora, l’occasione per reinventarci il futuro e non rifare il cammino che ci ha portato all’oggi e potrebbe domani portarci al nulla. Mai come ora la sopravvivenza dell’umanità è stata in gioco. Non c’è niente di più pericoloso in una guerra - e noi ci stiamo entrando - che sottovalutare il proprio avversario, ignorare la sua logica e, tanto per negargli ogni sua possibile ragione, definirlo un «pazzo». Ebbene, la Jihad islamica, quella rete clandestina e internazionale che fa ora capo allo sceicco Osama Bin Laden e che, con ogni probabilità, ha avuto la mano nell’allucinante attacco-sfida agli Stati Uniti, è tutt'altro che un fenomeno di «pazzia» e, se vogliamo trovare una via d'uscita dal tunnel di sgomento in cui ci sentiamo gettati, dobbiamo capire con chi abbiamo a che fare e perché. Nessun giornalista occidentale è riuscito a passare del tempo con Bin Laden e a osservarlo da vicino, ma alcuni hanno potuto avvicinare e ascoltare la sua gente. A me capitò, nel 1996, di passare una giornata in uno dei campi di addestramento che lui finanziava al confine fra il Pakistan e l’Afghanistan. Ne uscii sgomento e impaurito. Per tutto il tempo in mezzo ai mullah, duri e sorridenti, e tanti giovani dagli sguardi freddi e sprezzanti, mi ero sentito un appestato, il portatore di un qualche morbo da cui non mi ero mai sentito affetto. Ai loro occhi la mia malattia era semplicemente il mio essere occidentale, rappresentante di una civiltà decadente, materialista, sfruttatrice, insensibile ai valori universali dell’Islam. Ho visto i seguaci di Bin Laden Duri, sprezzanti, senza dubbi Dobbiamo capire con chi abbiamo a che fare per trovare una via d'uscita Avevo provato sulla pelle la conferma che, con la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo, la sola ideologia ancora determinata ad opporsi al Nuovo Ordine, che, con l’America in testa, prometteva pace e prosperità al mondo globalizzato, era quella versione fondamentalista e militante dell’Islam. L’avevo intuito per la prima volta viaggiando nelle re pubbliche musulmane dell’Asia Centrale ex sovietica e l’avevo sentito con la stessa precisione incontrando i guerriglieri anti-indiani nel Kashmir e intervistando uno dei loro capi spirituali che mi salutò dandomi in regalo una copia del Corano - l a mia prima - perché ci «imparassi qualcosa». Vedendo e rivedendo, allibito come tutti, le immagini degli aerei che si schiantavano facendo una carneficina nel centro di New York, così come nei giorni prima leggendo le notizie degli uomini-bomba palestinesi che si facevano saltare in aria mietendo vittime per le strade di Israele, mi tornavano in mente quei giovani di varie nazionalità, ma di una unica, ferma fede, che avevo visto in quel campo di addestramento: erano gente di un altro pianeta, di un altro tempo, gente che «crede» come noi stessi abbiamo saputo fare in passato, ma non sappiamo più, gente che considera il sacrificio della propria vita per una causa «giusta» come una cosa «santa». Quei giovani erano d'una pasta che noi abbiamo difficoltà ad immaginare: indottrinati, abituati ad una vita spartanissima, ritmata da una stretta routine di esercizi, studio e preghiere, una vita tutta disciplina, senza donne prima del matrimonio, senza alcol, senza droghe. Per Bin Laden e la sua gente quello delle armi non è un mestiere, è una missione che ha radici nella fede acquisita nell’ottusità delle scuole coraniche, ma soprattutto nel profondo senso di scacco e di impotenza, nell’umiliazione di una civiltà - quella musulmana - un tempo grande e temuta, che si vede ora sempre più marginalizzata e offesa dallo strapotere e dall’arroganza dell’Occidente. E' un problema che varie altre civiltà hanno dovuto affrontare nel corso dei due secoli passati. Quell’umiliazione la provarono i cinesi davanti «alle barbe rosse» degli inglesi che imposero loro il commercio dell’oppio, la provarono i giapponesi davanti alle «navi nere» dell’ammiraglio americano Perry che voleva aprire il Giappone al commercio. La prima reazione fu di smarrimento. Come poteva la loro civiltà, di gran lunga superiore a quella degli stranieri-invasori, essere messa al muro e resa così impotente? I cinesi cercarono una soluzione innanzitutto con un ritorno alla tradizione (la rivolta dei Boxer), poi imboccando la via della modernizzazione di stile sovietico e ultimamente di stile occidentale. I giapponesi, già alla fine dell’Ottocento, fecero questo salto tutto in una volta, mettendosi a imitare ossessivamente tutto ciò che era occidentale, copiando le uniformi degli eserciti europei, l’architettura delle nostre stazioni e imparando a ballare il valzer. Occidente diabolico Questo problema del come sopravvivere al confronto con l’Occidente, mantenendo una propria identità, si è posto ovviamente nel Novecento anche per i musulmani e anche nel loro caso le risposte hanno oscillato fra il rifugio nel tradizionale, come nel caso dello Yemen o dei Wahabi, e varie forme di occidentalizzazione: la più ardita e radicale è stata quella attuata in Turchia da Kemal Ataturk il quale negli anni Venti, riscrivendo la Costituzione, togliendo il velo alle donne, sostituendo la legge islamica con una copia del codice civile svizzero e una di quello penale italiano, mise il suo Paese sulla strada che oggi sta portando Istanbul, pur con qualche sussulto, a diventare parte della Comunità Europea. Per i fondamentalisti questa occidentalizzazione del mondo islamico è un anatema e mai come ora questo processo minaccia ai loro occhi la sua identità. Secondo loro, con la fine della Guerra Fredda l’Occidente ha scoperto le sue carte e sempre più chiaro appare il progetto - per loro «diabolico» - di incorporare l’intera umanità in un unico sistema globale che, grazie alla tecnologia in suo possesso, dia all’Occidente l’accesso e il controllo di tutte le risorse del mondo, comprese quelle che il Creatore - non a caso, secondo i fondamentalisti - ha messo nelle terre dove è nato e si è esteso l’Islam: dal petrolio del Medio Oriente a l legname delle foreste indonesiane. Guerra agli Usa E' solo negli ultimi dieci anni che questo fenomeno della globalizzazione, o meglio della americanizzazione, si è rivelato nella sua ampiezza. Ed è esattamente nel 1991 che Bin Laden, fino allora un protegé degli americani (il suo primo lavoro in Afghanistan fu quello di costruire per la Cia i grandi bunker sotterranei per lo stoccaggio delle armi destinate ai mujaheddin), si rivolta contro Washington. Lo stazionamento di truppe americane nel suo Paese, l’Arabia Saudita, durante e dopo la guerra del Golfo, gli parve un insopportabile affronto e una violazione della santità dei luoghi sacri dell’Islam. La posizione di Osama Bin Laden divenne chiara nel 1996 quando lanciò la sua prima dichiarazione di guerra contro gli Stati Uniti: «Le pareti di oppressione e umiliazione non possono essere abbattute che con una grandine di pallottole». Nessuno lo prese molto sul serio. Ancora più esplicito fu il manifesto della sua organizzazione, Al Qaeda, reso noto nel 1998 dopo una riunione dei vari gruppi associati a Bin Laden. «Da sette anni gli Stati Uniti occupano le terre dell’Islam nella penisola araba, saccheggiando le nostre ricchezze, imponendo la loro volontà ai nostri governanti, terrorizzando i nostri vicini e usando le loro basi militari nella penisola per combattere i popoli musulmani vicini». L’appello rivolto a tutti i musulmani fu quello di «confrontare, combattere e uccidere» gli americani. L’obiettivo dichiarato di Bin Laden è la liberazione del Medio Oriente. Quello sognato in nome dell’eroico passato è forse molto più vasto. I primi attacchi della jihad sono sferrati contro le ambasciate americane in Africa e provocano decine e decine di morti. Washington risponde bombardando le basi di Bin Laden in Afghanistan e una fabbrica di medicinali in Sudan provocando centinaia, altri dicono migliaia di vittime civili (il numero esatto non fu mai accertato perché gli Stati Uniti bloccarono un'inchiesta dell’Onu sull’incidente). La controrisposta di Bin Laden è venuta ora a New York e a Washington. Non potendo colpire i piloti dei B-52 che sganciano le loro bombe da altezze irraggiungibili, né arrivare ai marinai che lanciano i loro missili dalle navi al largo, la soluzione è quella terroristica di attaccare masse di civili indifesi. Le azioni di questi uomini sono atroci, ma non sono gratuite, sono atti di guerra, una guerra che da tempo non è più quella cavalleresca, una guerra in cui il bombardamento di popolazioni inermi è già stato un fenomeno comune a tutti i belligeranti dell’ultimo conflitto mondiale, da quello dei V2 tedeschi su Londra, al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki col suo bilancio di oltre duecentomila morti: tutti civili. Da tempo ormai si combattono con mezzi e metodi nuovi guerre non dichiarate, lontano dagli occhi del mondo che si illude oggi di vedere e capire tutto solo perché assiste in diretta al crollo delle Torri Gemelle. Dal 1983 gli Stati Uniti hanno bombardato a più riprese nel Medio Oriente Paesi come il Libano, la Libia, l’Iran e l’Irak. Dal 1991 l’embargo imposto dagli Stati Uniti all’Irak di Saddam Hussein dopo la guerra del Golfo ha fatto, secondo stime americane, circa mezzo milione di morti, molti dei quali bambini a causa della malnutrizione. Cinquantamila morti all’anno sono uno stillicidio che certo genera in Irak e in chi si identifica con l’Irak una rabbia simile a quella che l’ecatombe di New York ha generato nell’America e di conseguenza anche in Europa. Importante è capire che fra queste due rabbie esiste un legame. Ciò non significa confondere le vittime coi boia, significa solo rendersi conto che, se vogliamo capire il mondo in cui siamo, lo dobbiamo vedere nel suo insieme e non solo dal nostro punto di vista. Non si può capire quel che ci sta succedendo solo a sentire le dichiarazioni dei politici, costretti come sono a ripetere formule retoriche, condizionati a reagire alla vecchia maniera a una situazione completamente nuova e incapaci di ricorrere alla fantasia per suggerire ad esempio che, invece di fare la guerra, questo è il momento di fare finalmente la pace, a cominciare da quella fra israeliani e palestinesi. Invece guerra sarà. In queste ore una strana coalizione si sta mettendo in moto attraverso gli automatismi di trattati nati per un fine e ora usati per un altro e attraverso l’adesione di Paesi come la Cina, la Russia e forse anche l’India, ognuno spinto dai propri interessi strettamente nazionalistici. Per la Cina la guerra mondiale contro il terrorismo è una buona occasione per cercare di risolvere i suoi vecchi problemi con le popolazioni islamiche nei suoi territori di confine. Per la Russia di Putin è un'occasione per risolvere innanzitutto il problema della Cecenia e mettere a tacere tutte le accuse per le spaventose violazioni dei diritti umani da parte delle truppe di Mosca laggiù. Lo stesso è vero per l’India e il suo annoso conflitto per il controllo del Kashmir. Il problema è che sarà estremamente difficile fare apparire questa guerra solo come una campagna contro il terrorismo e non come una guerra contro l’Islam. Stranamente la coalizione che oggi si sta formando assomiglia molto a quella che secoli fa l’Islam si trovò a combattere su due fronti: a Occidente i Crociati, a Oriente le tribù nomadi dell’Asia Centrale e i mongoli. In quella occasione i musulmani resistettero e finirono per convertire all’Islam gran parte dei loro avversari. Questa è la scommessa che Bin Laden e i suoi possono aver fatto sferrando il loro attacco al cuore dell’America. Forse contano proprio su una rappresaglia del mondo occidentale per coagulare una massiccia resistenza islamica e fare di quella che oggi è una minoranza, pur determinata, un fenomeno più esteso. L’Islam si presta bene, per la sua semplicità e il suo innato carattere di militanza, a essere l’ideologia dei dannati della Terra, di quelle masse di poveri che oggi affollano, disperate e discriminate, il Terzo Mondo occidentalizzato. Intreccio di interessi Più che rimuovere i terroristi e chi li ha appoggiati (forse ci sorprenderà sapere quanti personaggi, alcuni anche insospettabili, sono coinvolti), sarebbe più saggio rimuovere le ragioni che spingono tanta gente, soprattutto fra i giovani, nelle file della jihad e fanno loro apparire come una missione il compito di uccidersi e di uccidere. Se noi davvero crediamo nella santità della vita, dobbiamo accettare la santità di tutte le vite. O siamo invece pronti ad accettare le centinaia, le migliaia di morti - anche quelli civili e disarmati - che saranno vittime della nostra rappresaglia? Basterà alle nostre coscienze che quei morti ci vengano presentati, nel gergo da pubbliche relazioni dei militari americani, come «danni collaterali»? Dipende da quel che noi faremo, da come reagiremo a questa orribile provocazione, da come vedremo la nostra storia di ora nella scala della storia dell’umanità, il tipo di futuro che ci aspetta. Il problema è che fino a quando penseremo di avere il monopolio del «bene», fino a che parleremo della nostra come la civiltà, ignorando le altre, non saremo sulla buona strada. L’Islam è ovunque L’Islam è una grande e inquietante religione con una sua tradizione di atrocità e di delitti (come tante altre fedi peraltro), ma è assurdo pensare che un qualsiasi cowboy, pur armato di tutte le pistole del mondo, possa cancellare questa fede dalla faccia della Terra. Meglio sarebbe aiuta re i musulmani stessi a isolare, invece che renderle più virulente, le frange fondamentaliste e a riscoprire l’aspetto più spirituale della loro fede. L’Islam è ormai ovunque. Nell’America stessa ci sono ormai tanti musulmani quanto ebrei (sei milioni, la gran parte, non a caso, afro-americani, attirati dal fatto che l’Islam è stato fin dal suo inizio al di sopra del concetto di razza). Sul territorio americano ci sono già 1.400 moschee, una persino nella base navale di Norfolk. Non dobbiamo farci ora trascinare da visioni parziali della realtà, non dobbiamo diventare ostaggi della retorica a cui oggi ricorre chi è a corto di idee per riempire il silenzio di sbigottimento. Il pericolo è che, a causa di questi tragici, orribili dirottamenti, finiamo noi stessi, come esseri umani, per essere dirottati da quella che è la nostra missione sulla Terra. Gli americani l’hanno descritta nella loro costituzione come «il perseguimento della felicità». Bene: perseguiamo tutti assieme questa felicità, dopo averla magari ridefinita in termini non solo materiali e dopo esserci convinti che noi occidentali non possiamo perseguire una nostra felicità a scapito della felicità di altri e che, come la libertà, anche la felicità è indivisibile. L'ecatombe di New York ci ha dato l’occasione di ripensare a tutto e ci ha messo dinanzi a nuove scelte. Quella più immediata è di aggiungere o togliere al fondamentalismo islamico le sue ragioni di essere, di trasformare i balli dei palestinesi, da macabre esultazioni per una tragedia altrui, in espressioni di gioia per una loro riguadagnata dignità. Altrimenti ogni bomba o missile che cadrà sulle popolazioni del mondo non nostro non farà che seminare altri denti di drago, e dar vita a nuovi giovani disposti a urlare «Allah Akbar», Allah è grande, pilotando un altro aereo carico di innocenti contro un grattacielo o, domani, lasciando una bomba batteriologica o una atomica tascabile in qualche nostro supermercato. Solo se riusciremo a vedere l’universo come un tutt'uno in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la grande bellezza sta nella sua diversità, cominceremo a capire chi siamo e dove stiamo. Altrimenti saremo solo come la rana del proverbio cinese che, dal fondo di un pozzo, guarda in su e crede che quel che vede sia tutto il cielo. Duemilacinquecento anni fa un indiano, chiamato poi «illuminato», spiegava una cosa ovvia: che «l’odio genera solo odio» e che «l’odio si combatte solo con l’amore». Pochi l’hanno ascoltato. Forse è venuto il momento.

Tiziano Terzani, 62 anni, fiorentino, collaboratore del «Corriere della Sera», vive dal ' 69 in Oriente, di cui ha seguito gli avvenimenti principali. E' autore di numerose pubblicazioni. Questa la sua analisi del la realtà islamica. SULL’ORLO DI UNA GUERRA Sun Tzu, Cina, l’arte della guerra, scritto oltre 2.500 anni fa «Soltanto coloro che calcolano molto vinceranno; coloro che calcolano poco non vinceranno e tantomeno vinceranno coloro che non calcolano affatto».

 

 

 

LA RABBIA E L’ORGOGLIO

di Oriana Fallaci

 

Oriana Fallaci, con questo straordinario scritto, rompe un silenzio di un decennio. Lunghissimo. La nostra più celebre scrittrice (lei dice scrittore e non pronuncia più la parola giornalista), vive buona parte dell’anno a Manhattan. Non risponde al telefono, apre la porta di rado, esce assai di meno. Non dà mai interviste. Tutti ci hanno provato, nessuno c’è riuscito. Isolata. Ma la storia e il destino hanno voluto che il centro della moderna apocalisse si aprisse, come una voragine dantesca, poco distante dalla sua bella e letteraria abitazione. L’onda d’urto di quella mattina dell’11 settembre ha sconvolto anche la quiete eremitica ed ermetica di Oriana. Apre la porta, gesto inconsueto del quale sembra meravigliarsi... Lo sguardo è dolce e insieme feroce. Oriana lavora da anni a un’opera molto importante e attesa in tutto il mondo, fra pile di documenti, in un disordine solo apparente, con fervore guerresco. Le avevo chiesto di scrivere quello che aveva visto, provato, sentito dopo quel martedì e Oriana ha raccolto su alcuni fogli emozioni, pensieri. «Su ogni esperienza lascio brandelli d’anima», aveva scritto qualche anno fa. E’ ancora vero, verissimo. Pensieri forti. Dirompenti. Su cui ragionare e riflettere. Sull’America, sull’Italia, sul mondo islamico. Sulla Patria (sorprendente quel che dice sulla Patria). Invettive e tesi che nel medesimo tempo sgorgano dal cervello e dal cuore, o meglio dal cervello attraverso il cuore. «Qualcuno queste cose doveva dirle. Le ho dette. Ora lasciatemi in pace. La porta è chiusa di nuovo. E non voglio riaprirla», sbotta. I suoi soliti artigli. Farà discutere. Eccome.

 

Mi chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il silenzio che ho scelto, che da anni mi impongo per non mischiarmi alle cicale. E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni gioiscono come l'altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza. «Vittoria! Vittoria!». Uomini, donne, bambini. Ammesso che chi fa una cosa simile possa essere definito uomo, donna, bambino. Ho saputo che alcune cicale di lusso, politici o cosiddetti politici, intellettuali o cosiddetti intellettuali, nonché altri individui che non meritano la qualifica di cittadini, si comportano sostanzialmente nello stesso modo. Dicono: «Bene. Agli americani gli sta bene». E sono molto molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d'una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina di rispondergli e anzitutto di sputargli addosso. Io gli sputo addosso. Arrabbiata come me, la poetessa afro-americana Maya Angelou ieri ha ruggito: «Be angry. It's good to be angry, it's healthy. Siate arrabbiati. Fa bene essere arrabbiati. È sano». E se a me fa bene io non lo so. Però so che non farà bene a loro, intendo dire a chi ammira gli Usama Bin Laden, a chi gli esprime comprensione o simpatia o solidarietà. Hai acceso un detonatore che da troppo tempo ha voglia di scoppiare, con la tua richiesta. Vedrai. Mi chiedi anche di raccontare come l'ho vissuta io, quest'Apocalisse. Di fornire insomma la mia testimonianza. Incomincerò dunque da quella. Ero a casa, la mia casa è nel centro di Manhattan, e alle nove in punto ho avuto la sensazione d'un pericolo che forse non mi avrebbe toccato ma che certo mi riguardava. La sensazione che si prova alla guerra, anzi in combattimento, quando con ogni poro della tua pelle senti la pallottola o il razzo che arriva, e rizzi gli orecchi e gridi a chi ti sta accanto: «Down! Get down! Giù! Buttati giù». L'ho respinta. Non ero mica in Vietnam, non ero mica in una delle tante e fottutissime guerre che sin dalla Seconda Guerra Mondiale hanno seviziato la mia vita! Ero a New York, perbacco, in un meraviglioso mattino di settembre, anno 2001. Ma la sensazione ha continuato a possedermi, inspiegabile, e allora ho fatto ciò che al mattino non faccio mai. Ho acceso la Tv. Bè, l'audio non funzionava. Lo schermo, sì. E su ogni canale, qui di canali ve ne sono quasi cento, vedevi una torre del World Trade Center che bruciava come un gigantesco fiammifero. Un corto circuito? Un piccolo aereo sbadato? Oppure un atto di terrorismo mirato? Quasi paralizzata son rimasta a fissarla e mentre la fissavo, mentre mi ponevo quelle tre domande, sullo schermo è apparso un aereo. Bianco, grosso. Un aereo di linea. Volava bassissimo. Volando bassissimo si dirigeva verso la seconda torre come un bombardiere che punta sull'obiettivo, si getta sull'obiettivo. Sicché ho capito. Ho capito anche perché nello stesso momento l'audio è tornato e ha trasmesso un coro di urla selvagge. Ripetute, selvagge. «God! Oh, God! Oh, God, God, God! Gooooooood! Dio! Oddio! Oddio! Dio, Dio, Dioooooooo!» E l'aereo s'è infilato nella seconda torre come un coltello che si infila dentro un panetto di burro.

Erano le 9 e un quarto, ora. E non chiedermi che cosa ho provato durante quei quindici minuti. Non lo so, non lo ricordo. Ero un pezzo di ghiaccio. Anche il mio cervello era ghiaccio. Non ricordo nemmeno se certe cose le ho viste sulla prima torre o sulla seconda. La gente che per non morire bruciata viva si buttava dalle finestre degli ottantesimi o novantesimi piani, ad esempio. Rompevano i vetri delle finestre, le scavalcavano, si buttavano giù come ci si butta da un aereo avendo addosso il paracadute, e venivano giù così lentamente. Agitando le gambe e le braccia, nuotando nell'aria. Sì, sembravano nuotare nell'aria. E non arrivavano mai. Verso i trentesimi piani, però, acceleravano. Si mettevano a gesticolar disperati, suppongo pentiti, quasi gridassero help-aiuto-help. E magari lo gridavano davvero. Infine cadevano a sasso e paf! Sai, io credevo d'aver visto tutto alle guerre. Dalle guerre mi ritenevo vaccinata, e in sostanza lo sono. Niente mi sorprende più. Neanche quando mi arrabbio, neanche quando mi sdegno. Però alle guerre io ho sempre visto la gente che muore ammazzata. Non l'ho mai vista la gente che muore ammazzandosi cioè buttandosi senza paracadute dalle finestre d'un ottantesimo o novantesimo o centesimo piano. Alle guerre, inoltre, ho sempre visto roba che scoppia. Che esplode a ventaglio. E ho sempre udito un gran fracasso. Quelle due torri, invece, non sono esplose. La prima è implosa, ha inghiottito se stessa. La seconda s'è fusa, s'è sciolta. Per il calore s'è sciolta proprio come un panetto di burro messo sul fuoco. E tutto è avvenuto, o m'è parso, in un silenzio di tomba. Possibile? C'era davvero, quel silenzio, o era dentro di me?

Devo anche dirti che alle guerre io ho sempre visto un numero limitato di morti. Ogni combattimento, duecento o trecento morti. Al massimo, quattrocento. Come a Dak To, in Vietnam. E quando il combattimento è finito, gli americani si son messi a raccattarli, contarli, non credevo ai miei occhi. Nella strage di Mexico City, quella dove anch'io mi beccai un bel po' di pallottole, di morti ne raccolsero almeno ottocento. E quando credendomi morta mi scaraventarono nell'obitorio, i cadaveri che presto mi ritrovai intorno e addosso mi sembrarono un diluvio. Bè, nelle due torri lavoravano quasi cinquantamila persone. E ben pochi hanno fatto in tempo ad evacuare. Gli ascensori non funzionavano più, ovvio, e per scendere a piedi dagli ultimi piani ci voleva un'eternità. Fiamme permettendo. Non lo conosceremo mai, il numero dei morti. (Quarantamila, quarantacinquemila...?). Gli americani non lo diranno mai. Per non sottolineare l'intensità di questa Apocalisse. Per non dar soddisfazione a Usama Bin Laden e incoraggiare altre Apocalissi. E poi le due voragini che hanno assorbito le decine di migliaia di creature son troppo profonde. Al massimo gli operai dissottèrrano pezzettini di membra sparse. Un naso qui, un dito là. Oppure una specie di melma che sembra caffè macinato e invece è materia organica. Il residuo dei corpi che in un lampo si polverizzarono. Ieri il sindaco Giuliani ha mandato altri diecimila sacchi. Ma sono rimasti inutilizzati. Che cosa sento per i kamikaze che sono morti con loro? Nessun rispetto. Nessuna pietà. No, neanche pietà. Io che in ogni caso finisco sempre col cedere alla pietà. A me i kamikaze cioè i tipi che si suicidano per ammazzare gli altri sono sempre stati antipatici, incominciando da quelli giapponesi della Seconda Guerra Mondiale. Non li ho mai considerati Pietri Micca che per bloccar l'arrivo delle truppe nemiche danno fuoco alle polveri e saltano in aria con la cittadella, a Torino. Non li ho mai considerati soldati. E tantomeno li considero martiri o eroi, come berciando e sputando saliva il signor Arafat me li definì nel 1972. (Ossia quando lo intervistai ad Amman, luogo dove i suoi marescialli addestravano anche i terroristi della Baader-Meinhof). Li considero vanesi e basta. Vanesi che invece di cercar la gloria attraverso il cinema o la politica o lo sport la cercano nella morte propria e altrui. Una morte che invece del Premio Oscar o della poltrona ministeriale o dello scudetto gli procurerà (credono) ammirazione. E, nel caso di quelli che pregano Allah, un posto nel Paradiso di cui parla il Corano: il Paradiso dove gli eroi si scopano le Uri. Scommetto che sono vanesi anche fisicamente. Ho sotto gli occhi la fotografia dei due kamikaze di cui parlo nel mio «Insciallah»: il romanzo che incomincia con la distruzione della base americana (oltre quattrocento morti) e della base francese (oltre trecentocinquanta morti) a Beirut. Se l'erano fatta scattare prima d'andar a morire, quella fotografia, e prima d'andar a morire erano stati dal barbiere. Guarda che bel taglio di capelli. Che baffi impomatati, che barbetta leccata, che basette civettuole...

Eh! Chissà come friggerebbe il signor Arafat ad ascoltarmi. Sai, tra me e lui non corre buon sangue. Non mi ha mai perdonato né le roventi differenze di opinione che avemmo durante quell'incontro né il giudizio che su di lui espressi nel mio libro «Intervista con la storia». Quanto a me, non gli ho mai perdonato nulla. Incluso il fatto che un giornalista italiano imprudentemente presentatosi a lui come «mio amico», si sia ritrovato con una rivoltella puntata contro il cuore. Ergo, non ci frequentiamo più. Peccato. Perché se lo incontrassi di nuovo, o meglio se gli concedessi udienza, glielo urlerei sul muso chi sono i martiri e gli eroi. Gli urlerei: illustre Signor Arafat, i martiri sono i passeggeri dei quattro aerei dirottati e trasformati in bombe umane. Tra di loro la bambina di quattro anni che si è disintegrata dentro la seconda torre. Illustre Signor Arafat, i martiri sono gli impiegati che lavoravano nelle due torri e al Pentagono. Illustre Signor Arafat, i martiri sono i pompieri morti per tentar di salvarli. E lo sa chi sono gli eroi? Sono i passeggeri del volo che doveva buttarsi sulla Casa Bianca e che invece si è schiantato in un bosco della Pennsylvania perché loro si son ribellati! Per loro sì che ci vorrebbe il Paradiso, illustre Signor Arafat. Il guaio è che ora fa Lei il capo di Stato ad perpetuum. Fa il monarca. Rende visita al Papa, afferma che il terrorismo non le piace, manda le condoglianze a Bush. E nella sua camaleontica abilità di smentirsi, sarebbe capace di rispondermi che ho ragione. Ma cambiamo discorso. Io sono molto ammalata, si sa, e a parlare con gli Arafat mi viene la febbre.

Preferisco parlare dell'invulnerabilità che tanti, in Europa, attribuivano all'America. Invulnerabilità? Ma come invulnerabilità?!? Più una società è democratica e aperta, più è esposta al terrorismo. Più un paese è libero, non governato da un regime poliziesco, più subisce o rischia i dirottamenti o i massacri che sono avvenuti per tanti anni in Italia in Germania e in altre regioni d'Europa. E che ora avvengono, ingigantiti, in America. Non per nulla i paesi non democratici, governati da un regime poliziesco, hanno sempre ospitato e finanziato e aiutano i terroristi. L'Unione Sovietica, i paesi satelliti dell'Unione Sovietica e la Cina Popolare, ad esempio. La Libia di Gheddafi, l'Iraq, l'Iran, la Siria, il Libano arafattiano, lo stesso Egitto, la stessa Arabia Saudita di cui Usama Bin Laden è suddito, lo stesso Pakistan, ovviamente l'Afghanistan, e tutte le regioni musulmane dell'Africa. Negli aeroporti e sugli aerei di quei paesi io mi sono sempre sentita sicura. Serena come un neonato che dorme. L'unica cosa che temevo era essere arrestata perché scrivevo male dei terroristi. Negli aeroporti e sugli aerei europei, invece, mi sono sempre sentita nervosetta. Negli aeroporti e sugli aerei americani, addirittura nervosa. E a New York, due volte nervosa. (A Washington, no. Devo ammetterlo. L'aereo sul Pentagono non me lo aspettavo davvero). A mio giudizio, insomma, non è mai stato un problema di «se»: è sempre stato un problema di «quando». Perché credi che martedì mattina il mio subconscio abbia avvertito quella inquietudine, quella sensazione di pericolo? Perché credi che contrariamente alle mie abitudini abbia acceso il televisore? Perché credi che fra le tre domande che mi ponevo mentre la prima torre bruciava e l'audio non funzionava, ci fosse quella sull'attentato? E perché credi che appena apparso il secondo aereo abbia capito? Poiché l'America è il Paese più forte del mondo, il più ricco, il più potente, il più moderno, ci sono cascati quasi tutti in quel tranello. Gli americani stessi, a volte. Ma la vulnerabilità dell'America nasce proprio dalla sua forza, dalla sua ricchezza, dalla sua potenza, dalla sua modernità. La solita storia del cane che si mangia la coda.

Nasce anche dalla sua essenza multi-etnica, dalla sua liberalità, dal suo rispetto per i cittadini e per gli ospiti. Esempio: circa ventiquattro milioni di americani sono arabi-musulmani. E quando un Mustafà o un Muhammed viene diciamo dall'Afghanistan per visitare lo zio, nessuno gli proibisce di frequentare una scuola di pilotaggio per imparare a guidare un 757. Nessuno gli proibisce d'iscriversi a un'Università (cosa che spero cambi) per studiare chimica e biologia: le due scienze necessarie a scatenare una guerra batteriologica. Nessuno. Neppure se il governo teme che quel figlio di Allah dirotti il 757 oppure butti una fiala di batteri nel deposito dell'acqua e scateni una strage. (Dico «se» perché stavolta il governo non ne sapeva un bel niente e la figuraccia fatta dalla Cia e dall'Fbi va al di là d'ogni limite. Se fossi il presidente degli Stati Uniti io li caccerei tutti a pedate nei posteriori per cretineria). E detto ciò torniamo al ragionamento iniziale. Quali sono i simboli della forza, della ricchezza, della potenza, della modernità americane? Non certo il jazz e il rock and roll, il chewing-gum e l'hamburger, Broadway ed Hollywood. Sono i suoi grattacieli. Il suo Pentagono. La sua scienza. La sua tecnologia. Quei grattacieli impressionanti, così alti, così belli che ad alzar gli occhi quasi dimentichi le piramidi e i divini palazzi del nostro passato. Quegli aerei giganteschi, esagerati, che ormai usano come un tempo usavano i velieri e i camion perché tutto qui si muove con gli aerei. Tutto. La posta, il pesce fresco, noi stessi (E non dimenticare che la guerra aerea l'hanno inventata loro. O almeno sviluppata fino all'isteria). Quel Pentagono terrificante, quella fortezza che fa paura solo a guardarla. Quella scienza onnipresente, onnipossente. Quella tecnologia raggelante che in pochissimi anni ha stravolto la nostra esistenza quotidiana, la nostra millenaria maniera di comunicare, mangiare, vivere. E dove li ha colpiti, il reverendo Usama Bin Laden? Sui grattacieli, sul Pentagono. Come? Con gli aerei, con la scienza, con la tecnologia. By the way: sai cosa mi impressiona di più in questo tristo ultramiliardario, questo mancato play-boy che anziché corteggiare le principesse bionde e folleggiare nei night-club (come faceva a Beirut quando aveva vent’anni) si diverte ad ammazzar la gente in nome di Maometto e di Allah? Il fatto che il suo sterminato patrimonio derivi anche dai guadagni d'una Corporation specializzata nel demolire, e che egli stesso sia un esperto demolitore. La demolizione è una specialità americana.

Quando ci siamo incontrati t'ho visto quasi stupefatto dall'eroica efficienza e dall'ammirevole unità con cui gli americani hanno affrontato quest'Apocalisse. Eh, sì. Nonostante i difetti che le vengono continuamente rinfacciati, che io stessa le rinfaccio, (ma quelli dell’Europa e in particolare dell’Italia sono ancora più gravi), l'America è un paese che ha grosse cose da insegnarci. E a proposito dell'eroica efficienza lasciami cantare un peana per il sindaco di New York. Quel Rudolph Giuliani che noi italiani dovremmo ringraziare in ginocchio. Perché ha un cognome italiano, è un oriundo italiano, e ci fa fare bella figura dinanzi al mondo intero. E’ un grande anzi grandissimo sindaco, Rudolph Giuliani. Te lo dice una che non è mai contenta di nulla e di nessuno incominciando da se stessa. E' un sindaco degno d'un altro grandissimo sindaco col cognome italiano, Fiorello La Guardia, e tanti dei nostri sindaci dovrebbero andare a scuola da lui. Presentarsi a capo chino, anzi con la cenere sul capo, e chiedergli: «Sor Giuliani, per cortesia ci dice come si fa?». Lui non delega i suoi doveri al prossimo, no. Non perde tempo nelle bischerate e nelle avidità. Non si divide tra l'incarico di sindaco e quello di ministro o deputato. (C'è nessuno che mi ascolta nelle tre città di Stendhal, insomma a Napoli e a Firenze e a Roma?). Essendo corso subito, e subito entrato nel secondo grattacielo, ha rischiato di trasformarsi in cenere con gli altri. S'è salvato per un pelo e per caso. E nel giro di quattro giorni ha rimesso in piedi la città. Una città che ha nove milioni e mezzo di abitanti, bada bene, e quasi due nella sola Manhattan. Come abbia fatto, non lo so. E' malato come me, pover'uomo. Il cancro che torna e ritorna ha beccato anche lui. E, come me, fa finta d’essere sano: lavora lo stesso. Ma io lavoro a tavolino, perbacco, stando seduta! Lui, invece... Sembrava un generale che partecipa di persona alla battaglia. Un soldato che si lancia all'attacco con la baionetta. «Forza, gente, forzaaa! Tiriamoci su le maniche, sveltiii!» Ma poteva farlo perché quella gente era, è, come lui. Gente senza boria e senza pigrizia, avrebbe detto mio padre, e con le palle. Quanto all'ammirevole capacità di unirsi, alla compattezza quasi marziale con cui gli americani rispondono alle disgrazie e al nemico, bè: devo ammettere che lì per lì ha stupito anche me. Sapevo, sì, che era esplosa al tempo di Pearl Harbor, cioè quando il popolo s'era stretto intorno a Roosevelt e Roosevelt era entrato in guerra contro la Germania di Hitler e l'Italia di Mussolini e il Giappone di Hirohito. L'avevo annusata, sì, dopo l'assassinio di Kennedy. Ma a questo era seguita la guerra in Vietnam, la lacerante divisione causata dalla guerra in Vietnam, e in un certo senso ciò mi aveva ricordato la loro Guerra Civile d'un secolo e mezzo fa. Così, quando ho visto bianchi e neri piangere abbracciati, dico abbracciati, quando ho visto democratici e repubblicani cantare abbracciati «God save America, Dio salvi l'America», quando gli ho visto cancellare tutte le divergenze, sono rimasta di stucco. Lo stesso, quando ho udito Bill Clinton (persona verso la quale non ho mai nutrito tenerezze) dichiarare «Stringiamoci intorno a Bush, abbiate fiducia nel nostro presidente». Lo stesso, quando le medesime parole sono state ripetute con forza da sua moglie Hillary ora senatore per lo Stato di New York. Lo stesso, quando sono state reiterate da Lieberman, l'ex candidato democratico alla vice-presidenza. (Soltanto lo sconfitto Al Gore è rimasto squallidamente zitto). E lo stesso quando il Congresso ha votato all'unanimità d'accettare la guerra, punire i responsabili. Ah, se l'Italia imparasse questa lezione! È un Paese così diviso, l'Italia. Così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all'interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria popolarità di periferia. Pei propri interessi personali si fanno i dispetti, si tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la Torre di Giotto o la Torre di Pisa, l'opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all'opposizione. I capoccia del governo e i capoccia dell'opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che caratterizza gli americani.

Nasce dal loro patriottismo. Io non so se in Italia avete visto e capito quel che è successo a New York quando Bush è andato a ringraziar gli operai (e le operaie) che scavando nelle macerie delle due torri cercano di salvare qualche superstite ma non tiran fuori che qualche naso o qualche dito. Senza cedere, tuttavia. Senza rassegnarsi, sicché se gli domandi come fanno ti rispondono: «I can allow myself to be exhausted not to be defeated. Posso permettermi d'essere esausto, non d'essere sconfitto». Tutti. Giovani, giovanissimi, vecchi, di mezz'età. Bianchi, neri, gialli, marroni, viola... L'avete visti o no? Mentre Bush li ringraziava non facevano che sventolare le bandierine americane, alzare il pugno chiuso, ruggire: «Iuessè! Iuessè! Iuessè! Usa! Usa! Usa!». In un paese totalitario avrei pensato: «Ma guarda come l'ha organizzata bene il Potere!». In America, no. In America queste cose non le organizzi. Non le gestisci, non le comandi. Specialmente in una metropoli disincantata come New York, e con operai come gli operai di New York. Sono tipacci, gli operai di New York. Più liberi del vento. Quelli non obbediscono neanche ai loro sindacati. Ma se gli tocchi la bandiera, se gli tocchi la Patria... In inglese la parola Patria non c'è. Per dire Patria bisogna accoppiare due parole. Father Land, Terra dei Padri. Mother Land, Terra Madre. Native Land, Terra Nativa. O dire semplicemente My Country, il Mio Paese. Però il sostantivo Patriotism c'è. L'aggettivo Patriotic c'è. E a parte la Francia, forse non so immaginare un Paese più patriottico dell'America. Ah! Io mi son tanto commossa a vedere quegli operai che stringendo il pugno e sventolando la bandiera ruggivano Iuessè-Iuessè-Iuessè, senza che nessuno glielo ordinasse. E ho provato una specie di umiliazione. Perché gli operai italiani che sventolano il tricolore e ruggiscono Italia-Italia io non li so immaginare. Nei cortei e nei comizi gli ho visto sventolare tante bandiere rosse. Fiumi, laghi, di bandiere rosse. Ma di bandiere tricolori gliene ho sempre viste sventolar pochine. Anzi nessuna. Mal guidati o tiranneggiati da una sinistra arrogante e devota all'Unione Sovietica, le bandiere tricolori le hanno sempre lasciate agli avversari. E non è che gli avversari ne abbiano fatto buon uso, direi. Non ne hanno fatto nemmeno spreco, graziaddio. E quelli che vanno alla Messa, idem. Quanto al becero con la camicia verde e la cravatta verde, non sa nemmeno quali siano i colori del tricolore. Mi-sun-lumbard, mi-sun-lumbard. Quello vorrebbe riportarci alle guerre tra Firenze e Siena. Risultato, oggi la bandiera italiana la vedi soltanto alle Olimpiadi se per caso vinci una medaglia. Peggio: la vedi soltanto negli stadi, quando c'è una partita internazionale di calcio. Unica occasione, peraltro, in cui riesci a udire il grido Italia-Italia.

Eh! C'è una bella differenza tra un paese nel quale la bandiera della Patria viene sventolata dai teppisti negli stadi e basta, e un paese nel quale viene sventolata dal popolo intero. Ad esempio, dagli irreggimentabili operai che scavano nelle rovine per tirar fuori qualche orecchio o qualche naso delle creature massacrate dai figli di Allah. Oppure per raccogliere quel caffè macinato

Il fatto è che l'America è un paese speciale, caro mio. Un paese da invidiare, di cui esser gelosi, per cose che non hanno nulla a che fare con la ricchezza eccetera. Lo è perché è nato da un bisogno dell'anima, il bisogno d'avere una patria, e dall'idea più sublime che l'Uomo abbia mai concepito: l'idea della Libertà, anzi della libertà sposata all'idea di uguaglianza. Lo è anche perché a quel tempo l'idea di libertà non era di moda. L'idea di uguaglianza, nemmeno. Non ne parlavano che certi filosofi detti Illuministi, di queste cose. Non li trovavi che in un costosissimo librone a puntate detto l'Encyclopedie, questi concetti. E a parte gli scrittori o gli altri intellettuali, a parte i principi e i signori che avevano i soldi per comprare il librone o i libri che avevano ispirato il librone, chi ne sapeva nulla dell'Illuminismo? Non era mica roba da mangiare, l'Illuminismo! Non ne parlavan neppure i rivoluzionari della Rivoluzione Francese, visto che la Rivoluzione Francese sarebbe incominciata nel 1789 ossia tredici anni dopo la Rivoluzione Americana che scoppiò nel 1776. (Altro particolare che gli antiamericani del bene-agli-americani-gli-sta-bene ignorano o fingono di dimenticare. Razza di ipocriti).

È un paese speciale, un paese da invidiare, inoltre, perché quell'idea venne capita da contadini spesso analfabeti o comunque ineducati. I contadini delle colonie americane. E perché venne materializzata da un piccolo gruppo di leader straordinari: da uomini di grande cultura, di gran qualità. The Founding Fathers, i Padri Fondatori. Ma hai idea di chi fossero i Padri Fondatori, i Benjamin Franklin e i Thomas Jefferson e i Thomas Paine e i John Adams e i George Washington eccetera? Altro che gli avvocaticchi (come giustamente li chiamava Vittorio Alfieri) della Rivoluzione Francese! Altro che i cupi e isterici boia del Terrore, i Marat e i Danton e i Saint Just e i Robespierre! Erano tipi, i Padri Fondatori, che il greco e il latino lo conoscevano come gli insegnanti italiani di greco e di latino (ammesso che ne esistano ancora) non lo conosceranno mai. Tipi che in greco s'eran letti Aristotele e Platone, che in latino s'eran letti Seneca e Cicerone, e che i principii della democrazia greca se l'eran studiati come nemmeno i marxisti del mio tempo studiavano la teoria del plusvalore. (Ammesso che la studiassero davvero). Jefferson conosceva anche l'italiano. (Lui diceva «toscano»). In italiano parlava e leggeva con gran speditezza. Infatti con le duemila piantine di vite e le mille piantine di olivo e la carta da musica che in Virginia scarseggiava, nel 1774 il fiorentino Filippo Mazzei gli aveva portato varie copie d'un libro scritto da un certo Cesare Beccaria e intitolato «Dei Delitti e delle Pene». Quanto all'autodidatta Franklin, era un genio. Scienziato, stampatore, editore, scrittore, giornalista, politico, inventore. Nel 1752 aveva scoperto la natura elettrica del fulmine e aveva inventato il parafulmine. Scusa se è poco. E fu con questi leader straordinari, questi uomini di gran qualità, che nel 1776 i contadini spesso analfabeti e comunque ineducati si ribellarono all'Inghilterra. Fecero la guerra d'indipendenza, la Rivoluzione Americana.

Bè... Nonostante i fucili e la polvere da sparo, nonostante i morti che ogni guerra costa, non la fecero coi fiumi di sangue della futura Rivoluzione Francese. Non la fecero con la ghigliottina e coi massacri della Vandea. La fecero con un foglio che insieme al bisogno dell'anima, il bisogno d'avere una patria, concretizzava la sublime idea della libertà anzi della libertà sposata all'uguaglianza. La Dichiarazione d'Indipendenza. «We hold these Truths to be self-evident... Noi riteniamo evidenti queste verità. Che tutti gli Uomini sono creati uguali. Che sono dotati dal Creatore di certi inalienabili Diritti. Che tra questi Diritti v'è il diritto alla Vita, alla Libertà, alla Ricerca della Felicità. Che per assicurare questi Diritti gli Uomini devono istituire i governi...». E quel foglio che dalla Rivoluzione Francese in poi tutti gli abbiamo bene o male copiato, o al quale ci siamo ispirati, costituisce ancora la spina dorsale dell'America. La linfa vitale di questa nazione. Sai perché? Perché trasforma i sudditi in cittadini. Perché trasforma la plebe in Popolo. Perché la invita anzi le ordina di governarsi, d'esprimere le proprie individualità, di cercare la propria felicità. Tutto il contrario di ciò che il comunismo faceva proibendo alla gente di ribellarsi, governarsi, esprimersi, arricchirsi, e mettendo Sua Maestà lo Stato al posto dei soliti re. «Il comunismo è un regime monarchico, una monarchia di vecchio stampo. In quanto tale taglia le palle agli uomini. E quando a un uomo gli tagli le palle non è più un uomo» diceva mio padre. Diceva anche che invece di riscattare la plebe il comunismo trasformava tutti in plebe. Rendeva tutti morti di fame.

Bè, secondo me l'America riscatta la plebe. Sono tutti plebei, in America. Bianchi, neri, gialli, marroni, viola, stupidi, intelligenti, poveri, ricchi. Anzi i più plebei sono proprio i ricchi. Nella maggioranza dei casi, certi piercoli! Rozzi, maleducati. Lo vedi subito che non hanno mai letto Monsignor della Casa, che non hanno mai avuto nulla a che fare con la raffinatezza e il buon gusto e la sophistication. Nonostante i soldi che sprecano nel vestirsi, ad esempio, son così ineleganti che in paragone la regina d'Inghilterra sembra chic. Però sono riscattati, perdio. E a questo mondo non c'è nulla di più forte, di più potente, della plebe riscattata. Ti rompi sempre le corna con la Plebe Riscattata. E con l'America le corna se le sono sempre rotte tutti. Inglesi, tedeschi, messicani, russi, nazisti, fascisti, comunisti. Da ultimo se le son rotte perfino i vietnamiti che dopo la vittoria son dovuti scendere a patti con loro sicché quando un ex presidente degli Stati Uniti va a fargli una visitina toccano il cielo con un dito. «Bienvenu, Monsieur le President, bienvenu!». Il guaio è che i vietnamiti non pregano Allah. E con i figli di Allah la faccenda sarà dura. Molto lunga e molto dura. Ammenoché il resto dell'Occidente non smetta di farsela addosso. E ragioni un po' e gli dia una mano.

Non sto parlando, ovvio, alle iene che se la godono a veder le immagini delle macerie e ridacchiano bene-agli-americani-gli-sta-bene. Sto parlando alle persone che pur non essendo stupide o cattive, si cullano ancora nella prudenza e nel dubbio. E a loro dico: sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d'andar contro corrente cioè d'apparire razzisti (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione), non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella religione, forse, comunque una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad. Guerra Santa. Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All'annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci… Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po' più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. E con quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri... Cristo! Non vi rendete conto che gli Usama Bin Laden si ritengono autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché bevete il vino o la birra, perché non portate la barba lunga o il chador, perché andate al teatro e al cinema, perché ascoltate la musica e cantate le canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa vostra, perché guardate la televisione, perché portate la minigonna o i calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi o quasi ignudi, perché scopate quando vi pare e dove vi pare e con chi vi pare? Non v'importa neanche di questo, scemi? Io sono atea, graziaddio. E non ho alcuna intenzione di lasciarmi ammazzare perché lo sono.

Da vent'anni lo dico, da vent'anni. Con una certa mitezza, non con questa passione, vent'anni fa su questa roba scrissi un articolo di fondo per il «Corriere». Era l'articolo di una persona abituata a stare con tutte le razze e tutti i credi, d'una cittadina abituata a combattere tutti i fascismi e tutte le intolleranze, d'una laica senza tabù. Ma era anche l'articolo di una persona indignata con chi non sentiva il puzzo di una Guerra Santa a venire, e ai figli di Allah gliene perdonava un po' troppe. Feci un ragionamento che suonava press'appoco così, vent'anni fa. «Che senso ha rispettare chi non rispetta noi? Che senso ha difendere la loro cultura o presunta cultura quando loro disprezzano la nostra? Io voglio difendere la nostra, e v'informo che Dante Alighieri mi piace più di Omar Khayan». Apriti cielo. Mi crocifissero. «Razzista, razzista!». Eh, furono gli stessi progressisti (a quel tempo si chiamavano comunisti) a crocifiggermi. Del resto quell'insulto me lo presi anche quando i sovietici invasero l'Afghanistan. Li ricordi quei barbuti con la sottana e il turbante che prima di sparare il mortaio, anzi a ciascun colpo di mortaio, berciavano le lodi del Signore? «Allah akbar! Allah akbar!». Io li ricordo bene. E a veder accoppiare la parola Dio al colpo di mortaio, mi venivano i brividi. Mi pareva d'essere nel Medioevo, e dicevo: «I sovietici sono quello che sono. Però bisogna ammettere che a far quella guerra proteggono anche noi. E li ringrazio». Riapriti cielo. «Razzista, razzista!». Nella loro cecàggine non volevan neanche sentirmi parlare delle mostruosità che i figli di Allah commettevano sui militari fatti prigionieri. (Gli segavano le braccia e le gambe, rammenti? Un vizietto a cui s'erano già abbandonati in Libano coi prigionieri cristiani ed ebrei). Non volevano che lo dicessi, no. E pur di fare i progressisti applaudivano gli americani che rincretiniti dalla paura dell’Unione Sovietica riempivan di armi l'eroico-popolo-afghano. Addestravano i barbuti, e coi barbuti un barbutissimo Usama Bin Laden. Via-i-russi-dall'Afghanistaaaan! I-russi- devono-andarsene-dall'Afghanistaaaan! Bè, i russi se ne sono andati dall'Afghanistan: contenti? E dall'Afghanistan i barbuti del barbutissimo Usama Bin Laden sono arrivati a New York con gli sbarbati siriani egiziani iracheni libanesi palestinesi sauditi che componevano la banda dei diciannove kamikaze identificati: contenti? Peggio: ora qui si discute sul prossimo attacco che ci colpirà con le armi chimiche, biologiche, radioattive, nucleari. Si dice che la nuova strage è inevitabile perché l’Iraq gli fornisce il materiale. Si parla di vaccinazioni, di maschere a gas, di peste. Ci si chiede quando avverrà... Contenti?

Alcuni non sono né contenti né scontenti. Se ne fregano e basta. Tanto l'America è lontana, tra l'Europa e l'America c'è un oceano... Eh, no, cari miei. No. C'è un filo d'acqua. Perché quando è in ballo il destino dell'Occidente, la sopravvivenza della nostra civiltà, New York siamo noi. L'America siamo noi. Noi italiani, noi francesi, noi inglesi, noi tedeschi, noi austriaci, noi ungheresi, noi slovacchi, noi polacchi, noi scandinavi, noi belgi, noi spagnoli, noi greci, noi portoghesi. Se crolla l'America, crolla l'Europa. Crolla l'Occidente, crolliamo noi. E non solo in senso finanziario cioè nel senso che, mi pare, vi preoccupa di più. (Una volta, ero giovane e ingenua, dissi ad Arthur Miller: «Gli americani misurano tutto coi soldi, non pensano che ai soldi». E Arthur Miller mi rispose: «Voi no?»). In tutti i sensi crolliamo, caro mio. E al posto delle campane ci ritroviamo i muezzin, al posto delle minigonne ci ritroviamo il chador, al posto del cognacchino il latte di cammella. Neanche questo capite, neanche questo volete capire?!? Blair lo ha capito. È venuto qui e ha portato anzi rinnovato a Bush la solidarietà degli inglesi. Non una solidarietà espressa con le chiacchiere e i piagnistei: una solidarietà basata sulla caccia ai terroristi e sull’alleanza militare. Chirac, no. Come sai la scorsa settimana era qui in visita ufficiale.

Una visita prevista da tempo, non una visita ad hoc. Ha visto le macerie delle due torri, ha saputo che i morti sono un numero incalcolabile anzi inconfessabile, ma non s'è sbilanciato. Durante l'intervista alla Cnn ben quattro volte la ma amica Cristiana Amanpour gli ha chiesto in qual modo e in qual misura intendesse schierarsi contro questa Jihad, e per quattro volte Chirac ha evitato una risposta. È sgusciato via come un'anguilla. Veniva voglia di gridargli: «Monsieur le President! Ricorda lo sbarco in Normandia? Lo sa quanti americani sono crepati in Normandia per cacciare i nazisti anche dalla Francia?». Escluso Blair, del resto, neanche fra gli altri europei vedo Riccardi Cuor di Leone. E tantomeno ne vedo in Italia dove il governo non ha individuato quindi arrestato alcun complice o sospetto complice di Usama Bin Laden. Perdio, signor cavaliere, perdio! Malgrado la paura della guerra, in ogni paese d'Europa è stato individuato e arrestato qualche complice di Usama Bin Laden. In Francia, in Germania, in Inghilterra, in Spagna... Ma in Italia dove le moschee di Milano e di Torino e di Roma traboccano di mascalzoni che inneggiano a Usama Bin Laden, di terroristi in attesa di far saltare in aria la Cupola di San Pietro, nessuno. Zero. Nulla. Nessuno. Mi spieghi, signor cavaliere: son così incapaci i Suoi poliziotti e carabinieri? Son così coglioni i Suoi servizi segreti? Son così scemi i Suoi funzionari? E son tutti stinchi di santo, tutti estranei a ciò che è successo e succede, i figli di Allah che ospitiamo? Oppure a fare le indagini giuste, a individuare e arrestare chi finoggi non avete individuato e arrestato, Lei teme di subire il solito ricatto razzista-razzista? Io, vede, no.

Cristo! Io non nego a nessuno il diritto di avere paura. Chi non ha paura della guerra è un cretino. E chi vuol far credere di non avere paura alla guerra, l’ho scritto mille volte, è insieme un cretino e un bugiardo. Ma nella Vita e nella Storia vi sono casi in cui non è lecito aver paura. Casi in cui aver paura è immorale e incivile. E quelli che, per debolezza o mancanza di coraggio o abitudine a tenere il piede in due staffe si sottraggono a questa tragedia, a me sembrano masochisti.

Masochisti, sì, masochisti. Perché vogliamo farlo questo discorso su ciò che tu chiami Contrasto-fra-le-Due-Culture? Bè, se vuoi proprio saperlo, a me dà fastidio perfino parlare di due culture: metterle sullo stesso piano come se fossero due realtà parallele, di uguale peso e di uguale misura. Perché dietro la nostra civiltà c'è Omero, c'è Socrate, c'è Platone, c'è Aristotele, c'è Fidia, perdio. C'è l'antica Grecia col suo Partenone e la sua scoperta della Democrazia. C'è l'antica Roma con la sua grandezza, le sue leggi, il suo concetto della Legge. Le sue sculture, la sua letteratura, la sua architettura. I suoi palazzi e i suoi anfiteatri, i suoi acquedotti, i suoi ponti, le sue strade. C'è un rivoluzionario, quel Cristo morto in croce, che ci ha insegnato (e pazienza se non lo abbiamo imparato) il concetto dell'amore e della giustizia. C'è anche una Chiesa che mi ha dato l'Inquisizione, d'accordo. Che mi ha torturato e bruciato mille volte sul rogo, d'accordo. Che mi ha oppresso per secoli, che per secoli mi ha costretto a scolpire e dipingere solo Cristi e Madonne, che mi ha quasi ammazzato Galileo Galilei. Me lo ha umiliato, me lo ha zittito. Però ha dato anche un gran contributo alla Storia del Pensiero: sì o no? E poi dietro la nostra civiltà c'è il Rinascimento. C'è Leonardo da Vinci, c'è Michelangelo, c'è Raffaello, c’è la musica di Bach e di Mozart e di Beethoven. Su su fino a Rossini e Donizetti e Verdi and Company. Quella musica senza la quale noi non sappiamo vivere e che nella loro cultura o supposta cultura è proibita. Guai se fischi una canzonetta o mugoli il coro del Nabucco. E infine c'è la Scienza, perdio. Una scienza che ha capito parecchie malattie e le cura. Io sono ancora viva, per ora, grazie alla nostra scienza: non quella di Maometto. Una scienza che ha inventato macchine meravigliose. Il treno, l'automobile, l'aereo, le astronavi con cui siamo andati sulla Luna e su Marte e presto andremo chissàddove. Una scienza che ha cambiato la faccia di questo pianeta con l'elettricità, la radio, il telefono, la televisione, e a proposito: è vero che i santoni della sinistra non vogliono dire ciò che ho appena detto?!? Dio, che bischeri! Non cambieranno mai. Ed ora ecco la fatale domanda: dietro all’altra cultura che c’è?

Boh! Cerca cerca, io non ci trovo che Maometto col suo Corano e Averroè coi suoi meriti di studioso. (I Commentari su Aristotele eccetera), Arafat ci trova anche i numeri e la matematica. Di nuovo berciandomi addosso, di nuovo coprendomi di saliva, nel 1972 mi disse che la sua cultura era superiore alla mia, molto superiore alla mia, perché i suoi nonni avevano inventato i numeri e la matematica. Ma Arafat ha la memoria corta. Per questo cambia idea e si smentisce ogni cinque minuti. I suoi nonni non hanno inventato i numeri e la matematica. Hanno inventato la grafia dei numeri che anche noi infedeli adopriamo, e la matematica è stata concepita quasi contemporaneamente da tutte le antiche civiltà. In Mesopotamia, in Grecia, in India, in Cina, in Egitto, tra i Maya... I suoi nonni, Illustre Signor Arafat, non ci hanno lasciato che qualche bella moschea e un libro col quale da millequattrocento anni mi rompono le scatole più di quanto i cristiani me le rompano con la Bibbia e gli ebrei con la Torah. E ora vediamo quali sono i pregi che distinguono questo Corano. Davvero pregi? Dacché i figli di Allah hanno semidistrutto New York, gli esperti dell'Islam non fanno che cantarmi le lodi di Maometto: spiegarmi che il Corano predica la pace e la fratellanza e la giustizia. (Del resto lo dice anche Bush, povero Bush. E va da sé che Bush deve tenersi buoni i ventiquattro milioni di americani-musulmani, convincerli a spifferare quel che sanno sugli eventuali parenti o amici o conoscenti devoti a Usama Bin Laden). Ma allora come la mettiamo con la storia dell'Occhio-per-Occhio-Dente-per-Dente? Come la mettiamo con la faccenda del chador anzi del velo che copre il volto delle musulmane, sicché per dare una sbirciata al prossimo quelle infelici devon guardare attraverso una fitta rete posta all'altezza degli occhi? Come la mettiamo con la poligamia e col principio che le donne debbano contare meno dei cammelli, che non debbano andare a scuola, non debbano andare dal dottore, non debbano farsi fotografare eccetera? Come la mettiamo col veto degli alcolici e la pena di morte per chi li beve? Anche questo sta nel Corano. E non mi sembra mica tanto giusto, tanto fraterno, tanto pacifico.

Ecco dunque la mia risposta alla tua domanda sul Contrasto-delle-Due-Culture. Al mondo c'è posto per tutti, dico io. A casa propria tutti fanno quel che gli pare. E se in alcuni paesi le donne sono così stupide da accettare il chador anzi il velo da cui si guarda attraverso una fitta rete posta all'altezza degli occhi, peggio per loro. Se son così scimunite da accettar di non andare a scuola, non andar dal dottore, non farsi fotografare eccetera, peggio per loro. Se son così minchione da sposare uno stronzo che vuole quattro mogli, peggio per loro. Se i loro uomini sono così grulli da non bere la birra e il vino, idem. Non sarò io a impedirglielo. Ci mancherebbe altro. Sono stata educata nel concetto di libertà, io, e la mia mamma diceva: «Il mondo è bello perché è vario». Ma se pretendono d'imporre le stesse cose a me, a casa mia... Lo pretendono. Usama Bin Laden afferma che l'intero pianeta Terra deve diventar musulmano, che dobbiamo convertirci all'Islam, che con le buone o con le cattive lui ci convertirà, che a tal scopo ci massacra e continuerà a massacrarci. E questo non può piacerci, no. Deve metterci addosso una gran voglia di rovesciar le carte, ammazzare lui. Però la cosa non si risolve, non si esaurisce, con la morte di Usama Bin Laden. Perché gli Usama Bin Laden sono decine di migliaia, ormai, e non stanno soltanto in Afghanistan o negli altri paesi arabi. Stanno dappertutto, e i più agguerriti stanno proprio in Occidente. Nelle nostre città, nelle nostre strade, nelle nostre università, nei gangli della tecnologia. Quella tecnologia che qualsiasi ottuso può maneggiare. La Crociata è in atto da tempo. E funziona come un orologio svizzero, sostenuta da una fede e da una perfidia paragonabile soltanto alla fede e alla perfidia di Torquemada quando gestiva l'Inquisizione. Infatti trattare con loro è impossibile. Ragionarci, impensabile. Trattarli con indulgenza o tolleranza o speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso.

 

Te lo dice una che quel tipo di fanatismo lo ha conosciuto abbastanza bene in Iran, in Pakistan, in Bangladesh, in Arabia Saudita, in Kuwait, in Libia, in Giordania, in Libano, e a casa sua. Cioè in Italia. Lo ha conosciuto, ed anche attraverso episodi triviali, anzi grotteschi, ne ha avuto raggelanti conferme. Io non dimentico mai quel che mi accadde all'ambasciata iraniana di Roma quando chiesi il visto per recarmi a Teheran, per intervistare Khomeini, e mi presentai con le unghie smaltate di rosso. Per loro, segno di immoralità. Mi trattarono come una prostituta da bruciare sul rogo. Mi ingiunsero di levarlo immediatamente quel rosso. E se non gli avessi detto anzi urlato che cosa gradivo levare, anzi tagliare a loro... Non dimentico nemmeno quel che mi accadde a Qom, la città santa di Khomeini, dove in quanto donna venni respinta da tutti gli alberghi. Per intervistare Khomeini dovevo mettermi il chador, per mettermi il chador dovevo togliermi i blue jeans, per togliermi i blue jeans dovevo appartarmi, e naturalmente avrei potuto effettuare l'operazione nell'automobile con la quale ero giunta da Teheran. Ma l'interprete me lo impedì. Lei-è-pazza, lei-è-pazza, a-fare-una-cosa-simile-a-Qom-si-finisce-fucilati. Preferì portarmi all'ex Palazzo Reale dove un custode pietoso ci ospitò, ci prestò l'ex Sala del Trono. Infatti io mi sentivo come la Madonna che per dare alla luce il Bambin Gesù si rifugia insieme a Giuseppe nella stalla scaldata dall'asino e dal bue. Ma a un uomo e a una donna non sposati fra loro il Corano vieta di appartarsi dietro una porta chiusa, ahimé, e d'un tratto la porta si aprì. Il mullah addetto al Controllo della Moralità irruppe strillando vergogna-vergogna, peccato-peccato, e v'era solo un modo per non finire fucilati: sposarsi. Firmare l'atto di matrimonio a scadenza (quattro mesi) che il mullah ci sventolava sulla faccia. Il guaio è che l'interprete aveva una moglie spagnola, una certa Consuelo per nulla disposta ad accettare la poligamia, e io non volevo sposare nessuno. Tantomeno un iraniano con la moglie spagnola e nient'affatto disposta ad accettare la poligamia. Nel medesimo tempo non volevo finir fucilata ossia perdere l'intervista con Khomeini. In tal dilemma mi dibattevo e...

Ridi, ne son certa. Ti sembrano barzellette. Bè, allora il seguito di questo episodio non te lo racconto. Per farti piangere ti racconto quello dei dodici giovanotti impuri che finita la guerra del Bangladesh vidi giustiziare a Dacca. Li giustiziarono sul campo dello stadio di Dacca, a colpi di baionetta nel torace o nel ventre, e alla presenza di ventimila fedeli che dalle tribune applaudivano in nome di Dio. Tuonavano «Allah akbar, Allah akbar». Lo so, lo so: nel Colosseo gli antichi romani, quegli antichi romani di cui la mia cultura va fiera, si divertivano a veder morire i cristiani dati in pasto ai leoni. Lo so, lo so: in tutti i paesi d'Europa i cristiani, quei cristiani ai quali malgrado il mio ateismo riconosco il contributo che hanno dato alla Storia del Pensiero, si divertivano a veder bruciare gli eretici. Però è trascorso parecchio tempo, siamo diventati un pochino più civili, e anche i figli di Allah dovrebbero aver compreso che certe cose non si fanno. Dopo i dodici giovanotti impuri ammazzarono un bambino che per salvare il fratello condannato a morte s'era buttato sui giustizieri. A lui schiacciarono la testa con gli scarponi da militare. E se non ci credi, bè: rileggi la mia cronaca o la cronaca dei giornalisti francesi e tedeschi che inorriditi quanto me erano lì con me. Meglio: guardati le fotografie che uno di essi scattò. Comunque il punto che mi preme sottolineare non è questo. È che, concluso lo scempio, i ventimila fedeli (molte donne) lasciarono le tribune e scesero nel campo. Non in maniera scomposta, cialtrona, no. In maniera ordinata, solenne. Lentamente composero un corteo e, sempre in nome di Dio, passarono sopra i cadaveri. Sempre tuonando Allah-akbar, Allah-akbar. Li distrussero come le due Torri di New York. Li ridussero a un tappeto sanguinolento di ossa spiaccicate.

Oh, potrei continuare all'infinito. Dirti cose mai dette, cose da farti rizzare i capelli in testa. Su quel rimbambito di Khomeini, ad esempio, che dopo l'intervista tenne un comizio a Qom per dichiarare che io lo accusavo di tagliare i seni alle donne. Da tale comizio ricavò un video che per mesi venne trasmesso alla televisione di Teheran sicché, quando l'anno successivo tornai a Teheran, venni arrestata appena scesa dall'aereo. E la vidi brutta, sai, proprio brutta. Era il periodo degli ostaggi americani... potrei parlarti di quel Mujib Rahman che, sempre a Dacca, aveva ordinato ai suoi guerriglieri di eliminarmi in quanto europea pericolosa, e meno male che a rischio della propria vita un colonnello inglese mi salvò. O di quel palestinese di nome Habash che per venti minuti mi fece tenere un mitragliatore puntato alla testa. Dio, che gente! I soli coi quali abbia avuto un rapporto civile restano il povero Alì Bhutto cioè il primo ministro del Pakistan, morto impiccato perché troppo amico dell’Occidente, e il bravissimo re di Giordania: re Hussein. Ma quei due erano musulmani quanto io son cattolica. Comunque voglio darti la conclusione del mio ragionamento. Una conclusione che non piacerà a molti, visto che difendere la propria cultura, in Italia, sta diventando peccato mortale. E visto che intimiditi dall’impropria parola «razzista», tutti tacciono come conigli.

Io non vado a rizzare tende alla Mecca. Io non vado a cantar Paternostri e Avemarie dinanzi alla tomba di Maometto. Io non vado a fare pipì sui marmi delle loro moschee, non vado a fare la cacca ai piedi dei loro minareti. Quando mi trovo nei loro paesi (cosa dalla quale non traggo mai diletto) non dimentico mai d'essere un'ospite e una straniera. Sto attenta a non offenderli con abiti o gesti o comportamenti che per noi sono normali e per loro inammissibili. Li tratto con doveroso rispetto, doverosa cortesia, mi scuso se per sbadatezza o ignoranza infrango qualche loro regola o superstizione. E questo urlo di dolore e di sdegno io te l'ho scritto avendo dinanzi agli occhi immagini che non sempre mi davano le apocalittiche scene con le quali ho incominciato il discorso. A volte invece di quelle vedevo l'immagine per me simbolica (quindi infuriante) della gran tenda con cui un'estate fa i mussulmani somali sfregiarono e smerdarono e oltraggiarono per tre mesi piazza del Duomo a Firenze. La mia città.

Una tenda rizzata per biasimare condannare insultare il governo italiano che li ospitava ma non gli concedeva le carte necessarie a scorrazzare per l’Europa e non gli lasciava portare in Italia le orde dei loro parenti. Mamme, babbi, fratelli, sorelle, zii, zie, cugini, cognate incinte, e magari i parenti dei parenti. Una tenda situata accanto al bel palazzo dell'Arcivescovado sul cui marciapiede tenevano le scarpe o le ciabatte che nei loro paesi allineano fuori dalle moschee. E insieme alle scarpe o le ciabatte, le bottiglie vuote dell'acqua con cui si lavavano i piedi prima della preghiera. Una tenda posta di fronte alla cattedrale con la cupola del Brunelleschi, e a lato del Battistero con le porte d'oro del Ghiberti. Una tenda, infine, arredata come un rozzo appartamentino: sedie, tavolini, chaise-longues, materassi per dormire e per scopare, fornelli per cuocere il cibo e appestare la piazza col fumo e col puzzo. E, grazie alla consueta incoscienza dell'Enel che alle nostre opere d'arte tiene quanto tiene al nostro paesaggio, fornita di luce elettrica. Grazie a un radio-registratore, arricchita dalla vociaccia sguaiata d'un muezzin che puntualmente esortava i fedeli, assordava gli infedeli, e soffocava il suono delle campane. Insieme a tutto ciò, le gialle strisciate di urina che profanavano i marmi del Battistero. (Perbacco! Hanno la gettata lunga, questi figli di Allah! Ma come facevano a colpire l'obiettivo separato dalla ringhiera di protezione e quindi distante quasi due metri dal loro apparato urinario?) Con le gialle strisciate di urina, il fetore dello sterco che bloccava il portone di San Salvatore al Vescovo: la squisita chiesa romanica (anno Mille) che sta alle spalle di piazza del Duomo e che i figli di Allah avevano trasformato in cacatoio. Lo sai bene.

Lo sai bene perché fui io a chiamarti, pregarti di parlarne sul «Corriere», ricordi? Chiamai anche il sindaco che, glielo concedo, venne gentilmente a casa mia. Mi ascoltò, mi dette ragione. «Ha ragione, ha proprio ragione...». Ma la tenda non la tolse. Se ne dimenticò o non gli riuscì. Chiamai anche il ministro degli Esteri che era un fiorentino, anzi uno di quei fiorentini che parlano con l'accento molto fiorentino, nonché coinvolto nella faccenda. E pure lui, glielo concedo, mi ascoltò. Mi dette ragione: «Eh, sì. Ha ragione, sì». Ma per toglier la tenda non mosse un dito e, quanto ai figli di Allah che urinavano sul Battistero e smerdavano San Salvatore al Vescovo, presto li accontentò. (Mi risulta che i babbi e le mamme e i fratelli e le sorelle e gli zii e le zie e i cugini e le cognate incinte ora stiano dove volevano stare). Cioè a Firenze e in altre città d’Europa. Allora cambiai sistema. Chiamai un simpatico poliziotto che dirige l'ufficio-sicurezza e gli dissi: «Caro poliziotto, io non sono un politico. Quando dico di fare una cosa, la faccio. Inoltre conosco la guerra e di certe cose me ne intendo. Se entro domani non levate la fottuta tenda, io la brucio. Giuro sul mio onore che la brucio, che neanche un reggimento di carabinieri riuscirebbe a impedirmelo, e per questo voglio essere arrestata. Portata in galera con le manette. Così finisco su tutti i giornali». Bè, essendo più intelligente degli altri, nel giro di poche ore lui la levò. Al posto della tenda rimase soltanto un'immensa e disgustosa macchia di sudiciume. Però fu una vittoria di Pirro. Lo fu in quanto non influì per niente sugli altri scempi che da anni feriscono e umiliano quella che era la capitale dell'arte e della cultura e della bellezza, non scoraggiò per niente gli altri arrogantissimi ospiti della città: gli albanesi, i sudanesi, i bengalesi, i tunisini, gli algerini, i pakistani, i nigeriani che con tanto fervore contribuiscono al commercio della droga e della prostituzione a quanto pare non proibito dal Corano. Eh, sì: sono tutti dov'erano prima che il mio poliziotto togliesse la tenda. Dentro il piazzale degli Uffizi, ai piedi della Torre di Giotto. Dinanzi alla Loggia dell'Orcagna, intorno alle Logge del Porcellino. Di faccia alla Biblioteca Nazionale, all'entrata dei musei. Sul Ponte Vecchio dove ogni tanto si pigliano a coltellate o a revolverate. Sui Lungarni dove hanno preteso e ottenuto che il Municipio li finanziasse (Sissignori, li finanziasse). Sul sagrato della Chiesa di San Lorenzo dove si ubriacano col vino e la birra e i liquori, razza di ipocriti, e dove dicono oscenità alle donne. (La scorsa estate, su quel sagrato, le dissero perfino a me che ormai sono un'antica signora. E va da sé che mal gliene incolse. Oooh, se mal gliene incolse! Uno sta ancora lì a mugulare sui suoi genitali). Nelle storiche strade dove bivaccano col pretesto di vender-la-merce. Per merce intendi borse e valige copiate dai modelli protetti da brevetto, quindi illegali, gigantografie, matite, statuette africane che i turisti ignoranti credono sculture del Bernini, roba-da-annusare. («Je connais mes droits, conosco i miei diritti» mi sibilò, sul Ponte Vecchio, uno a cui avevo visto vendere la roba-da-annusare). E guai se il cittadino protesta, guai se gli risponde quei-diritti-vai-ad-esercitarli-a-casa-tua. «Razzista, razzista!». Guai se camminando tra la merce che blocca il passaggio un pedone gli sfiora la presunta scultura del Bernini. «Razzista, razzista!». Guai se un Vigile Urbano gli si avvicina, azzarda: «Signor figlio di Allah, Eccellenza, le dispiacerebbe spostarsi un capellino e lasciar passare la gente?». Se lo mangiano vivo. Lo aggrediscono col coltello. Come minimo, gli insultano la mamma e la progenie. «Razzista, razzista!». E la gente sopporta, rassegnata. Non reagisce nemmeno se gli gridi ciò che il mio babbo urlava durante il fascismo: «Ma non ve ne importa nulla della dignità? Non ce l'avete un po' d'orgoglio, pecoroni?».

Succede anche nelle altre città, lo so. A Torino, per esempio. Quella Torino che fece l'Italia e che ormai non sembra nemmeno una città italiana. Sembra Algeri, Dacca, Nairobi, Damasco, Beirut. A Venezia. Quella Venezia dove i piccioni di piazza San Marco sono stati sostituiti dai tappetini con la «merce» e perfino Otello si sentirebbe a disagio. A Genova. Quella Genova dove i meravigliosi palazzi che Rubens ammirava tanto sono stati sequestrati da loro e deperiscono come belle donne stuprate. A Roma. Quella Roma dove il cinismo della politica d'ogni menzogna e d'ogni colore li corteggia nella speranza d'ottenerne il futuro voto, e dove a proteggerli c'è lo stesso Papa. (Santità, perché in nome del Dio Unico non se li prende in Vaticano? A condizione che non smerdino anche la Cappella Sistina e le statue di Michelangelo e i dipinti di Raffaello: sia chiaro). Mah! Ora son io che non capisco. Anziché figli-di-Allah in Italia li chiamano «lavoratori stranieri». Oppure «mano-d'opera-di-cui-v'è-bisogno». E sul fatto che alcuni di loro lavorino, non ho alcun dubbio. Gli italiani son diventati talmente signorini. Vanno in vacanza alle Seychelles, vengon a New York per comprare i lenzuoli da Bloomingdale's. Si vergognano a fare gli operai e i contadini, e non puoi più associarli col proletariato. Ma quelli di cui parlo, che lavoratori sono? Che lavoro fanno? In che modo suppliscono al bisogno della mano d'opera che l'ex proletariato italiano non fornisce più? Bivaccando nella città col pretesto della merce-da-vendere? Bighellonando e deturpando i nostri monumenti? Pregando cinque volte al giorno? E poi c'è un'altra cosa che non capisco. Se davvero son tanto poveri, chi glieli dà i soldi per il viaggio sulla nave o sul gommone che li porta in Italia? Chi glieli dà i dieci milioni a testa (come minimo dieci milioni) necessari a comprarsi il biglietto? Non glieli darà mica Usama Bin Laden allo scopo d’avviare una conquista che non è solo una conquista di anime, è anche una conquista di territorio?

Bè, anche se non glieli dà, questa faccenda non mi convince. Anche se i nostri ospiti sono assolutamente innocenti, anche se fra loro non c'è nessuno che vuole distruggermi la Torre di Pisa o la Torre di Giotto, nessuno che vuol mettermi il chador, nessuno che vuol bruciarmi sul rogo di una nuova Inquisizione, la loro presenza mi allarma. Mi incute disagio. E sbaglia chi questa faccenda la prende alla leggera o con ottimismo. Sbaglia, soprattutto, chi paragona l'ondata migratoria che s'è abbattuta sull'Italia e sull'Europa con l'ondata migratoria che si rovesciò sull'America nella seconda metà dell'Ottocento anzi verso la fine dell'Ottocento e all'inizio del Novecento. Ora ti dico perché.

***

Non molto tempo fa mi capitò di captare una frase pronunciata da uno dei mille presidenti del Consiglio di cui l'Italia s'è onorata in pochi decenni. «Eh, anche mio zio era un emigrante! Io lo ricordo mio zio che con la valigetta di fibra partiva per l'America!». O qualcosa del genere. Eh, no, caro mio. No. Non è affatto la stessa cosa. E non lo è per due motivi abbastanza semplici.

Il primo è che nella seconda metà dell'Ottocento l'ondata migratoria in America non avvenne in maniera clandestina e per prepotenza di chi la effettuava. Furono gli americani stessi a volerla, sollecitarla. E per un preciso atto del Congresso. «Venite, venite, ché abbiamo bisogno di voi. Se venite, vi si regala un bel pezzo di terra». Ci hanno fatto anche un film, gli americani. Quello con Tom Cruise e Nicole Kidman, e del quale m'ha colpito il finale. La scena dei disgraziati che corrono per piantare la bandierina bianca sul terreno che diventerà loro, sicché solo i più giovani e i più forti ce la fanno. Gli altri restano con un palmo di naso e alcuni nella corsa muoiono. Ch’io sappia, in Italia non c'è mai stato un atto del Parlamento che invitasse anzi sollecitasse i nostri ospiti a lasciare i loro paesi. Venite-venite-ché-abbiamo-tanto-bisogno-di-voi, se-venite-vi-regaliamo-il-poderino-nel-Chianti. Da noi ci sono venuti di propria iniziativa, coi maledetti gommoni e in barba ai finanzieri che cercavano di rimandarli indietro. Più che d’una emigrazione s’è trattato dunque d’una invasione condotta all’insegna della clandestinità. Una clandestinità che disturba perché non è mite e dolorosa. È arrogante e protetta dal cinismo dei politici che chiudono un occhio e magari tutti e due. Io non dimenticherò mai i comizi con cui l’anno scorso i clandestini riempiron le piazze d’Italia per ottenere i permessi di soggiorno. Quei volti distorti, cattivi. Quei pugni alzati, minacciosi. Quelle voci irose che mi riportavano alla Teheran di Khomeini. Non li dimenticherò mai perché mi sentivo offesa dalla loro prepotenza in casa mia, e perché mi sentivo beffata dai ministri che ci dicevano: «Vorremmo rimpatriarli ma non sappiamo dove si nascondono». Stronzi! In quelle piazze ve n’erano migliaia, e non si nascondevano affatto. Per rimpatriarli sarebbe bastato metterli in fila, prego-gentile-signore-s’accomodi, e accompagnarli ad un porto od aeroporto.

Il secondo motivo, caro nipote dello zio con la valigetta di fibra, lo capirebbe anche uno scolaro delle elementari. Per esporlo bastano un paio di elementi. Uno: l’America è un continente. E nella seconda metà dell’Ottocento cioè quando il Congresso Americano dette il via all’immigrazione, questo continente era quasi spopolato. Il grosso della popolazione si condensava negli stati dell’Est ossia gli stati dalla parte dell’Atlantico, e nel Mid-West c’era ancora meno gente. La California era quasi vuota. Beh, l’Italia non è un continente. È un paese molto piccolo e tutt’altro che spopolato. Due: l’America è un paese assai giovane. Se pensi che la Guerra d’Indipendenza si svolse alla fine del 1700, ne deduci che ha appena duecento anni e capisci perché la sua identità culturale non è ancora ben definita. L’Italia, al contrario, è un paese molto vecchio. La sua storia dura da almeno tremila anni. La sua identità culturale è quindi molto precisa e bando alle chiacchiere: non prescinde da una religione che si chiama religione cristiana e da una chiesa che si chiama Chiesa Cattolica. La gente come me ha un bel dire: io-con-la-chiesa-cattolica-non-c'entro. C'entro, ahimé c'entro. Che mi piaccia o no, c'entro. E come farei a non entrarci? Sono nata in un paesaggio di chiese, conventi, Cristi, Madonne, Santi. La prima musica che ho udito venendo al mondo è stata la musica della campane. Le campane di Santa Maria del Fiore che all'Epoca della Tenda la vociaccia sguaiata del muezzin soffocava. È in quella musica, in quel paesaggio, che sono cresciuta. È attraverso quella musica e quel paesaggio che ho imparato cos'è l'architettura, cos'è la scultura, cos'è la pittura, cos'è l'arte. È attraverso quella chiesa (poi rifiutata) che ho incominciato a chiedermi cos'è il Bene, cos'è il Male, e perdio...

Ecco: vedi? Ho scritto un'altra volta «perdio». Con tutto il mio laicismo, tutto il mio ateismo, son così intrisa di cultura cattolica che essa fa addirittura parte del mio modo d'esprimermi. Oddio, mioddio, graziaddio, perdio, Gesù mio, Dio mio, Madonna mia, Cristo qui, Cristo là. Mi vengon così spontanee, queste parole, che non m'accorgo nemmeno di pronunciarle o di scriverle. E vuoi che te la dica tutta? Sebbene al cattolicesimo non abbia mai perdonato le infamie che m'ha imposto per secoli incominciando dall'Inquisizione che m'ha pure bruciato la nonna, povera nonna, sebbene coi preti io non ci vada proprio d'accordo e delle loro preghiere non sappia proprio che farne, la musica delle campane mi piace tanto. Mi accarezza il cuore. Mi piacciono pure quei Cristi e quelle Madonne e quei Santi dipinti o scolpiti. Infatti ho la mania delle icone. Mi piacciono pure i monasteri e i conventi. Mi danno un senso di pace, a volte invidio chi ci sta. E poi ammettiamolo: le nostre cattedrali son più belle delle moschee e delle sinagoghe. Si o no? Sono più belle anche delle chiese protestanti. Guarda, il cimitero della mia famiglia è un cimitero protestante. Accoglie i morti di tutte le religioni ma è protestante. E una mia bisnonna era valdese. Una mia prozia, evangelica. La bisnonna valdese non l'ho conosciuta. La prozia evangelica, invece, sì. Quand'ero bambina mi portava sempre alle funzioni della sua chiesa in via de' Benci a Firenze, e... Dio, quanto m'annoiavo! Mi sentivo talmente sola con quei fedeli che cantavano i salmi e basta, quel prete che non era un prete e leggeva la Bibbia e basta, quella chiesa che non mi sembrava una chiesa e che a parte un piccolo pulpito aveva un gran crocifisso e basta. Niente angeli, niente Madonne, niente incenso... Mi mancava perfino il puzzo dell'incenso, e avrei voluto trovarmi nella vicina basilica di Santa Croce dove queste cose c'erano. Le cose cui ero abituata. E aggiungo: nella mia casa di campagna, in Toscana, v'è una minuscola cappella. Sta sempre chiusa. Dacché la mamma è morta non ci va nessuno. Però a volte ci vado, a spolverare, a controllare che i topi non ci abbiano fatto il nido, e nonostante la mia educazione laica mi ci trovo a mio agio. Nonostante il mio mangiapretismo, mi ci muovo con disinvoltura. E credo che la stragrande maggioranza degli italiani ti confesserebbe la medesima cosa. (A me la confessò Berlinguer).

Santiddio! (Ci risiamo). Sto dicendoti che noi italiani non siamo nelle condizioni degli americani: mosaico di gruppi etnici e religiosi, guazzabuglio di mille culture, nel medesimo tempo aperti ad ogni invasione e capaci di respingerla. Sto dicendoti che, proprio perché è definita da molti secoli e molto precisa, la nostra identità culturale non può sopportare un' ondata migratoria composta da persone che in un modo o nell'altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri valori. Sto dicendoti che da noi non c'è posto per i muezzin, per i minareti, per i falsi astemi, per il loro fottuto Medioevo, per il loro fottuto chador. E se ci fosse, non glielo darei. Perché equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che ci siamo bene o male conquistati, la nostra Patria. Significherebbe regalargli l'Italia. E io l'Italia non gliela regalo.

Io sono italiana. Sbagliano gli sciocchi che mi credono ormai americana. Io la cittadinanza americana non l'ho mai chiesta. Anni fa un ambasciatore americano me la offrì sul Celebrity Status, e dopo averlo ringraziato gli risposi: «Sir, io all'America sono assai legata. Ci litigo sempre, la rimprovero sempre, eppure le sono profondamente legata. L'America è per me un amante anzi un marito al quale resterò sempre fedele. Ammesso che non mi faccia le corna. Voglio bene a questo marito. E non dimentico mai che se non si fosse scomodato a fare la guerra a Hitler e Mussolini, oggi parlerei tedesco. Non dimentico mai che se non avesse tenuto testa all' Unione Sovietica, oggi parlerei russo. Gli voglio bene e m'è simpatico. Mi piace ad esempio il fatto che quando arrivo a New York e porgo il passaporto col Certificato di Residenza, il doganiere mi dica con un gran sorriso: Welcome home. Benvenuta a casa. Mi sembra un gesto così generoso, così affettuoso. Inoltre mi ricorda che l'America è sempre stata il Refugium Peccatorum della gente senza patria. Ma io la patria ce l'ho già, Sir. La mia Patria è l'Italia, e l'Italia è la mia mamma. Sir, io amo l'Italia. E mi sembrerebbe di rinnegare la mia mamma a prendere la cittadinanza americana». Gli risposi anche che la mia lingua è l'italiano, che in italiano scrivo, che in inglese mi traduco e basta. Nello stesso spirito in cui mi traduco in francese, cioè sentendolo una lingua straniera. E poi gli risposi che quando ascolto l'Inno di Mameli mi commuovo. Che a udire quel Fratelli-d'Italia, l'Italia-s'è-desta, parapà-parapà-parapà, mi viene il nodo alla gola. Non mi accorgo nemmeno che come inno è bruttino. Penso solo: è l'inno della mia Patria. Del resto il nodo alla gola mi vien pure a guardare la bandiera bianca rossa e verde che sventola. Teppisti degli stadi a parte, s'intende. Io ho una bandiera bianca rossa e verde dell'Ottocento. Tutta piena di macchie, macchie di sangue, tutta rosa dai topi. E sebbene al centro vi sia lo stemma sabaudo (ma senza Cavour e senza Vittorio Emanuele II e senza Garibaldi che a quello stemma si inchinò noi l'Unità d'Italia non l'avremmo fatta), me la tengo come l'oro. La custodisco come un gioiello. Siamo morti per quel tricolore, Cristo! Impiccati, fucilati, decapitati. Ammazzati dagli austriaci, dal Papa, dal Duca di Modena, dai Borboni. Ci abbiamo fatto il Risorgimento, col quel tricolore. E l'Unità d'Italia, e la guerra sul Carso, e la Resistenza. Per quel tricolore il mio trisnonno materno Giobatta combatté a Curtatone e Montanara, rimase orrendamente sfregiato da un razzo austriaco. Per quel tricolore i miei zii paterni sopportarono ogni pena dentro le trincee del Carso. Per quel tricolore mio padre venne arrestato e torturato a Villa Triste dai nazi-fascisti. Per quel tricolore la mia intera famiglia fece la Resistenza e l'ho fatta anch'io. Nelle file di Giustizia e Libertà, col nome di battaglia Emilia. Avevo quattordici anni. Quando l'anno dopo mi congedarono dall'Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, mi sentii così fiera. Gesummaria, ero stata un soldato italiano! E quando venni informata che col congedo mi spettavano 14.540 lire, non sapevo se accettarle o no. Mi pareva ingiusto accettarle per aver fatto il mio dovere verso la Patria. Poi le accettai. In casa eravamo tutti senza scarpe. E con quei soldi ci comprai le scarpe per me e per le mie sorelline.

Naturalmente la mia patria, la mia Italia, non è l'Italia d'oggi. L'Italia godereccia, furbetta, volgare degli italiani che pensano solo ad andare in pensione prima dei cinquant'anni e che si appassionano solo per le vacanze all'estero o le partite di calcio. L'Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene che pur di stringere la mano a un divo o una diva di Hollywood venderebbero la figlia a un bordello di Beirut ma se i kamikaze di Usama Bin Laden riducono migliaia di newyorchesi a una montagna di cenere che sembra caffè macinato sghignazzan contenti bene-agli-americani-gli-sta-bene. L'Italia squallida, imbelle, senz'anima, dei partiti presuntuosi e incapaci che non sanno né vincere né perdere però sanno come incollare i grassi posteriori dei loro rappresentanti alla poltroncina di deputato o di ministro o di sindaco. L'Italia ancora mussolinesca dei fascisti neri e rossi che ti inducono a ricordare la terribile battuta di Ennio Flaiano: «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Non è nemmeno l'Italia dei magistrati e dei politici che ignorando la consecutio-temporum pontificano dagli schermi televisivi con mostruosi errori di sintassi. (Non si dice «Credo che è»: animali! Si dice «Credo che sia»). Non è nemmeno l'Italia dei giovani che avendo simili maestri affogano nell'ignoranza più scandalosa, nella superficialità più straziante, nel vuoto. Sicché agli errori di sintassi loro aggiungono gli errori di ortografia e se gli domandi chi erano i Carbonari, chi erano i liberali, chi era Silvio Pellico, chi era Mazzini, chi era Massimo D'Azeglio, chi era Cavour, chi era Vittorio Emanuele II, ti guardano con la pupilla spenta e la lingua pendula. Non sanno nulla al massimo sanno recitare la comoda parte degli aspiranti terroristi in tempo di pace e di democrazia, sventolare le bandiere nere, nasconder la faccia dietro i passamontagna, i piccoli sciocchi. Gli inetti. E tantomeno è l’Italia delle cicale che dopo aver letto questi appunti mi odieranno per aver scritto la verità. Tra una spaghettata e l’altra mi malediranno, mi augureranno d’essere uccisa dai loro protetti cioè da Usama Bin Laden. No, no: la mia Italia è un'Italia ideale. È l'Italia che sognavo da ragazzina, quando fui congedata dall'Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, ed ero piena di illusioni. Un'Italia seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa, quindi meritevole di rispetto. E quest'Italia, un'Italia che c’è anche se viene zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la tocca. Guai a chi me la ruba, guai a chi me la invade. Perché, che a invaderla siano i francesi di Napoleone o gli austriaci di Francesco Giuseppe o i tedeschi di Hitler o i compari di Usama Bin Laden, per me è lo stesso. Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem.

Col che ti saluto affettuosamente, caro il mio Ferruccio, e t'avverto: non chiedermi più nulla. Meno che mai, di partecipare a risse o a polemiche vane. Quello che avevo da dire l'ho detto. La rabbia e l'orgoglio me l'hanno ordinato. La coscienza pulita e l'età me l'hanno consentito. Ma ora devo rimettermi a lavorare, non voglio essere disturbata. Punto e basta.

 

MA IL DOLORE NON HA UNA BANDIERA

di Dacia Maraini

 

Cara Oriana, ho sempre ammirato la tua sincerità, il tuo coraggio. Sono stata contenta di vedere di nuovo la tua firma sul Corriere : finalmente Oriana Fallaci torna a battagliare come è nel suo carattere, mi sono detta. Bentornata in Italia! Leggendo il tuo lungo e appassionato articolo però devo dirti che l’ammirazione per il tuo coraggio si è trasformata presto in allarme per la tua incoscienza. Proprio nel momento in cui tutti, dal Papa al presidente degli Stati Uniti, cercano di distinguere fra cultura islamica e terrorismo, proprio in questa circostanza così delicata e grave per il futuro del mondo, tu te la prendi con chi non è pronto a buttarsi in una guerra di religione. Per te chi distingue fra terrorismo e Islam è un ipocrita, un «fottuto» intellettuale, meschino e spocchioso. Con questo criterio anche il Papa sarebbe un ipocrita e che dire del presidente Bush, che altrove esalti con tanta commozione? Subito dopo l’eccidio Bush è andato a visitare una moschea, l’avrai visto anche tu. Cos’è, anche lui un politico che tu metti fra i farisei e gli impostori?

«Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite e non volete capire che qui è in atto una guerra di religione»... tu scrivi con invidiabile piglio militaresco. «Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio ma alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci. Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà...».

E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente, cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. E con quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri...».

Oriana, lo so, non ti si può chiedere di ragionare con calma, ma santo iddio, ferma un momento la tua furia e guardati intorno. Proprio New York in cui hai scelto di vivere, è la città più multietnica che esista al mondo. Nei grattacieli, lo sai, sono morti 400 musulmani. Schiacciati, soffocati o bruciati vivi, per mano di alcuni criminali.

I primi a fare le spese del fanatismo religioso sono stati proprio loro, i figli di Allah: le tante ragazze sgozzate in Algeria per la semplice ragione che frequentavano una scuola, i tanti contadini che avevano la sola colpa di coltivare la terra e pretendere di vendere i loro prodotti in un mercato misto; le tante donne che in Afghanistan sono state lapidate perché scoperte a camminare con un burqa non abbastanza lungo o non abbastanza fitto davanti agli occhi.

Non sono stati gli islamici in generale a fare l’eccidio, come non sono stati gli italiani in generale a buttare la bomba alla Banca dell’Agricoltura di Milano o alla stazione di Bologna, ma persone con nome e cognome. E sono queste persone che vanno scoperte e processate e condannate, come si è fatto dopo il nazismo con il processo di Norimberga. La guerra non è una risposta congrua contro il terrorismo, ma quello che servirebbe semmai è una grande operazione di polizia internazionale.

Certamente molti hanno risposto alle tue veementi parole, perché con la tua passione hai toccato un punto nevralgico, una memoria dolorosa: la paura dell’Islam ha radici lontane. C’è ancora un’eco in noi che suona con voce infantile: mamma li turchi!

«Quando è in ballo il destino dell’Occidente» tu scrivi, «la sopravvivenza della nostra civiltà va salvaguardata»! Non ti sembra di esagerare? «Se crolla l’America crolla l’Europa, crolla l’Occidente, crolliamo noi. ... E al posto delle campane, ci troviamo il muezzin, al posto delle minigonne ci ritroviamo il chador, al posto del cognacchino il latte di cammella». È un allarmismo il tuo che capisco provenga da dolorose esperienze di inviata di guerra, ma finisce per resuscitare antichi odii e ancora più antiche paure assolutamente fuorvianti per riconoscere e colpire i reali colpevoli di questa strage.

Non puoi dire che in Italia «le moschee di Milano e di Torino e di Roma traboccano di mascalzoni che inneggiano a Usama Bin Laden, di terroristi in attesa di fare saltare in aria la Cupola di San Pietro», perché non è vero. Proprio in questi giorni a Palermo, a Napoli ci sono state delle manifestazioni di arabi e di italiani per ricordare i morti uccisi dal terrorismo a Manhattan. Non puoi criminalizzare tante persone che lavorano, pregano e portano avanti con dignità una difficile vita di esilio. «Mi spieghi signor cavaliere, sono così incapaci i suoi poliziotti e carabinieri? Sono così coglioni i suoi servizi segreti? Sono così scemi i suoi funzionari?» insisti tu con aria da inquisitrice. «Oppure a fare le indagini giuste, a individuare e arrestare chi finoggi non avete individuato e arrestato, lei teme di subire il solito ricatto razzista-razzista?».

Ma Oriana, se proprio il Paese che tu porti ad esempio non è stato capace di prevenire quell’orrore, perché pensi che avrebbe dovuto farlo il nostro? Il terrorismo è vile, vive di finzioni, si mimetizza, finge, inganna, si insinua, approfitta della buona fede e della libertà, che come giustamente dici, sono le grandi conquiste dei Paesi non dominati da una teocrazia. A me sembra che proprio l’enormità del progetto abbia impedito di vederlo e prevenirlo. L’idea di trasformare dei pacifici aerei di linea in micidiali ordigni di morte per migliaia di innocenti era difficile da immaginare. Gli anarchici che uccidevano un re o un capo di Stato sembrano, a guardarli oggi, dei bambini intenti a giocare coi soldatini. Eppure anche loro hanno cambiato il corso della storia. Ma gli anarchici si rivolgevano ad una persona precisa, che ritenevano colpevole di qualcosa di grave (assassini, torture, abusi di potere, ecc.) mentre qui, in pieno periodo di pace, con l’inganno più sfrontato e imprevedibile, si è infierito contro degli innocenti assolutamente ignari del pericolo che incombeva su di loro. Uno sterminio di massa portato a termine con tanta sfrontatezza e tanta mostruosa gelata insensibilità è fuori da ogni previsione.

Masochisti tu dici «siamo masochisti perché, vogliamo farlo questo discorso sul contrasto fra le due culture?». E qui con foga impaziente sostieni che non vuoi nemmeno sentire parlare di due culture, perché le si metterebbero sullo stesso piano «come fossero due realtà parallele». E parti come un ciclone a fare quello che chiunque abbia una briciola di buon senso ti direbbe non si può fare: una comparazione fra civiltà. Non c’è bisogno di avere studiato antropologia (un’arte squisitamente europea, figlia di una cultura illuminista, attenta verso l’altro, il diverso), per sapere che ogni confronto fra culture è insensato. In quanto la civiltà è in movimento, non ha niente di monolitico, sfugge al concetto di bene e di male. Ogni cultura, anche la più apparentemente primitiva, vive di valori, di regole, con una sua cosmogonia e una sua rete di relazioni e di beni affettivi che non possono essere disprezzate mai, per nessuna ragione. Non è inferiore un congolese perché va scalzo a pescare i pesci con la lancia e muore di Aids a trent’anni. Qualcuno potrebbe raccontarci che una terra ricchissima, la sua, piena di diamanti e di rame, è stata devastata, sequestrata e rapinata da chi aveva soldi e fucili, lasciando quell’uomo all’età della pietra. Ogni essere umano fa parte di un sistema di conoscenze e di opinioni più o meno sfortunato, più o meno vincente, ma sempre degno di vivere dignitosamente nel rispetto altrui. C’è stato un periodo in cui la civiltà africana contava più di Roma e di Atene. Per non parlare dell’Islam, fra l’altro molto vicino a noi. «Siamo figli dello stesso Dio» ha detto umilmente papa Wojtyla. Per molti secoli l’Islam ha insegnato all’Europa come contare le stelle, come calcolare la distanza dei pianeti, come pensare e scrivere le operazioni matematiche.

Le civiltà salgono e scendono, hanno momenti di prosperità e momenti di stasi e di povertà. Ma certamente è folle attribuire ai poveri la colpa di essere tali. Anche perché spesso, in nome della superiorità di razza e di un Dio severo, proprio chi si sentiva dalla parte del Bene e della Verità ha derubato, confiscato, schiavizzato chi considerava «ignorante e selvaggio».

Lasciamo stare il discorso sulle civiltà. Dopo millenni di odii e di guerre per lo meno dovremmo avere imparato questo: che il dolore non ha bandiera. Che ciò a cui aspira la maggioranza delle persone è una convivenza pacifica fra individui di diversa cultura e diversa fede.

Proprio le torri di Manhattan visibilmente ci dicono una cosa sacrosanta: che la civiltà oggi è fatta di un crogiolo di culture diverse. In quelle torri ferite a morte convivevano civilmente persone di quaranta nazionalità. L’America non sarebbe quella che è se non avesse accolto nel suo seno i neri d’Africa, i musulmani d’oriente, i cinesi, i giapponesi, gli irlandesi, eccetera. L’America che tu ami non ha avuto paura di perdere la sua identità (eppure qualcuno che non voleva riconoscere dignità ai lavoratori stranieri c’era anche allora, erano i Sudisti, e per conquistare la libertà di pensiero e di tolleranza è stata fatta una guerra civile sanguinosissima). È la migliore America quella che ha vinto, l’America dell’accoglienza e della solidarietà. Io stessa in questi giorni lo sto provando sulla mia pelle cosa vuol dire multietnicità. Mia nipote, figlia di mia sorella e di un conosciuto pittore marocchino, ha sposato un irlandese americano da cui ha avuto un bambino che in questi giorni è stato battezzato nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma. Il bambino, Fosco Gabriele, porta in sé il seme di civiltà diverse: da grande parlerà l’inglese, l’arabo, l’italiano e il francese. Non per questo la civiltà occidentale sarà messa in pericolo.

Il fatto è che i Paesi ricchi e potenti possono permettersi delle libertà a cui i Paesi poveri spesso non hanno accesso: la libertà di parola, la libertà di pensiero, la libertà di istruzione, la libertà della democrazia e della ricerca scientifica e artistica. Sapere accogliere il diverso è una conquista, una forza, non una debolezza. Sono le nazioni che si sentono ai margini della storia, che hanno difficoltà di sopravvivenza, che affrontano il futuro con dolore e frustrazione a trovarsi impelagate nell’odio. Così come si odiano delle persone costrette a condividere una casa di trenta metri quadrati, che dispongono di una sola pagnotta per dieci bocche, che vedono morire i figli per malattie che altrove vengono curate e guarite. Essere ricchi e potenti non vuol dire automaticamente essere migliori. Ma certamente vuol dire avere più responsabilità. E mi sembra che in questo momento il Presidente Bush e i suoi consiglieri stiano dimostrando molta sensatezza nel distinguere, chiarire, prendere le distanze dall’odio appunto e dalla vendetta. Mi è sembrata anche ottima l’idea di andare a frugare nei conti di questi terroristi miliardari. È lì che si annidano le prove dell’orribile delitto pensato a freddo e commesso in nome di un Dio pazzo e crudele.

Tu parli degli emigrati che approdano sulle nostre coste con sommo disprezzo quasi fossero loro i responsabili dell’eccidio: «Più che di una emigrazione si è trattato di una invasione condotta all’insegna della clandestinità. Io non dimenticherò mai i comizi in cui l’anno scorso i clandestini riempirono le piazze d’Italia per ottenere i permessi di soggiorno. Quei volti distorti, cattivi. Quei pugni alzati, minacciosi. Quelle voci irose che mi riportavano alla Teheran di Khomeini»... Strano, come ognuno veda quello che vuole vedere. Non so se guardando meglio, senza prevenzioni, avresti scorto quello che ho scorto io e tanti altri con me: la disperazione di chi aveva lasciato la casa e il paese per sfuggire ad una guerra feroce o per cercare un lavoro, anche il più umile, purché gli permettesse di sopravvivere. Certo in mezzo a loro sono scesi anche dei delinquenti, tali e quali a quelli di casa nostra. Ma guai a non distinguere i giusti dagli ingiusti! Si fa una grave offesa alla verità.

Non puoi non vedere che la maggioranza degli emigrati sono povera gente che non sa dove sbattere la testa. E scappano, come scappano gli afghani in questi giorni, dalle loro case, per paura delle bombe e della miseria. Non riesco proprio a capire come tu possa dire, con tanta baldanza: «peggio per loro»! «Se in alcuni Paesi le donne sono così stupide da accettare il chador, peggio per loro. Se sono così scimunite da accettar di non andare a scuola, non andare dal dottore, non farsi fotografare eccetera, peggio per loro. Se sono così minchione da sposare uno stronzo che vuole quattro mogli, peggio per loro»! Eppure tu sai benissimo che quelle donne rischiano la vita solo nel mostrare una mano nuda. Non è una scelta la loro ma una orribile imposizione da dittatura militare... Io sono stata in Afghanistan molto prima dei talebani e ho conosciuto donne che facevano l’avvocato, l’insegnante e non erano nascoste e infagottate come fantasmi. Ma tu non distingui: «Usama Bin Laden afferma che l’intero pianeta Terra deve diventar musulmano, che dobbiamo convertirci all’Islam, che con le buone o le cattive lui ci convertirà che a tal scopo ci massacra e continuerà a massacrarci». Perché non chiamarlo invece per quello che è: un atto di terrorismo fondamentalista che come tale va giudicato e combattuto? Se lo trasformi nella prima mossa di una guerra santa, fai solo il loro gioco. È una trappola, Oriana, in cui mi sembra che tu sia caduta con tutti e due i piedi, spinta dall’impetuosità travolgente e il coraggio - se mi permetti in questo caso un poco donchisciottesco - che ti sono propri.

In quanto ai kamikaze, tu dici di non avere pietà per loro. Ma non pensi che sia molto più spregevole e indegno di pietà chi li indottrina, chi li manda a morire, chi arriva a fargli credere che il loro corpo vale meno di una mina, meno di un fucile? Ho sentito una donna araba dire: però non mandano i propri figli a uccidere e morire: mandano i figli degli altri. Ecco chi è degno di disprezzo e di esecrazione: un gruppo di fanatici che trasforma degli esseri umani, dei ragazzini spesso adolescenti, in oggetti di morte e tutto per dimostrare il loro potere, la loro ideologia, la loro fede, il loro fanatismo. Ma quale Dio può essere tanto sanguinario e nemico dell’essere umano da chiedere tali sacrifici?

Tu dici che la tua ira è esplosa quando hai saputo che in Italia, come in Palestina la gente ha gioito per l’attentato terroristico alle due torri di Manhattan. Sei stata male informata: posso garantirti che nessuno in Italia si è rallegrato per l’orribile scempio. Non si è vista una sola immagine di festa o di compiacimento, né in televisione né per strada né altrove. Quello che si è visto è stato solo stupore, paura, indignazione, orrore. Tutti abbiamo fissato lo sguardo su quell’obbrobrio, tutti abbiamo osservato impotenti, con le lagrime agli occhi, quei corpi che si sporgevano disperati lungo le pareti dei grattacieli, incerti se gettarsi di sotto o affrontare una morte per fuoco: bruciati vivi, innocenti e giovani. Una morte di massa che ha sconvolto le nostre immaginazioni e le nostre aspettative per il futuro. Ti ripeto che nessuno in Italia ha esultato. D’altronde in quelle torri c’erano centinaia di italiani. Che sono stati ridotti a pezzi e possiamo chiamare fortunati quelli che sono morti subito, perché alcuni hanno languito sotto le macerie provando disperatamente a telefonare a casa, - come dimenticare quelle voci che nell’orrore dello strazio mandavano coraggiosamente messaggi di amore ai propri cari? - ma come individuarli? come tirarli fuori? A volte noi cerchiamo di scrollarci di dosso il peso intollerabile delle sofferenze altrui. E chiudiamo gli occhi. Ma quando la morte diventa una rappresentazione in diretta, non puoi serrare le palpebre, non puoi voltare le spalle: sei coinvolto fino in fondo, muori un poco anche tu. E noi siamo tutti un poco morti, lanciandoci nel vuoto come quei poveri infelici che abbiamo visto agitarsi per tanti lunghissimi momenti, prima di sfracellarsi al suolo.

«Il terrorismo è l’assassinio dell’innocente», scrive Salman Rushdie. Questa volta si è trattato di un assassinio di massa. «Giustificare una simile atrocità biasimando la politica degli Stati Uniti significa ricusare l’idea stessa della moralità: che gli individui siano responsabili delle loro azioni!». Il fondamentalista terrorista è contro la libertà di parola, contro il voto universale, contro gli stati democratici, contro i diritti delle donne, contro il pluralismo... «Ma questi sono tiranni non musulmani!». Non ti sembrano parole sagge? Fra l’altro l’Islam ha sempre avuto parole dure contro il suicidio, ci ricorda sempre Rushdie, «un gesto che il suicida è condannato a ripetere per tutta l’eternità». Bisognerebbe fare una analisi, suggerisce lo scrittore per capire come mai tanti fedeli siano attirati da questa forma di disobbedienza alle parole di Maometto. «Così come l’Occidente deve fare i conti con i suoi Unabomber, (con i suoi terroristi irlandesi o baschi), l’Islam dovrebbe fare i conti con i suoi Bin Laden», conclude Rushdie e mi sembrano parole precise e acute. La schizofrenia, il delirio di onnipotenza, l’uso perverso della tecnologia, l’accumulo maniacale del denaro, non sono indicativi né della religione cattolica né della religione musulmana, anche se alcuni individui affamati di successo e di potere hanno adoperato le due fedi per imporre le proprie ragioni di morte e di terrore. Trattiamoli come tali, processiamoli pubblicamente, ma evitiamo le guerre che colpiscono sempre e soprattutto gli innocenti.

 

LA BANDIERA ITALIANA

di Sergio Romano

 

A giudicare dalle lettere che il Corriere ha ricevuto negli scorsi giorni, ciò che è maggiormente piaciuto nel grande articolo di Oriana Fallaci sugli attacchi terroristici dell’11 settembre è l’orgoglio nazionale. E’ piaciuto a tutti: sia a coloro che sottoscrivono le dure critiche della Fallaci al mondo musulmano, sia a coloro che non le approvano o le condividono soltanto in parte. Non ne sono sorpreso. Esiste un patriottismo che gli italiani non riescono a esprimere e che crea, per questa sua incapacità di uscire all’aperto, una specie di malessere nazionale. I vecchi ricordano le sue manifestazioni più sguaiate, le generazioni del dopoguerra sono state abituate a deridere i suoi simboli tradizionali, nessuno vuole regalare questo sentimento a chi potrebbe farne un uso di parte; molti giovani, addirittura, lo rovesciano nel suo contrario e ne fanno una sorta di bandiera anti-istituzionale.

Se qualcuno vuole la prova di questa patologia nazionale - un sentimento che non riesce a trovare né parole né simboli - dia un’occhiata alla bandiera sulla facciata del seggio in cui oggi andrà a votare o di altri palazzi pubblici di fronte ai quali gli accadrà di passare nel corso della giornata. Non è una bandiera nazionale. E’ un drappo stinto, sporco, spesso stracciato. Lo hanno appeso a un’asta per obbedire a una disposizione ministeriale o per compiacere un vecchio e paterno presidente della Repubblica che ama parlare di patria e ricorda con orgoglio gli anni in cui vestiva l’uniforme. Siamo passati con burocratica indifferenza da un’Italia senza bandiere a un’Italia imbandierata. Ma nessuno si sognerebbe di salutare il «tricolore», di ammainarlo al tramonto, di ripulirlo per le feste nazionali o di ripiegarlo religiosamente con una piccola cerimonia per farne dono alla vedova di un pompiere morto sul lavoro o a un funzionario dello Stato che va in pensione dopo quarant’anni di onorato servizio. Le sole bandiere che suscitano passione in Italia sono quelle delle contrade al Palio di Siena e delle squadre di calcio negli stadi.

Sulle cause di questa indifferenza sono stati scritti molti libri: una guerra perduta, una memoria nazionale divisa tra fazioni inconciliabili, le ideologie internazionaliste del dopoguerra (comunismo, pacifismo, ecologismo), troppi manuali scolastici in cui il Risorgimento è trattato come una rivoluzione «incompiuta» o «tradita». Ma l’«italianità» (una parola, ormai, pressoché impronunciabile) esiste. E’ riemersa nel momento in cui abbiamo visto sugli schermi della televisione le reazioni degli americani agli attentati terroristici dell’11 settembre. Non siamo stati colpiti, badate, dal coraggio con cui la gente di New York si è messa al lavoro per scavare, curare i feriti e seppellire i morti. In tutti i grandi disastri nazionali, dalle inondazioni del Polesine a quella di Firenze, dalla tragedia del Vajont ai terremoti, abbiamo fatto altrettanto.

Ci ha colpito e sorpreso che questo lavoro collettivo di fronte alle telecamere fosse un coro patriottico e che la bandiera fosse diventata in quella terribile circostanza un segno di riconoscimento, una parola d’ordine. Abbiamo capito che il sentimento nazionale può essere espresso con orgoglio e che quella manifestazione di patriottismo sarebbe stata più efficace, di fronte alla minaccia terroristica, di qualsiasi reazione militare. E ci siamo resi conto che a noi mancava qualcosa. Le immagini di New York hanno avuto sul sentimento nazionale degli italiani un effetto liberatorio e l’articolo di Oriana Fallaci è stato per molti lettori la scintilla di un corto circuito.

Il patriottismo degli americani ha suscitato, con un provvidenziale effetto mimetico, il patriottismo degli italiani. Se qualcuno nei prossimi giorni provvederà a ripulire il tricolore degli edifici pubblici, sapremo che anche l’Italia ufficiale se ne è accorta.

IL SULTANO E SAN FRANCESCO

di Tiziano Terzani

 

Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle «Lettere da due mondi diversi»: io dalla Cina dell’immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo.

Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana - la ragione; il meglio del cuore - la compassione.

Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia», scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell’umanità, un’opera che sembra essere ancora di un’inquietante attualità.

Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta.

Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L’orrore indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. È un momento anche di enorme responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l’uccidere.

«Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me», scriveva nel 1925 quella bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: «Finché l’uomo non si metterà di sua volontà all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza».

E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, «Libertà duratura». O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c’è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmeno questa.

Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all’inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta.

Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza - ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’altra nostra e così via.

Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologice - Stati Uniti in testa - d’impegnarsi solennemente con tutta l’umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale - di per sé un’arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta.

In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werde n: ethische Politik von Sokrates bis Mozart ( L’arte di non essere governati: l’etica politica da Socrate a Mozart ). L’autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all’Università di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino - un marchio che è anche una protezione -, lo condanna all’esilio dove quello fonda la prima città. La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio.

Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell’uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine.

Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore.

A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle «Tigri Tamil», votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di «Hamas» che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’ di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’Imperatore. I kamikaze mi interessano perché vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell’innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.

Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L’attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l’atto di «una guerra di religione» degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure «un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale», come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici.

Un vecchio accademico dell’Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una interpretazione completamente diversa. «Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana», scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri - l’ultimo, Blowback , contraccolpo, uscito l’anno scorso (in Italia edito da Garzanti ndr ) ha del profetico - si tratterebbe appunto di un ennesimo «contraccolpo» al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo.

Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.

Il «contraccolpo» dell’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l’Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’Islam.

Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana «a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico». Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che sia l’analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi «amici», qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. L’occasione per uscirne è ora.

Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d’anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d’essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi «contraccolpi» che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l’Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i petrolieri.

A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli «orribili» talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti.

È per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria petrolifera con quelli dell’industria bellica - combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington - finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del paese, in ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l’America così particolare.

Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’aggettivo «codardi», usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l’allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni.

L’aver diviso il mondo in maniera - mi pare - «talebana», fra «quelli che stanno con noi e quelli contro di noi», crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.

Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi di sputo - alle «cicale» ed agli intellettuali «del dubbio» va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l’aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace.

Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo «ufficiale» della politica e dell’establishment mediatico, c’è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l’America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell’America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?

Per i politici - me ne rendo conto - è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l’angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.

Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto «a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia», come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America.

Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore , ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori?

Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’arabo, oltre ai tanti che già studiano l’inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia.

Mi frulla in testa una frase di Toynbee: «Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme».

Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per «gli altri», per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati («vide il male ed il peccato»), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’era ancora la Cnn - era il 1219 - perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati.

Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia.

Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella domanda: «La sindrome da fine del mondo, l’alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’uomo più umano?». A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere «No». Ma non possiamo rinunciare alla speranza.

«Mi dica, che cosa spinge l’uomo alla guerra?», chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. «È possibile dirigere l’evoluzione psichica dell’uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?» Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’era da sperare: l’influsso di due fattori - un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire.

Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: «Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto».

Per difendersi, Oriana, non c’è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’è bisogno d’ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M’è sempre piaciuta nei Jataka , le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, «vede» che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri.

Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden?

«Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate», scrive in questi giorni dall’India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose : una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì.

L’immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del «nemico» da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina l’attacco alle Torri Gemelle; è l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla.

Dobbiamo però accettare che per altri il «terrorista» possa essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame?

Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare.

I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra. «Dateci qualcosa di più carino del capitalismo», diceva il cartello di un dimostrante in Germania. «Un mondo giusto non è mai NATO», c’era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo «più giusto» è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed ispirato ad un po’ più di moralità.

La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo l’ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi.

Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche.

L’interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l’utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i «lavoretti sporchi» di liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua lista nera.

Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l’etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze.

A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell’Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s’è «globalizzata», perché non ha resistito all’assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato.

Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch’io non mi ci ritrovo più.

Per questo sto, anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’Himalaya indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo. La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia.

Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi, non sarà mai da nessuna parte.

 

UDITI I CRITICI HA RAGIONE ORIANA

di Giovanni Sartori

 

Oriana Fallaci è fiorentina. Lo è anche Tiziano Terzani. E Dacia Maraini lo è a metà (per parte di padre, Fosco Maraini). Se nella querelle entro anche io - visto che anche io sono fiorentino - tutti insieme facciamo quasi un en plein . I fiorentini sono anche contrariosi e litigiosi. E quindi lite sia / per poter dire la mia. Dacia Maraini esordisce ( Corriere del 29/9) con «Cara Oriana». Si vede che per metà fiorentina non è. Perché quell’esordio è semmai torinese: falso e cortese. «Cara» un fico secco. Nel capoverso che segue la cara Maraini dichiara alla cara Fallaci che «l’ammirazione per il tuo coraggio si è trasformata presto in un allarme per la tua incoscienza». Per una donna di gentile aspetto e di modi garbati, questa è secca davvero. Almeno Tiziano Terzani ( Corriere dell’8/10) esordisce con «Oriana» e basta, senza «carinità», senza falsa cortesia. Giusto. Visto che il Nostro scrive così: «Nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana, la ragione; il meglio del cuore, la compassione». Con questo supplemento: «La tua brillante lezione di intolleranza ora influenza tanti giovani e questo mi inquieta». Per una persona dalla faccia orientalizzata (e, si suppone, di religione contemplativa) queste uscite sono di rarissima pesantezza. Deve essere un richiamo della foresta, un ritorno di fiamma fiorentino.

Non è una grande scoperta che tutti noi leggiamo selettivamente e con dei paraocchi.

Ma questa volta la distanza selettiva delle letture è stata davvero straordinaria. Come risulterà dalla discussione. Dalla quale si ricava - ne anticipo la conclusione - che Oriana Fallaci deve aver ragione, visto che i suoi assaltanti hanno abbondantemente torto. All’inizio mi sono lasciato un po’ incantare dal flauto di Terzani, dal suo dire che «dubitare è una funzione essenziale del pensiero, il dubbio è il fondo della nostra cultura». Oddio, questo è il fondo della cultura di Amleto. Cartesio non scriveva «dubito quindi sono», ma cogito ergo sum . Il dubbio deve dunque essere inserito nel cogito , nel pensare. E il dubitare di Terzani - come vedremo - non lo è.

Umberto Eco dice su Repubblica che lui si preoccupa «dei giovani perché tanto ai vecchi la testa non cambia più». Sarei curioso di sapere qual è la categoria nella quale Eco colloca se stesso, se tra i vecchi o no. Comunque sia, io di me stesso lo so: per i giovani sono uno stravecchio. Il che non toglie - sorpresa, sorpresa - che la mia testa sia tutta un frullo di cambiamenti.

Nel ’68 scrivevo - proprio sul Corriere - che la cosiddetta rivoluzione studentesca preparava l’avvento della asinocrazia, del trionfo degli asini. Il che mi costringeva, nella mia testa, a vedere con diminuitissimo ottimismo il progredire della democrazia. Subito dopo la caduta del Muro di Berlino notavo che la «democrazia senza nemico» era molto più difficile da gestire della democrazia minacciata da un nemico. Il che mi induceva a riorientare la mia testa su questo nuovo problema. E siccome già scrivevo della altissima vulnerabilità della società tecnologica negli anni Settanta, l’11 settembre non mi ha preso del tutto alla sprovvista. Mi sono subito detto: questa è Hiroshima Due; ancora un inedito, e un inedito ancora più terrorizzante di Hiroshima Uno. Nel 1945 c’era la guerra e si sapeva con certezza che la resa (del Giappone) fermava anche il bombardamento atomico americano. Oggi i confini tra guerra e pace si sono annebbiati, e oggi nulla ferma più niente. La polverizzazione delle due torri di Manhattan prefigura un orripilante scenario di «atomiche di pace» (per così riassumere) che ci possono colpire ogni giorno e che massacrano alla cieca.

Dunque, da un mese io mi sto rifacendo - bene o male - una testa nuova che cerca di capire e di fronteggiare una nuovissima (nonché orribilissima) realtà. Invece per la Maraini e Terzani è quasi come se non fosse successo niente di nuovo. In entrambi ripassa il déjà vu di sempre, ripassano i ritornelli di sempre. Saranno anche giovani, certo più giovani in anni di me; ma per il criterio di Umberto Eco la loro testa è già vecchia assai.

Dacia Maraini è una bravissima scrittrice di romanzi che leggo sempre con piacere; ma nel suo discettare etico-politico ritrovo soltanto gli stanchi luoghi comuni del terzomondismo politicamente corretto. Tiziano Terzani ci ha raccontato con finezza e bravura dell’Asia; ma quando cita - come ricette di salvezza - San Francesco d’Assisi, Gandhi e poi, scendendo di parecchi chilometri, padre Balducci e il mio collega (alla Columbia University) Edward Said, allora cita a sproposito.

Personalmente io preferisco i Domenicani ai Francescani. Concedo che Il Cantico di Frate Sole è un testo di un candore commovente. Ma quel candore non può essere trasferito da una età davvero primitiva all’età ultracomplicata del terzo millennio. Quanto a Gandhi, lui aveva a che fare con gli inglesi, e noi non abbiamo a che fare con dei Gandhi. E padre Balducci? Pochi sanno chi fosse. Ma a Firenze negli anni nei quali padre Balducci affascinava il colto e l’inclita (e anche, a quanto pare, Terzani) c’ero anch’io; e ricordo un dibattito nel quale lui attaccò così smodatamente il Papa da costringere il sottoscritto, laico abbastanza catafratto, a fare il papalino, il papofilo. Bel personaggio quel padre Balducci! Ma sempre più bello del cupissimo Edward Said, che scrive bene ma razzola malissimo. Il fatto che Said sia palestinese lo legittima nel suo essere pro palestinesi. Ma non mi risulta che Said abbia mai condannato i suoi uomini-bomba, ed esiste una fotografia che lo coglie, in zona Gaza, che lancia un sasso «intifadico» contro gli israeliani. Lui sarebbe un fautore di «campi di comprensione invece di campi di battaglia»? On aura tout vu , se ne vedono (e sentono) proprio di tutte.

Terzani scrive: «A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto, invece». Dopodiché cita i giapponesi che hanno dato origine al nome, le tigri Tamil, i palestinesi di Hamas. Fine lì. Terzani è troppo vecchio, direbbe Eco, per afferrare che i kamikaze di New York sono animali del tutto diversi da quelli che lui sta ancora studiando. I kamikaze all’antica - diciamo - si immolano per una loro patria, sono «locali». La loro causa è concreta e circoscritta. I suicidi di New York e del Pentagono, e quelli che verranno nella loro scia, sono «globali» e la loro patria è il Corano, è una fede religiosa. Non si battono per una loro madrepatria, per la patria nella quale sono nati, ma per un mondo islamizzato che combatte e punisce gli infedeli. Fa una bella differenza. Che però a Terzani sfugge.

Il Nostro prosegue così: «Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolve uccidendo i terroristi ma eliminando le ragioni che li rendono tali». Sante parole, ma soltanto parole. Asserire che il problema del terrorismo non si risolve uccidendo i terroristi è come asserire che il problema della criminalità non si risolve arrestando e condannando i criminali. Vero; ma quale sarebbe l’alternativa? Eliminare le prigioni e rinviare i criminali a uno «studio Terzani» nel quale possono essere studiati e compresi? Se Terzani ci sta, io ci sto. Mi fornisca l’indirizzo e io proporrò (alla Basaglia) che le prigioni vengano abolite e che i loro inquilini lo vadano a trovare nella sua baita nell’Himalaya. Poi veda lui.

Il punto serio è, comunque, che il problema del terrorismo deve essere spiegato dalle ragioni che lo motivano. Ma Terzani lo spiega asserendo che l’attacco alle Torri Gemelle «certo non è l’atto di una guerra di religione degli estremisti musulmani». Per una persona che esordisce dichiarando di non avere certezze e che per lui la nostra civiltà è la civiltà del dubbio, questa asserzione è stonata. Ed è anche infondata. Perché Terzani la sostiene citando un collega americano di nessuna particolare eminenza (uno tra centomila) per il quale gli «assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America ma la politica estera americana», colpevole, tra l’altro, di aver mantenuto, nonostante la fine della guerra fredda, «circa 800 installazioni militari nel mondo». Davvero formidabili questi fondamentalisti addestrati da Bin Laden. Sapevano, sanno, cose che non sapevo nemmeno io. Faccio ammenda. Dopodiché passo lo stesso a dichiarare che questa è una spiegazione risibile. Come ho già spiegato su questo giornale, chi capisce così non capisce nulla.

Terzani osserva che «se alla violenza dell’attacco alle Torri Gemelle noi rispondiamo con ancora più terribile violenza... alla nostra ne seguirà una loro ancora più orribile e così via». Certo, la violenza chiama violenza. Ma, intanto, non è lecito equiparare la violenza di chi inizia con la violenza di chi si difende. Uno mi spara addosso. Io, dopo, gli rispondo contro-sparando. È la stessa cosa? Ovviamente no.

Ciò fermato, qual è l’alternativa? Subire la violenza, farsi violentare senza reagire, fermare la violenza? Non è mai successo. Né succederà, questo è sicuro, con il terrorismo islamico.

A proposito, i terroristi chi sono? Cosa li caratterizza? E, quindi, come li dobbiamo definire? Dopo aver menzionato i kamikaze giapponesi, i Tamil e i palestinesi di Hamas, Terzani scopre le sue carte: dobbiamo accettare - dichiara - che anche il presidente della Union Carbide (il richiamo è alla esplosione della fabbrica chimica di Bhopal, in India, nel 1984) sia percepito come un terrorista. Perché dobbiamo accettare che «per altri» (il Nostro non si scopre e non lascia capire se lui si includa nei suddetti altri; ma sospetto di sì) il terrorista «possa essere l’uomo di affari che arriva in un Paese povero del Terzo Mondo» per fare, come fa, soltanto i suoi sporchi affari. Terzani si rende conto di averla sparata grossa, e mette le mani avanti. Questo - avverte - «non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo come modo di usare la violenza può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche». Difatti questo non è relativismo; è pasticciare tutto, è incapacità di distinguere, incapacità di usare (come prescritto da Cartesio) idee chiare e distinte. E fa specie che Terzani si lanci all’attacco di Oriana Fallaci accusando lei di attentare «al meglio della testa umana, alla ragione». Perché qui è lui che va in clamoroso autogol. L’Union Carbide come (quasi come) Al Qaeda? Gianni Agnelli come (quasi come) Bin Laden? Alla stregua di questa logica anche Terzani sarebbe un terrorista, perché «usa violenza» alla logica. Il punto è che il terrorismo non può essere definito soltanto come «modo di usare violenza». A metterla così tutto è terrorismo, e perciò stesso (nota Mario Pirani) nulla è terrorismo. Ma per chi ragiona e sa ragionare queste sono soltanto sciocchezze.

Vengo a Dacia Maraini. Che addirittura si appella al Papa: «Nel momento in cui tutti, dal Papa al presidente degli Stati Uniti cercano di distinguere tra Islam e terrorismo, tu te la prendi con chi non è pronto a buttarsi in una guerra di religione. Per te chi distingue tra terrorismo e Islam è un ipocrita, un fottuto intellettuale. Con questo criterio anche il Papa sarebbe un ipocrita». Ma occorre davvero arrivare a un combattimento a colpi bassi, a colpi di Papa? Rileggiamo assieme il testo incriminato, che dice: «Qui è in atto una guerra di religione, forse voluta e dichiarata soltanto da una frangia di quella religione, ma comunque una guerra di religione». D’accordo, a livello diplomatico dobbiamo essere prudenti, dobbiamo sottacere. Ma Galli della Loggia ( Corriere del 4/10) ha benissimo spiegato che le prudenze diplomatiche sono una cosa e la verità dei fatti un’altra. E il fatto è che l’ostilità dei cosiddetti Stati arabi «moderati» verso il terrorismo «non nasce da un loro supposto moderatismo, nasce dalla paura del radicalismo militante».

Difatti i governi in questione non sono in grado di «tradurre la loro paura dell’estremismo in una qualunque battaglia ideologico-culturale a favore di una versione moderata dell’Islam... Dalle società del fronte cosiddetto moderato non è mai venuta una condanna esplicita contro la sentenza di morte dei mullah iraniani a carico di Salman Rushdie, contro le pene degradanti e inumane... contro la bestiale persecuzione di cristiani in Sudan...». Il fatto è, allora, che il fanatismo fondamentalista non può essere messo in discussione in nessuno Stato musulmano «perché ciò equivarrebbe a mettere in discussione in modo pubblico il Corano». Il che è tutto esatto.

Allora, quale sarebbe il terribile, vergognoso sbaglio di Oriana Fallaci? Forse sta nell’aver detto «forse». Invece avrebbe dovuto dire: qui è in atto una guerra di religione «anche se» voluta e dichiarata soltanto da una frangia di quella religione. Ma l’ira di Dacia Maraini non può essere stata scatenata da così poco. Potrebbe essere stata innescata dall’attacco di Oriana Fallaci a una Italia «stupida, vigliacca... imbelle, senza anima»? Non vorrei mai che la Maraini si sia sentita in qualche modo inclusa in quel ritratto. Sarebbe peccato.

Sia come sia, qui mi interessa la Maraini che ci leziona su come le culture e/o le civiltà siano o non siano da paragonare. L’attacco è questo: Tu (Oriana) «con foga impaziente sostieni che non vuoi nemmeno sentire parlare di due culture, perché le si metterebbero sullo stesso piano... E parti come un ciclone a fare quel che chiunque abbia un briciolo di buon senso ti direbbe che non si può fare: una comparazione fra civiltà». Fermi: qui stiamo parlando di culture o di civiltà? Dacia Maraini evidentemente confonde le due cose. Il che, vedremo, è una grave «fallacia».

Ma prima continuiamo a citare: «Non c’è bisogno di aver studiato antropologia per sapere che ogni confronto tra culture è insensato. In quanto la civiltà è in movimento... sfugge al concetto di bene e di male. Ogni cultura... vive di valori, di regole... che non possono essere disprezzate mai, per nessuna ragione». E dunque, conclude la Nostra, «lasciamo stare il discorso sulla civiltà. Dopo millenni di odi e di guerre dovremmo perlomeno avere imparato che il dolore non ha bandiera».

Sì, certo, il dolore non ha bandiere. Come ugualmente le lacrime sono tutte eguali. Ma cosa c’entra, in questo bel dire, la civiltà? C’entra se osserviamo che queste sono massime di alta civiltà (che non sono condivise, vedi caso, dalla «bassa civiltà» di chi esulta per il massacro di Manhattan). Però perché dobbiamo abbandonare il discorso sulle civiltà per scoprire che il dolore non ha bandiere? Il nesso mi sfugge. E mi sfugge perché proprio non c’è. E temo che tutto il succitato argomentare di Dacia Maraini sia del tutto sconnesso.

Il guaio è - già notavo - che la Nostra non distingue, non sa distinguere, tra cultura e civiltà. Tra l’altro la sua sola pezza d’appoggio è l’antropologia culturale (l’antropologia senza aggettivi è un’altra cosa); e l’antropologia culturale non ha, come suo concetto portante, il concetto di civiltà. Lévy-Bruhl e gli altri padri fondatori della disciplina hanno esplorato la «mentalità primitiva» e la sua distanza-differenza dalla nostra (e dalla nostra logica). E se io mi travestissi da antropologo culturale sarei prontissimo a sostenere che gli antropofaghi che mangiano i nemici che uccidono sono molto più «razionali» di chi non lo fa. Se non lo sostengo è perché la mia sensibilità etica si ascrive ad un’altra civiltà. Appunto, civiltà. Ma anche a questo proposito ci dobbiamo intendere. Se io difendo, come difendo, la civiltà occidentale non lo faccio in sede estetica e nemmeno religiosa. L’architettura, la letteratura e l’arte di molte civiltà non-occidentali sono, a mio giudizio, di straordinaria bellezza. E se mi venisse chiesto di scegliere una religione, io passerei al buddismo (anche se sono attratto dal nitore e dalla compostezza dello shintoismo).

Dunque, e venendo al nocciolo, qual è la civiltà che io difendo, e della quale la Maraini e Terzani non danno mostra di accorgersi? È la civiltà nell’accezione etico-politica del concetto. È la civiltà che ha conseguito più di ogni altra - sì, al paragone con ogni altra - la «buona città», la città politica più umana, più vivibile, più libera, più aperta di ogni altra. È, questo, un paragone «insensato»? È una tesi che lascio agli insensati che la sostengono. Terzani scrive che l’intolleranza di Oriana lo inquieta. A me inquieta molto di più, confesso, la cecità di chi fruisce di una «buona vita» (etico-politica) che non vede perché non sa vedere in contrasto. Per Oriana Fallaci, «se crolla l’America crolla l’Europa. Crolla l’Occidente, crolliamo noi. Blair l’ha capito...». Evidentemente Terzani e la Maraini no. Perciò sono davvero spaventato.  

I COLTIVATORI DI DUBBI E LA SPADA DI ORIANA

di Giuliano Zincone

 

Oriana Fallaci non voleva convincere nessuno, ma la sua passione selvatica è sembrata necessaria a molti, e ha sbalordito anche gli avversari. L’eremita di Manhattan non ha messo soltanto il cuore a nudo, ma ha buttato il fegato, lo stomaco e la bile sulle nostre scrivanie. Ha sbriciolato il pigolio politicamente corretto del buonsenso, dei giudizi bipartisan, delle cautele ecumeniche, afferrando immediatamente il nuovo Spirito del Tempo. Un nostro fratello prepotente, a lungo invidiato e disprezzato, ha subito l’estremo affronto, l’estrema umiliazione. Al lutto atroce e simbolico delle Twin Towers, s’è aggiunto l’insulto che ha dissacrato la fierezza del Pentagono. Il fratello americano aveva tanti meriti, ma anche tante colpe antiche e recenti, dall’eccidio dei pellerossa alle stragi di Hiroshima e Nagasaki, dagli arroganti embarghi alla crudele sbadataggine del Cermis.

Una sola volta, a Sigonella, siamo riusciti a contrastarlo, e non ce ne pentiamo. Ma adesso che l’hanno ferito, scopriamo che è pur sempre un fratello e, come s’usa in famiglia, stiamo accanto a lui. La pena per le vittime civili afghane non c’ impedisce di ammettere che la rabbia americana appartiene anche a noi, e che il dolore di New York fa parte della nostra vita.

Con il suo inaudito pamphlet, Oriana Fallaci ha resuscitato una funzione fondamentale della scrittura che, nella marea delle informazioni che ci assediano, è utile soprattutto quando sollecita emozioni. Io, per esempio, non condivido affatto l’orgoglio culturale di Oriana, né approvo le sue contumelie contro gli immigrati musulmani. Ma reagisco, protesto, mi sento chiamato in causa. E alla fine mi accorgo che non conta la correttezza dei suoi argomenti, ma la forza con la quale mi costringe a riflettere e a schierarmi.

Sulla superiorità del nostro mondo, per esempio, c’è molto da discutere: non tanto per negarla, ma per tentare di comprendere in che cosa consista e fino a che punto ci riguardi. Bisogna constatare, innanzitutto, che le civiltà e le culture non sbocciano (né appassiscono) negli stessi tempi e negli stessi luoghi, e che, al loro interno, non producono risultati accessibili a tutti. Se (al bar) si domanda: «In quale epoca ti piacerebbe vivere?», pochi rispondono «adesso». Le aspirazioni variano dall’antica Roma al Rinascimento, al Settecento, dove tutti pensano che, come minimo, sarebbero stati consoli, artisti, marchesi. Nessuno immagina che, con ogni probabilità, avrebbe fatto parte della stragrande maggioranza bastonata, famelica, schiava. È difficile, dunque, rivendicare una qualsiasi superiorità a causa dei lasciti di signori che non ci sono contemporanei. Né sarebbe facile vantare una supremazia culturale sull’Egitto dei faraoni, sull’India e sulla Cina antiche, sui fasti dell’Impero Ottomano. Sarebbe buffo se le plebi mesopotamiche continuassero a vantarsi dei trionfi di Nabucco, e sarebbe ridicolo se noi italiani ci pavoneggiassimo con le penne vetuste di Raffaello. Ogni civiltà, del resto, esprime una vocazione speciale, in un periodo più o meno circoscritto. Scriveva Virgilio che molti Paesi eccellevano nelle discipline artistiche o filosofiche, ma che soltanto ai Romani spettava il compito di governare i popoli con l’imperio, e di castigare gli indocili. Ho l’impressione che quest’eredità non ci riguardi.

Noi veneriamo i monumenti, i quadri, i libri, le musiche degli antenati. Ma non misuriamo su questi beni la nostra supremazia. Possiamo e dobbiamo vantarci di ben altro: spendendo patrimoni incalcolabili di sacrifici, di intelligenze, di battaglie anche micidiali, abbiamo conquistato per le moltitudini livelli notevoli di giustizia e di benessere. Queste sono le nostre cattedrali laiche: qualità e durata della vita, assistenza medica, cibo, case, eguale rispetto e pari opportunità per tutti, libertà (anche di culto), democrazia. Sappiamo bene che questi tesori sono mal distribuiti, recenti, fragili. Ma proprio per questo dobbiamo estenderli e custodirli: senza superbia, ma con legittimo orgoglio, specialmente quando sono esplicitamente minacciati da avversari superstiziosi e prolifici. La democrazia, per definizione, non si può imporre con la forza a chi non la desidera. Però è necessario comprendere quanto sia preziosa, e difenderla contro le insidie esterne e le tentazioni autoritarie interne.

La superiorità della religione, poi, è un paradosso. Nessun credente tradizionale si pone il problema in questi termini. Il confronto occupa un livello alto e drastico: «La mia fede è vera, la tua è falsa». I comportamenti, poi, dipendono dall’educazione dei singoli, dalle opportunità politiche o storiche, dalla generosità dei prelati, dai tentativi (in corso) di riconoscersi reciprocamente dignità o comunanza di radici. Ma questo (eventuale e neonato) rispetto non prevede che la fede estranea diventi «vera». Una religione, diceva Freud, o è intollerante o non è. Certo, Freud non era un teologo, ma questo suo (sbrigativo?) giudizio ci aiuta, forse, a discernere qualche seme del fondamentalismo.

Le religioni storiche alludono all’eterno, ma i loro linguaggi sono incardinati alle epoche delle Rivelazioni, cioè a società agricole, gerarchiche, presumibilmente immutabili. Le rivoluzioni borghesi, moderne e postmoderne, i cambiamenti radicali di modelli di vita, di distribuzione dei redditi, di accesso alle informazioni, seminano impazienze e scetticismi, tendono trasferire all’«oggi e qui» le speranze di beatitudine delle masse. La predicazione religiosa può reagire cercando adepti nelle plaghe del mondo in cui le condizioni di vita siano simili a quelle contemplate nei Libri, oppure deve aggiornare il messaggio, adeguandolo alle mutazioni della società contemporanea. Ciò comporta una progressiva secolarizzazione delle Chiese, che suscita perplessità e ribellioni nei credenti classici. È il caso di don Gianni Baget Bozzo, che osa accusare il Papa di apostasia, senza considerare che, per questo, i pontefici che egli rimpiange lo avrebbero scomunicato (altro che Milingo!) e dannato al rogo. Chiaro: ogni Libro si presta a diverse interpretazioni, che possono variare con i tempi ed essere usate come strumenti di potere, anche a costo di generare scismi, conflitti, persecuzioni. Ma i fondamentalisti sunniti o sciiti detestano soprattutto la secolarizzazione della loro fede, l’abbandono della purezza teocratica da parte dei governi musulmani. I fanatici non ammetteranno mai che la vera religione (così come loro la leggono) è inadeguata al mondo: urleranno che è inadeguato alla loro fede il mondo d’oggi, corrotto e blasfemo. Questa visione è una minaccia micidiale per i Paesi islamici «moderati», perché in molti di loro il terreno è fertile per la propaganda estrema, perché lì sono disponibili masse di manovra fameliche e disperate, tra le quali si possono reclutare «uomini che amano la morte come gli americani amano la vita», garantendo loro un premio che non è di questo mondo. Questa è la forza nera dell’estremismo religioso: contrariamente alla politica, esso non ha bisogno di promettere vantaggi materiali, né teme di subire verifiche a breve scadenza.

Qualcuno s’è scandalizzato, davanti all’aggressività rovente di Oriana Fallaci: l’hanno perfino chiamata razzista. Ma non si può rispondere sottovoce a chi stermina i tuoi amici e sfregia la tua città. Molti intellettuali del nostro tempo sono abituati a guardare il mondo dall’alto di freschi palmizi, distribuendo imparzialmente torti e ragioni, come se nulla li riguardasse. Però, quando la casa brucia, è necessario chiamare i pompieri, è giusto detestare l’incendiario, ed è sano, nei momenti critici, recuperare le emozioni basilari.

Il razzismo non c’entra. Parlerei, semmai, di un’esplosione di sincerità, e tento di spiegarmi con un esempio scolastico. È istintiva la diffidenza verso chiunque sia «diverso». I bambini scherniscono o isolano chi parla un dialetto esotico, chi è troppo grasso, chi è troppo alto o balbuziente. La maestra, con fermezza e pazienza, dovrà spiegare che ciò non è giusto e, a poco a poco, convincerà gli alunni a reprimere i loro impulsi cattivi. Ma l’ostilità rinasce, violenta, quando in classe (nel paese o nel mondo) un «diverso» minaccia la comunità: a questo punto lui e tutti i suoi simili precipitano nel ghetto del disprezzo. Lo scriveva anche Antonin Artaud: di fronte alla catastrofe cadono i castelli culturali, l’istinto cancella l’educazione. E questo ha fatto Oriana Fallaci, una che ha visto tanti Paesi e tante battaglie: ha scovato dalle sue viscere una vitalità elementare e ce l’ha gettata in faccia.

Dopodiché si può discutere di tutto. Noi giornalisti siamo piuttosto disorientati, specialmente se abbiamo girato un po’ di mondo. Arriviamo in mezzo ai disastri con le valigie piene di convinzioni ferree, che poi vanno in frantumi quando guardiamo i conflitti da vicino. Abbiamo paura, ma facciamo a cazzotti per saltare sull’ultimo elicottero: vediamo molto, impariamo poco. Siamo abituati a confrontarci con le differenze, e anche a rispettarle. Nel Laos, per esempio, possono servirti una salsa bruna. Che cos’è? «Cacca di uccelli». Ah, benissimo. L’ambiguità è sempre in agguato. I più vecchi ricordano Saigon. Loro facevano il tifo per i nordisti, ma quando le cannonate dei «liberatori» s’avvicinavano all’albergo, gesummaria, speravano che gli imperialisti le zittissero. E in Pakistan? Sembrava giusto, nei tempi andati, parteggiare per il «laico» Alì Bhutto, si capiva benissimo che le sue tentazioni «neutraliste» dispiacevano agli occidentali, che gli aizzavano contro turbe islamiche, e che si preparavano a farlo impiccare, dopo un solenne processo gestito da magistrati scuri travestiti da inglesi, con le parrucche in coppa. Però, se ti trovavi a Lahore, in mezzo a una sparatoria, non dico che cambiassi idea, ma te ne fregavi del torto e della ragione: volevi soltanto che la piantassero.

Noi eravamo mosche cocchiere, e siamo diventati coltivatori di dubbi. Né ci aiutano i discorsi che ascoltiamo, stupefatti, nei talk show radiotelevisivi. Prendiamo appunti: «Con gli aiuti alle vittime di Manhattan, l’America s’è convertita al socialismo delle partecipazioni statali». «Il riassetto geopolitico postbellico? Vediamo un po’: il nord dell’Afghanistan sotto controllo tagiko, il sud lo affidiamo ai pakistani, il re garantisce la federazione e l’India si consola in pace con il Kashmir». «Ma è tutta una roba di soldi! Oppio, banche, gasdotti!». Taleban Petrol, insomma. Che tristezza. Quasi tutte le nostre vecchie passioni sono state tradite. I sudvietnamiti stanno peggio di prima. Gli iraniani non hanno guadagnato granché, passando dallo scià agli ayatollah. Le donne afghane, poi, soffrivano meno di adesso, sotto il regime dei fantocci filosovietici. E ormai, a quanto pare, il crudele Gheddafi, è diventato amico, l’ondivago Arafat oggi assomiglia a una garanzia, e domani (mai dire mai) qualche perfido dittatore laico potrebbe essere rivalutato...

Oriana Fallaci non coltiva queste nausee. Lei impugna la spada e taglia il mondo in due. La sua fede è brutale, ma nutriente, soprattutto perché ci obbliga a inforcare occhiali più lucidi. Sono tutte vere, le cose che scrive? Non è questo il punto. Anche le lucciole di Pasolini non erano affatto scomparse. Ma, in fondo, aveva ragione lui.

AFGHANISTAN

dossier narcomafie

 

 

Lamento per l'Afghanistan

  ...col tempo (in Afghanistan ci vuole tempo per ogni cosa) gli afghani faranno qualcosa di assolutamente terribile ai loro invasori, magari ridesteranno i giganti addormentati dell'Asia centrale.

Ma quel giorno non riporterà in vita le cose che abbiamo amato: le immense giornate limpide e le azzurre calotte di ghiaccio sui monti, i filari di pioppi bianchi che tremolano al vento, e le lunghe e candide bandiere da preghiere; i campi di asfodeli che venivano dopo quelli di tulipani, o le pecore dalla grossa coda che chiazzavano le colline sopra Chakcharan, e l’ariete con una coda tanto grande, che bisognava fissarla a un carro. Non ci sdraieremo più davanti al Castello Rosso a guardare gli avvoltoi roteanti sopra la valle in cui fu ucciso il nipote di Genghiz. Non leggeremo le memorie di Babur nel suo giardino di Istalif, né vedremo il cieco avanzare tra i cespugli di rose facendosi guidare dall'olfatto. Non andremo a sederci nella Pace dell'Islam con i mendicanti di Gazar Gagh. Non saliremo sulla testa del Buddha di Bamiyan, dritto nella sua nicchia come una balena in un bacino di carenaggio. Non dormiremo nella tenda dei nomadi, né daremo la scalata al minareto di Jam. E avremo perduto i sapori: il pane rustico, caldo e amaro; il tè verde speziato col cardamonio; l'uva che facevamo raffreddare nella neve; e le noci e le more secche che masticavamo per difenderci dal mal di montagna. Né ritroveremo l’aroma dei campi di fagioli, il dolce resinoso profumo del legno di deodara, o l'afrore di un leopardo delle nevi a quattromila metri.

Bruce Chatwin, Che ci faccio qui? AdeIphi 1990


 

BARBARIE E RAGIONE

 A un mese dall'attacco terroristico alle torri gemelle di New York è scattata, ancora una volta, la risposta della guerra. Ad essa, di nuovo, cerchiamo di opporre la forza della ragione. Non è in discussione il punto di partenza. L’orrore e la barbarie che hanno devastato New York e Washington non hanno giustificazioni. Di più, essi non hanno colore (politico, religioso o nazionalistico, che sia); sono semplicemente orrore e barbarie. Non c'è dio, non c'è politica, non c'è progetto di emancipazione senza rispetto e pietà per l'uomo. Non vale dire che la violenza ha avuto nella storia (ed ha oggi) un ruolo di primo piano, sia nel mantenimento dello status quo sia nei progetti di cambiamento. Lo sappiamo bene. Ma il secolo appena concluso ha infine, tra strappi e contraddizioni, convogliato gli sforzi della parte migliore dell'umanità verso almeno la minimizzazione della violenza. Ed è, contemporaneamente, cresciuta, anche nei settori politici più radicali, la consapevolezza indotta dalle dure lezioni della storia che il domani è scritto nell'oggi e che il futuro sarà a immagine e somiglianza del metodo e delle pratiche seguite per costruirlo. In ogni caso, rispetto alla pur diffusa violenza, il terrorismo soprattutto quando raggiunge le vette di ferocia e di casualità cui abbiamo assistito rappresenta un che di qualitativamente diverso.

Ma anche di fronte all'orrore e alla barbarie occorre ragionare, capire, intervenire con lungimiranza. I terroristi sperfluo dirlo vanno identificati e puniti. Ma non sono indifferenti la natura e le modalità della risposta al terrore. Se migliaia di uomini (e persino di bambini) sono pronti a trasformarsi in proiettili (imbottendosi di tritolo o lanciandosi contro un grattacielo alla guida di un aereo) e se intere comunità celebrano la strage di New York come una festa, esiste un problema che nessuna guerra può risolvere o rimuovere (e che, anzi, ogni guerra aggrava). Occultarlo o ignorarlo promettendo risposte militari risolutive realizza solo nuove tragedie. La guerra è di per sé ingiusta e nessuna moderna favola sulle "bombe intelligenti" può nascondere il fatto che la stragrande maggioranza delle vittime, dirette e indirette, delle guerre moderne, è fatta di popolazioni civili, di donne, vecchi, bambini (cui certo non reca sollievo essere "effetti indesiderati"). La guerra e, con essa, la distruzione di un paese già colpito a morte da risalenti conflitti nazionali e internazionali, potrà, forse, portare all'arresto o alla eliminazione di Bin Laden e dei suoi collaboratori, ma non fermerà (ed anzi moltiplicherà) il terrore: le stragi nei campi di Sabra e Chatyla crocevia del terrorismo contemporaneo sono li a dimostrarlo. Il terrorismo non è figlio della povertà e dell'ingiustizia, ma si alimenta, della disperazione da esse prodotta: intervenire politicamente su tali situazioni è non solo un gesto di equità ma anche il più efficace strumento per vincerlo.

Ma che fare, ora? Rassegnarsi alla barbarie in attesa di un mondo migliore incerto e lontano? E, intanto, lasciare che sia impunemente ucciso un numero crescente di innocenti? Certamente nò. Una risposta al terrorismo è necessaria e urgente non solo sul piano politico, ma anche su quello repressivo. Essa però deve avere in sé i germi della giustizia e della pacificazione anziché quelli dell'antico "occhio per occhio, dente per dente". In alternativa alla guerra o, forse, per renderla più accettabile  molti hanno parlato, in questi giorni, di operazione di "polizia internazionale". Il termine ha, anche per l'uso incongruo che ne è stato fatto nel recente passato, rilevanti margini di ambiguità ma, nella parte in cui è accettabile, indica la sola risposta possibile. Un'operazione di polizia, diretta ad accertare e punire i responsabili di crimini internazionali, non può essere affidata ad una delle parti (e, a maggior ragione, a chi è vittima del delitto): essa compete all'Onu, in questa crisi ancora una volta emarginato e indebolito. Non è un fatto formale ma una questione sostanziale, gravida di conseguenze anche sui modi dell'operazione, sulle forze in essa coinvolte, sulla possibilità di ottenere un consenso internazionale reale e non contingente. Può sembrare utopia, ma è l'unica strada realistica e, a lungo termine, efficace. Altrimenti, quale che sia l'esito della guerra (non è certo questo il punto in dubbio. ..) si invereranno, ancora una volta, le dolenti parole di Arthur Rimbaud: «Questo veleno ci resterà in ogni vena anche quando, dopo che la fanfara avrà girato, saremo restituiti all'antica disarmonia».


IL PAESE DEI BALOCCHI

Isolamento, distruzione, altissima incidenza di morte e malattia, quattro milioni di profughi. L’offensiva dell'Occidente contro il terrorismo islamista è cominciata da un paese già stremato.

Qualcuno ha avuto il tempo di telefonare alle famiglie per un estremo, straziante addio. Qualcuno non si è accorto di nulla. Qualcuno è riuscito a scappare. Molti, troppi, no. Impiegati, brokers, turisti, ragazzi al primo lavoro, bambini in braccio ai genitori, camerieri, uomini e donne delle pulizie che avevano appena tirato a lucido vetrate e pavimenti che da li a poco sarebbero andati in briciole. E poi tanti pompieri, corsi al sacrificio. Una babele di razze e di popoli erano insieme nelle Torri Gemelle ed hanno i loro missing da piangere: americani, italiani, cinesi, giapponesi, indiani, pakistani, russi, tedeschi e inglesi. Implacabili e precisi come missili intelligenti", gli aerei sono piovuti dal cielo, nella pancia altri innocenti immolati alla follia umana. Ed è stata l'apocalisse. E così ora New York ha le sue cicatrici profonde e le sue macerie. Come Mostar, come Sarajevo. O come Kabul.

 

Un atto di guerra o di terrorismo, una rivolta dei poveri contro l'Occidente? E chi è il nemico, chi sono i buoni e chi i cattivi?

«II nostro nemico» ha precisato Bush, «è una rete estremista di terroristi e sono nostri nemici tutti gli Stati che li appoggiano». Ha detto una ragazza in lacrime, intervistata dalla CNN mentre attaccava la foto della sorella scomparsa nel "muro del pianto" di Union Square: «Io non ne sapevo niente, non sapevo nulla di Afghanistan e di Bin Laden. Forse avrei dovuto informarmi. Ma tutto quello che succedeva fuori dagli Stati Uniti mi sembrava poco importante». E Saul Bellow, premio Nobel per la letteratura, ha commentato in un'intervista al «Corriere della Sera»: «Credo che gli americani debbano iniziare a pensare più seriamente alla propria posizione e al proprio ruolo nel mondo. Gli Stati Uniti sono un enorme paese dei balocchi abitato da viziati che si illudono di poter continuare a giocare per sempre. L’americano oggi vive per comprare, usare e gettare via perché questo è l'obbiettivo esistenziale fissato per lui dalla società. Ma una società non può prosperare su fondamenta del genere. Spero che il tono generale nel Paese si faccia più serio, dopo questa catastrofe, inducendo la gente a interessarsi dei problemi reali».

Il presidente Bush, durante la sua campagna elettorale, aveva promesso agli americani che si sarebbe occupato più dei problemi della sua America che di quelli del resto del mondo. Ora, come Kennedy durante la crisi di Cuba, ha di nuovo in pugno le sorti del mondo, un mondo che forse, ma speriamo che non sia così, comincia a conoscere solo adesso.

Nove giorni dopo la strage delle Twin Towers, ha annunciato la nuova guerra, (in un primo tempo battezzata "Giustizia infinita", una vera gaffe perché così gli islamici definiscono Allah). Non «una corsa a scatto», come fu la guerra nel Golfo, ma «una maratona» che, come promette il ministro della difesa americano Donald Rumsfeld, impegnerà per un periodo lungo e imprecisabile centinaia di mezzi e di armi (senza l'esclusione pregiudiziale di quelle atomiche) e decine di migliaia di soldati.

La "maratona" è partita il 7 ottobre dall'Afghanistan. Qui si è nascosto Osama bin Laden, il principale indiziato della strage. Il Pakistan li vicino è una polveriera. Il Pakistan dai due volti, che da cinque anni sostiene, arma e protegge il regime talebano di Kabul, ma che ora si è schierato al fianco degli Stati Uniti. E poi ancora, li intorno, altri Stati pronti ad esplodere: il Tajikistan, l'Uzbekistan. E un po' più in là la Cecenia, da sempre solidale con gli integralIsti afghani. Il primo atto, scena prima, dell' operazione "Libertà duratura" così è stata ribattezzata si apre in quest'intricato scenario.

 

UNA CITTA' RASA AL SUOLO

Dall'Afghanistan se ne sono dovuti andare i membri stranieri di tutte le ONG e i giornalisti della CNN. Se ne è andato, e questo è stato senz'altro un segnale più significativo degli altri, anche Alberto Cairo, fisioterapista della Croce Rossa Internazionale, a Kabul da tredici anni, padre del centro ortopedico che ha "ridato" le gambe e gli arti a migliaia di afghani che le avevano perse a causa della guerra, ma anche di tutte le altre sventure che per vari motivi in Afghanistan hanno un'incidenza maggiore che altrove: incidenti sul lavoro o stradali, malformazioni congenite, malattie. Gli unici stranieri rimasti sono i volontari di Shelter Now International, l'organizzazione cristiana tedesca di cui fanno parte gli otto operatori arrestati dai talebani con l'accusa di fare proselitismo.

Già prima che cominciassero i lanci di missili e i raid aerei l'Afghanistan era un Paese isolato. A Kabul e in altre città molti abitanti erano fuggiti o avevano mandato verso i confini pakistani moglie e figli. Si dice che anche i talebani lo abbiano fatto. D'altro canto chi ha soldi e conti in banca non ha difficoltà ad essere accolto ovunque.

Kabul ha assunto da anni la fisionomia di uno straziato presepe natalizio, con i pastori che spingono le capre nei recinti, bambini in groppa agli asinelli. La parte del commercio e del potere si sviluppa a 1800 metri, ai piedi delle colline da cui, per oltre vent'anni, artiglierie di vari eserciti, bande o ribelli hanno tenuto sotto tiro la città, ucciso e mutilato i suoi abitanti. Lungo i diversi fronti che si aprivano per la conquista della capitale, non c'è una casa, di quelle miracolosamente rimaste in piedi, che non rechi le cicatrici profonde di quegli scontri. Sembra impossibile che la gente abiti ancora qui, in mezzo a queste rovine in cui mancano luce e acqua potabile ma in compenso abbondano, nascoste tra le macerie, le mine anti-uomo.

I ministeri e la residenza di Mulah Omar, leader supremo dei talebani, sono nel centro di Kabul. Obiettivi strategici nel mezzo dell'area più popolata della città, con i suoi bazar, il suo brulicare di gente che fino a due mesi fa cercava in qualche modo di sopravvivere.

«In questi anni di guerra è stato distrutto tutto. In Afghanistan non è rimasto più nulla da colpire. Non acquedotti, non ponti, non industrie» ci ha detto Abdul Qadeer, che ha un mini market nella Chicken Street, un tempo, prima dell'occupazione sovietica, la via preferita da turisti e hippies occidentali. «La ricchezza del nostro paese è nella sua posizione geografica, il più facile accesso dall'Europa al Pakistan e all'India. Da qui interessi internazionali vogliono che passino gasdotti e oleodotti. La storia si ripete: nei secoli scorsi, gli afghani morivano nelle guerre per il controllo della via della seta e delle spezie, ora in quelle per il controllo del passaggio del petrolio dall'est all'ovest».

 

I BUDDHA E IL MASSACRO

Con la jeep della Halo Trust, un'organizzazione umanitaria scozzese che si occupa di liberare i campi dalle mine, nel luglio scorso avevamo guadato torrenti per raggiungere le aree da sminare, sulla linea dei fronte di Bamyan, a circa 80 chilometri da Kabul, dove sono stati distrutti i Buddha scolpiti nella roccia. In questa provincia abitano gli hazara, una popolazione di religione sciita, perseguitata dai talebani, musulmani sanniti di etnia pashtu.

«Mentre il mondo inorridiva per la distruzione delle statue, circa 300 hazara venivano massacrati dai talebani nel silenzio della stampa internazionale» accusa Mariani di Rawa, l'Associazione rivoluzionaria delle donne afghane.

La nostra jeep si ferma su un altopiano spazzato dal vento. Poco più a nord c'è il fronte, demarcato da colline raggiungibili solo a piedi o a cavallo di asini e muli. «Ogni monte dell'Hindu Kush ha un suo "shah", un suo re, che parla un suo dialetto, controlla e conosce ogni pietra del suo territorio. Lui e la sua gente sanno dove ci si può nascondere e da dove si può colpire. Sono questi gruppi tríbali, oltre duecento, che hanno sempre decretato la sconfitta di tutti gli eserciti. Le loro rivalità hanno reso difficile il governo di questa nazione» spiega Akthar Dawan, afghano, ufficiale capo dell'Halo Trust. Mentre torniamo verso Kabul, ci insegna a riconoscere dai volti e dai vestiti l'etnia dei mercanti dei bazaar: turkmeni, uzbeki, nomadi kuci, beluci, cafiri. E poi i tagild del mitico Alimed Shah Massud, il ribelle nemico numero uno dei talebani, assassinato in un attentato, forse organizzato da Osama bin Laden, due giorni prima dell'attacco alle Torri di New York.

«Per secoli il nostro paese è stato come il greto di un fiume entro il quale affluivano come torrenti popoli e genti da tutte le parti d'Europa e dell'Asia» dice Akthar. «Gli hazara discendono dai soldati mongoli di Gengis Khan, i pashtu erano ebrei che si stabilirono nel sud dell'Afghanistan ai tempi di Babilonia. Fu un loro capo spirituale a conver­tirli all'Islam dopo il suo incon­tro con Maometto. Si chiamava huraul Qais, ma il profeta gli

diede il nome di Abdur Rashid e lo nominò "malik", re. Alcuni di noi hanno sangue ariano, altri greco o arabo. UMghanistan non è un paese, è una Babele di razze». Nella jeep, Akthar ha diversi tipi di mine disarmate. «Le mostro ai bambini per metterli in guardia. Il paese ne è pieno e ora lo sarà ancora di più».

Mine, un territorio ostile, tribù locali. 19 in questo scenario, torrido d'estate e gelido d'inverno, che dovranno muoversi i marines e i loro alleati per stanare bin Laden. Intanto un milione di afghani sta cercando di scappare verso il Pakistan, dove si aggiungeranno agli altri tre milioni di profughi. Forse andranno nel campo Jalozai, vicino a Peshawar. E nato un anno fa. Ora conta oltre duecentomila rifugiati. Ci sono poche latrine, non c'è elettricità, l'acqua è distribuita da Medici Senza Frontiere, manca cibo. E’ un inferno. Ma è meglio della guerra.


L'ENIGMA DELL'OPPIO

Perché un editto ha proibito in Afghanistan la coltivazione della droga, fonte di ricchezza dei terrorismo islarnista? Resoconto di una vicenda che coinvolge l'Onu e i talebani, ma anche contadini, misteriosi acquirenti e ingenti scorte di oppio...

Era fine di luglio quando percorriamo la strada non asfaltata che da Kabul ci porta a Jalalabad, 146 chilometri ad est, verso i confini con il Pakistan. Il tracciato si snoda lungo il greto del fiume Kabul, affluente dell'Indo. La nostra jeep, messa a disposizione con due talebani di scorta dall'Afghan Tour Department «per facilitare il nostro lavoro di giornalisti», impiega circa cinque ore per giungere a destinazione. Il sole ha reso dura la terra di Jalalabad. Da mesi non piove e i canaletti per l'irrigazione sono asciutti. Ma i contadini sono comunque al lavoro. spaccano le zolle e le smuovono perché la terra sia pronta ad accogliere i semi. Semi di grano. Se tutto andrà bene, se Allah vorrà e manderà un po' di pioggia, forse sarà esaudita la preghiera di Malek Abdullah Kudus, sessant'anni, capo del villaggio Sultan Pur. «Ogni sera da mesi, mi inginocchio e chiedo che la gente di Jalalabad e delle aree rurali come quella in cui vivo io smetta di andarsene : Finché coltivavamo i papaveri da oppio si poteva vivere bene e, con quello che si riusciva a mettere da parte, sopravvivere perfino alla siccità. Ma ora che la coltivazione del papavero è stata proibita dai talebani non c'è abbastanza per tirare avanti. Oltre il dieci per cento della popolazione ha già lasciato queste terre. Molti sono andati in Pakistan o in Iran. Fra un po' non rimarrà nessuno. Io prego Allah. Ma credo che sia la comunità internazionale a doversi occupare del nostro problema. far si che la terra possa tornare a darci da vivere. Abbiamo bisogno di semi di qualità, forti e resistenti, pompe per tirar su l'acqua dal sottosuolo e farla correre nei canali».

  papavero al bando

Aprile è sempre stato un mese gioioso per i contadini afghani, il mese dell'abbondanza in cui si raccolgono i frutti del lavoro di un anno. Anche nell'aprile del 2000 tutto era pronto per la grande festa. I campi erano coloratissimi, pieni di papaveri da oppio. Da Kabul sono arrivati i trattori con il compito di distruggere tutte le coltivazioni di droga del paese. Sotto gli occhi di Bernard Frahi, responsabile per l'Afghanistan e il Pakistan dell'UNDCP, l'organismo delle Nazioni Unite preposto alla lotta contro la droga, i mezzi meccanici sono passati avanti e indietro sopra i papaveri e hanno sradicato i fiori della morte destinati all'Occidente.

«Dai controlli che abbiamo ultimato lo scorso luglio» dice Bernard Frahi, «possiamo dire con assoluta certezza che non vi sono più coltivazioni di oppio nell'Afghanistan talebano. Il 27 luglio del 2000 Mullah Mohammed Omar, leader supremo dei talebani, aveva emanato un decreto che imponeva il divieto di coltivare papavero da oppio in tutto il paese. In un anno il lavoro è stato portato a termine. Dobbiamo ammettere che, nonostante un iniziale scetticismo da parte della comunità internazionale, il divieto è stato rispettato, senza per altro che vi siano stati episodi di violenza nei riguardi dei contadini. In tutto il paese solo una trentina di loro sono stati arrestati, a fronte di circa 600mila persone che lavoravano nei campi di oppio. Gli arrestati sono stati per altro rilasciati quasi subito. Devo anche dire che Abdul Hamid Akhundzada, capo dell'Alto Commissariato talebano per il controllo della droga, è stato molto disponibile ed ha agevolato i nostri controlli sul territorio afghano».

Alla fine degli anni Novanta e fino al decreto del leader talebano, in Afghanistan veniva raccolto il 70% dell'oppio distribuito poi in tutto il mondo. Fino al 90% dell'eroina smerciata in Europa proveniva dai campi afghani attraverso la rotta balcanica (Afghanistan, Iran, Turchia, Stati balcanici) o, più recentemente, attraverso la rotta alternativa Asia Centrale Russia. Nel 1999 il valore stimato della produzione di oppio per i contadini afghani era di circa 600 miliardi di lire, che facevano entrare nelle casse talebane, solo sotto forma di tasse, circa 200 miliardi. Nel settembre 1999 un decreto emanato dal leader talebano aveva già imposto una prima graduale riduzione, e gli ettari coltivati erano diventati da 92mila a 30mila. Alla luce di questi dati, bisogna riconoscere che il governo talebano ha raggiunto un obbiettivo che in altre parti del mondo è stato fallito o raggiunto in tempi più lunghi e con investimenti molto più cospicui.

 

costretti a vendere

In luglio, il capo villaggio Malek Abdullah Kudus ci invitava a portare la sua richiesta d'aiuto fuori dall'Afghanistan isolato, E cosi facevano anche gli altri contadini. «Noi abbiamo fatto il nostro dovere. Abbiamo ubbidito alla nostra legge per il bene di tutti, soprattutto di voi occidentali» ci ha detto il nipote Mokhtar, ventidue anni. «Ma sapete quello che sta succedendo ora, senza aiuti da parte di nessuno? I contadini non riescono a pagare il mutuo con il quale avevano comprato la terra. Come avrete visto, da queste parti girano persone a bordo di jeep molto costose. Si fermano davanti alle nostre case e ci fanno offerte per comprare la nostra terra. Mio padre non vuole vendere e nemmeno mio nonno. Ma io guardo al futuro e a quello del mio bambino. Con il grano si guadagna meno di un terzo che con l'oppio. E c'è sempre la minaccia della siccità. Per sfamare un bambino che piange non si possono aspettare i tempi migliori. Se fosse per me venderci subito e me ne andrei in Pakistan. Solo i ricchi possono fare le speculazioni. Comprano adesso la terra che è secca e non vale niente. E aspettano. Aspettano lal me, l'irrigazione che piove dal cielo. E aspettano che si riprenda la coltivazione dei papaveri. Se non arriveranno in fretta gli aiuti internazionali è solo questione di tempo, inevitabile come il levar del sole: nei campi torneranno a crescere i fiori. Ma per i contadini sarà troppo tardi. Saranno quelli che ora girano con le jeep da decine di milioni a mietere l'oro».

Quando abbiamo incontrato i contadini di Jalalabad nessuno avrebbe potuto prevedere quello che di li a poco sarebbe successo a New York. Con quale chiave di lettura possiamo ora rileggere e interpretare lo sradicamento dei papaveri da oppio in Afghanistan?

Vi sono alcuni lati oscuri circa l'operazione messa a punto dai talebani. La prima domanda riguarda la fine che hanno fatto i magazzini con le scorte di oppio. I talebani dicono che tutto l'oppio è stato bruciato, ma la cosa sembra poco credibile. Per molti la droga è nelle mani di bin Laden, dei talebani o di loro sostenitori. Il valore dell'oppio dopo lo sradicamento dei papaveri era notevolmente aumentato (solo nel vicino Pakistan il costo di oppio ed eroina in luglio era già triplicato). Ora, con una nuova guerra da combattere e con la fuga dei profughi, il prezzo dell'oppio sul mercato pakistano è sceso nuovamente. 1 contadini afghani usavano l'oppio come forma di risparmio, sotterrandolo per tirarlo fuori in momenti d'emergenza. Il momento è arrivato: per entrare in Pakistan i nuovi profughi lo svendono al primo offerente. Ma non è stato certo questo a far calare il prezzo dell'oppio. La causa è piuttosto nello stretto legame tra i "signori della droga" e quelli della guerra: in questo momento in Afghanistan servono soldi per comprare armi. E quale migliore moneta sonante dei quintali di oppio contenuti nei magazzini?

 

ma chi è l'aquirente?

Un'altra questione riguarda il traffico di droga attraverso il paese. Non vi sono dati e i talebani si sono dichiarati impotenti a combattere da soli il traffico internazionale di droga. La grave crisi in corso nel paese può comunque indurre i trafficanti a scegliere rotte meno pericolose: quella sud, dal Pakistan all'Iran o quella nord, attraverso le repubbliche dell'Asia Centrale. Ma forse la questione più inquietante riguarda le terre svendute dai contadini afghani. Chi le ha acquistate? Da che parte stanno questi nuovi latifondisti? Dalla parte dei talebani o da quella dell'opposizione, nella speranza che i nuovi governanti siano più tolleranti nei riguardi dei coltivatori di oppio? Che legami hanno con bin Laden, con le mafie internazionali, con i terroristi? E ancora: lo sradicamento delle coltivazioni ha aVuto una qualche attinenza con quello che è successo a New York? Potrebbero terroristi legati al traffico di droga aver organizzato la strage delle Torri Gemelle per decretare la fine del governo ‑ talebano e di chiunque si opponga ad un commercio tanto redditizio o per spingere i talebani, come peraltro ora hanno già dichiarato, a consentire nuovamente la coltivazione del papavero? D'altro canto, fanno notare a Kabul, nella parte settentrionale del paese controllata dall'Alleanza del Nord i campi non sono mai stati sradicati e l'oppio ha continuato a finanziare la rivolta dei mujaheddin.

P, fuor di dubbio ‑ tornando alla guerra ‑ che la forza militare afghana non sarà in grado di competere con gli americani. A livello di armamenti i talebani possono contare su 200 carri T55, altrettanti blindati, circa 600 pezzi d'artiglieria, un imprecisato ma limitato numero di Mig 21, Sv 22 e L39, 350 cannoni e alcuni missili contraerei leggeri. Si dice che Saddam Hussein li abbia riforniti di Scud con testate chimiche, ma, anche fosse vero, non è certo questo che può fare la differenza. A livello di esercito dispongono di circa 50mila militari. Tra questi vi sono anche due brigate regolari dell'esercito pakistano impegnate nel fronte nord a combattere contro i mujaheddin (si dice circa 8.000 uomini, ma c'è chi sostiene che in realtà siano molti di più). Con loro anche una brigata di Al Qaeda, di cui è leader supremo Osama bin Laden,

Sulla carta, insomma, la vittoria degli americani dovrebbe essere facilissima. Ma quella che si può combattere in Afghanistan non è una guerra, è una guerriglia. E in questo caso i mezzi e le tecnologie a disposizione contano poco, mentre conta molto la conoscenza del territorio e le alleanze con i movimenti e i gruppi tribali che lo abitano.

 

IL "VOLGARE" MUSHARAFF

«Provate a fare questo ragionamento. Taleban significa studenti. Le madrassah, le università coraniche in cui hanno studiato, si trovano in Pakistan. Ma nelle scuole religiose non s'insegna a guidare i carri armati o i caccia, non si insegna a sparare» dice Sanai, afghano tagiko come Massud, che ammirava molto. «L'esercito talebano è in buona parte composto da pakistani. Fino a qualche tempo fa, a capo dei servizi segreti pakistani (ISI) c'era il generale Hamid Gul. Per anni ha fatto la spola tra Islamabad e Kabul. 2 stato lui ad organizzare i loro servizi, lui era il collegamento diretto tra il governo del Pakistan e quello di Kabul. Molti lo hanno detto: dietro la strage di New York deve esserci almeno un paese con i suoi servizi segreti. Io non ho dubbi: si tratta del Pakistan. Nei giorni scorsi, nelle strade di Peshawar, Islamabad e Karachi, erano all'ordine del giorno le manifestazione in appoggio dei talebani, contro l'intervento americano. A guidare le proteste erano spesso i mullah, i capi spirituali delle moschee. Tutti pakistani pashtu, come i talebani. Guardando la televisione sembrava che tutti gli afghani in Pakistan appoggiassero i talebani. In realtà i rifugiati hanno appoggiano i mujaheddin di Massud, ma soprattutto, come faccio anch'io, auspicano il ritorno del re Zahir, dal 1973 in esilio a Roma. Nei campi profughi i pakistani hanno messo i talebani a controllare la gente, ad imporre alle donne il burqa. La ragione ufficiale è che si vuole facilitare il loro ritorno in Afghanistan. Ma la ragione vera è il controllo politico».

Sanai esprime il pensiero di molti afghani rifugiati in Pakistan. Forse, come spesso capita a chi si sente discriminato, tende ad identificare il male con chi gli impedisce di integrarsi. Ma è vero che il governo del generale Musharaff («significa "nobile", ma noi lo chiamiamo Bisharaff, che vuol dire "volgare"» dice Sanai) ha sempre represso tutte le manifestazioni contrarie ai talebani, anche quelle della Rawa, l'Associazione rivoluzionaria delle donne afghane.

 

LIBRI, NON ARMI

Per incontrare Mariam, responsabile delle relazioni esterne di Rawa, abbiamo dovuto prendere un appuntamento nella hall del nostro albergo a Islamabad. L’organizzazione non ha una sede fissa e le relazione esterne vengono tenute attraverso un cellulare.

E’ innegabile la responsabilità che il Pakistan ha avuto in questi cinque anni di regime talebano. Non ci è stato facile lavorare in questo paese anche se il nostro è un movimento pacifista. Noi vogliamo che l'Afghanistan si liberi da tutti i fondamentalismi, sia quello del regime talebano, ma anche quello dei mujaheddín. Temo che invece ora i mujaheddin riceveranno molti finanziamenti e armi. Il mondo guarda a loro come alleati indispensabili per liberare l'Afghanistan dagli integralisti e il mondo dai terroristi. Massud era un personaggio molto intelligente, aveva un grande appeal sugli intellettuali europei. Ma noi afghani non possiamo dimenticare quello che ha fatto a Kabul e nel paese. Si è saputo vendere bene, si è presentato come un democratico, ma in realtà era un fondamentalista e così è ora il suo successore. Purtroppo in Afghanistan non vi sono movimenti di opposizione ben organizzati, anche perché non riescono a trovare finanziamenti. Ci sono gruppi pacifisti che però hanno molta difficoltà a mettersi in contatto tra loro. E i gruppi tribali combattono ognuno per propri interessi. Rawa è un gruppo pacifista. Siamo sempre state vicine al nostro popolo portando aiuti umanitari e libri. Molti ci chiedevano armi, noi abbiamo sempre risposto che non era quello il nostro metodo di lotta».

«An eye for an eye leaves the whole world blind» (occhio per occhio rende il mondo intero cieco), diceva il mahatma Gandhi. Ma in tempi in cui rullano i tamburi di guerra i soldi non si fanno con la vendita di occhiali, ma di mitra. Il mondo si riarma. E qualche titolo in borsa avrà un rialzo. E' mostruoso pensarlo, ma forse anche i dannati della terra che hanno distratto le vite di migliaia di persone una tiepida mattina di settembre si stanno sfregando le mani.

 

Noi abbiamo fatto il nostro dovere

Intervista ad Abdull Hamid Akhundzodo

Non riesce a nascondere l'orgoglio per il lavoro svolto dal suo dipartimento, Abul Hamid Akhundzada, responsabile dell'Alto commissariato dell'Emirato dell'Afghanistan per il controllo della droga. Alle pareti dei suo ufficio sono appese le foto che raccontano le varie fasi dei successo: i trattori che calpestano i papaveri, i contadini che seminano il grano, i talebaní che proteggono i nuovi raccolti, la mietitura. Prove inconfutabili dei completo sradicamento di tutte le coltivazioni di papavero da oppio nell'Afghanistan sotto il controllo talebano (il 90 per cento dei paese).

«Vi erano circa 8.000 villaggi coinvolti nella coltivazione di droga» dice Akhundzada. «Ora, come le Nazioni Unite hanno avuto modo di verificare, in Afghanistan non vi è più un solo campo di oppio. Noi abbiamo fatto bene il nostro dovere. La legge coranica proibisce la coltivazione e l'uso delle droghe. Ora tocca alla comunità internazionale fare il resto, come vuole l'articolo 14 della convenzione internazionale sulle droghe, dove si dice che i paesi che lottano contro la droga devono essere aiutati, tecnicamente ed economicamente, dalla comunità internazionale. Per ora nessuno ci ha dato una mano per aiutare i contadini e per combattere il traffico di droga che ancora passa dal nostro territorio, lungo i confini. Non abbiamo personale preparato per scoprire la droga, non abbiamo radio, né elicotteri. Se le Nazioni Unite davvero vogliono mettere fine al traffico dì stupefacenti devono collaborare. Noi siamo riusciti a catturare alcuni trafficanti. Nella provincia di Kanclahar abbiamo appena sequestrato un carico di 2.000 chili di oppio. Ma la lotta al crimine organizzato non può essere fatta senza un coordinamento internazionale». Abdul Hamid Akhundzada è reticente circa la sorte dei trafficanti arrestati. «E la corte suprema a stabilire le pene in base alla sbaria, la legge islamica. Ma catturare i capi dell'organizzazione non è facile. Hanno i soldi, il potere e le coperture internazionali. Come potete vedere nelle foto, la droga sequestrata viene immediatamente bruciata, sul luogo stesso dove è stata trovato. Il problema dei magazzini pieni di oppio è reale. La maggior parte si trovano lungo i confini, soprattutto vicino alle aree controllate dall'opposizione. L'opposizione continua a coltivare il papavero. Con i proventi della droga compra le armi per combattere contro di noi. lo sono d'accordo ad avviare una collaborazione con l'Interpol, in accordo con il nostro ministero degli Interni, così come abbiamo fatto con VUNDCP. Ma deve essere chiara una cosa: il nemico comune deve essere la droga, non il governo talebano. L’Interpol deve intervenire anche nei territori controllati dall'opposizione. Per quello che riguarda gli stock di oppio vi sono solo tre possibili soluzioni. la prima è trovare i magazziní, prenderli con la forza e bruciare la droga. ~ una buona soluzione, ma richiede un grande dispendio di soldi, di uomini. E poi, vista la collocazione degli stockpile, spesso sulle linee dei fronte, si rischiano scontri armati. La seconda è comprare la droga con i soldi della comunità internazionale e poi bruciarla. Ma Bernard Frahi ha già dichiarato che non accetta questa soluzione. La terza è permettere alle industrie farmaceutiche di comprarne una quota per uso medicinale. Di certo l'Afghanistan da solo non può sostenere la lotta al traffico internazionale di stupefacenti».

 

 

... ma l'ONU non può comprare la droga

Intervista a Bernard Frahi

  L'ufficio dell'UNDCP per l'Afghonistan e il Pakistan si trova all'undicesimo piano della Saudi Pak Tower a Islarnabad. «Non importa cosa si pensi di loro. Bisogna ammetterlo: i talebani hanno fatto un ottimo lavoro e così ora l'Afghanistan, che era il principale fornitore di oppio dei mondo, può essere dichiarato poppy free, libero dal papavero» spiega Bernard Frahi, responsabile locale dell'UNDCP, l'organismo delle Nazioni Unite preposto alla lotta contro la droga. «La coltivazione continua nei territori in mano all'opposizione, ma comunque la produzione è crollata. In Afghanistan si è riusciti nell'impresa in un anno con un nostro finanziamento di circa 22 miliardi di lire, mentre in Pakistan ci sono voluti 15 anni e quasi 600 miliardi per arrivare agli stessi risultati il Pakistan è poppy free dal 1999. Agli inizi di luglio sono stati stanziati oltre 3 miliardi di lire per fornire i contadini delle sementi necessarie. Ma si deve fare fretta perché fra poco dovrebbe cominciare la semina. I contadini che coltivavano oppio non erano criminali, ma gente comune che usava l'oppio come moneta per pagare l'acquisto di altri prodotti. Ogni famiglia nascondeva sotto terra l'oppio che era riuscita a risparmiare. E l'oppio serviva per pagare le spese per i matrimoni o per le emergenze. Ci sono poi in diverse aree dei paese magazzini pieni di oppio. In relazione alla proposte fatte dai talebani bisogna essere chiari: l’UNDCP non può comprare oppio da nessuno Stato o individuo. E riguardo all'utilìzzo dell'oppio afghano per la produzione di medicinali legali bisogna dire che l'International Narcotics Control Boord (INCB) ha dato il permesso per la coltivazione dell'oppio per l'utilizzo in campo medico solo ad alcune nazioni. Non si prevedono attualmente altre concessioni di questo tipo perché l'utilizzo di queste sostanze è molto limitato».


passaggio obbligato

Cerniera tra Europa e Cina, il Taglkistan occupa una posizione strategica nella polveriera centroasiatica. Ma i colossali investimenti dell'Occidente rischiano di finire in mano alle mafie.

Parte di quell'Asia dove, in un costante ridefinirsi di assetti politico-economici, ci si contende il controllo delle vie che da Oriente portano in Europa droga, armi e clandestini, il Tagikistan è un paese martoriato da decenni da una guerra civile. Un conflitto di cui in Europa arrivano echi lontani solo quando accadono eventi clamorosi, come l'uccisione, l'11 aprile scorso, di Habib Sanginov, vice ministro degli Interni, o gli assassini, le sparizioni, i rapimenti di cittadini stranieri appartenenti ad organizzazioni umanitarie (nel 1998 quattro inviati dell'ONU perirono in un attentato). Ma questa guerra silenziosa è già costata oltre 50mila morti in un paese che non raggiunge i 6 milioni di abitanti. Una vera e propria decimazione che continua nonostante la guerra civile scoppiata nel 1992 si sia ufficialmente conclusa nel 1997 con un accordo tra il presidente lmomali Rakhmanov e il leader dell'opposizione islamica Sayd Abdullo Nuri.

 

egemonia in pericolo

Il paese è un reticolato di confini invalicabili: vi sono quelli geografici con gli Stati limitrofi, ma vi sono anche zone off-limits in mano a clan locali o a mafie che gestiscono i traffici illegali. La linea M-41 che dovrebbe unire la capitale Dushanbe con i monti del Pamir e che corre parallela ai confini afghani è in realtà impraticabile già pochi chilometri a est della capitale. Ai cheek point, i militari non lasciano passare quasi mai i civili: regolarmente la strada viene minata per scoraggiare gli attacchi dei fondamentalisti islamici filotalebani, esclusi dal governo.

Proprio per queste sue caratteristiche il Tagikistan è diventato il territorio privilegiato per i campi di addestramento delle milizie paramilitari e dei terroristi che agiscono in Asia Centrale e nel Caucaso. Paradossalmente si addestrano qui sia i talebani afghani, sia i loro nemici giurati, l'esercito dei mujaheddin, guidato fino al 9 settembre dal tagiko Ahmed Shah Massoud ed ora da Mukhammad Fakhim.

Per l'Europa e gli Stati Uniti il Tagikistan ha un'importanza strategica fondamentale. Nel maggio 1993 a Bruxelles fu proposta la realizzazione, sulle tracce dell'antica via della seta, del TRACECA (corrìdoio per i trasporti Europa-Caucaso-Asia), prolungamento in Asia Centrale dei corridoi transeuropei già all'origine di scontri, diplomatici e non, nell'area balcanica. La "Nuova via della seta" avrebbe dovuto unire l'Europa a Pechino. Gli Stati dell'Asia Centrale coinvolti nella costruzione di questo corridoio di comunicazioni (gasdotti, autostrade, reti ferroviarie, metanodotti, cavi per fibre ottiche, terminal per container) coprono infatti un'area immensa, tra l'Armenia e la Mongolia, l'Ucraina e il Tagikistan.

Sia la UE che gli Stati Uniti hanno dato via ai primi investimenti per trasformare il progetto in realtà. Attraverso il Caspian Sea Energy Development Project, l'Europa ha già investito 170 miliardi di lire nella regione, procurato investimenti per 700 miliardi per la costruzione di strade e destinato oltre 25 mila miliardi per lo sfruttamento di risorse energetiche.

Il progetto, però, infastidisce i russi, che non vedono di buon occhio la creazione di una via alternativa alla Transiberiana e alla Transmongolica per il trasporto di materiali e persone dalla Cina all'Europa. Ai tempi dell'impero sovietico, tutte le strade principali delle ex-repubbliche portavano a Mosca. Non era raro che per parlare telefonicamente da due capitali si dovesse utilizzare il centralino della capitale. Un progetto di questo genere rischia di compromettere l'egemonia russa sulla regione.

 

CASPIO, IL MARE CONTESO

  Nessuno ne parla, ma da anni è in corso una disputa per il controllo del Mar Caspio, dal quale passa il progetto di un megaoleodotto in grado di attraversare l'Afghanistan sino all'Oceano Indiano. I vertici politici dell'Azerbaijian e del Turkmenistan si sono ripetutamente incontrati la primavera scorsa per spartirsi uno fetta dei Caspio, ma l'Iran, uno dei paesi che si affaccia sul mare, ha subito chiarito che non avrebbe accettato alcun accordo bilaterale. «Nessuna divisione del Caspio sarà legale senza la partecipazione degli Stati costieri» ha detto Khamenei.

E’ in ballo anche la proprietà dei pozzi di petrolio che si trovano proprio nel mezzo del mare, rivendicati dai cinque Stati costieri: Russia, Azerbaijan, Kazakistan, Turkmenistan e Iran.

La proposta russa prevede che le acque del mare siano gestite in modo comunitario (Mosca pensa ovviamente che il suo controllo sulle tre ex repubbliche sovietiche non sia un problema). E se questa tesi è sostenuta da Kazakistan e Azerbaijan, l'Iran preferisce una divisione condominiale sia della costa che delle acque e assegna a se stessa una quota dei 20 per cento. Gli altri Stati obbiettano che la costa iraniana corrisponde soltanto al 13 per cento dei perimetro del Caspio. Ma gli iraniani controbattono che in realtà a loro spetterebbe il controllo dei 50 per cento dei mare, in base ad accordi presi nel passato con l'Unione Sovietica: se si accontentano di meno è per evitare tensioni. Quando si arriverà a un accordo, sul territorio afghano passeranno milioni di litri di petrolio. Un motivo in più per scatenare guerre che sotto insegne etnico-religiose spesso nascondono evidenti interessi economici.


la storia si capovolge

Ma se la TRACECA potrebbe costituire per il Tagikistan e per gli altri Stati dell'Asia Centrale un'occasione di sviluppo, alto è il rischio che il crimine organizzato si appropri dell'appetitoso business. In un paese in cui gli stipendi non vengono pagati per mesi, questo flusso improvviso di commercio e investimenti sta già facendo aumentare il livello della corruzione nell'amministrazione. Inoltre, come sottolineano sia il rapporto del Dipartimento di Stato americano, sia quello francese dell'Observatoire géopolitiques des drogues, il Tagikistan è coinvolto nel traffico e nel passaggio di oppio e di canapa indiana. Le mafie che controllano i traffici hanno già dimostrato di apprezzare il progetto, consapevoli che ogni piano di sviluppo dell'area impone di scendere a patti con loro.

L’Europa sembra fiduciosa sul fatto che portare soldi e benes­sere aiuti lo sviluppo di una democrazia. Ma la storia insegna che anche il miglior progetto studiato a tavolino può produrre effetti di tutt'altro ordine, quando è calato nella vita reale. Ora, dopo l’11 settembre, i russi hanno dichiarato che proprio dal Tagikistan aiuteranno gli americani impegnati nella loro guerra in Afghanistan, Da qui faranno arrivare i finanzia­menti ai mujaheddin dell'Alleanza del Nord. Paradossalmente i nemici di un tempo, quelli che li buttarono fuori dal paese e li umiliarono, diventano ora loro alleati. Tutti insieme per dare la caccia a Osama bin Laden, l'uomo che la Cia utilizzò per far arrivare ai mujaheddin gli Stinger e i finanziamenti da usare contro i russi.

In questa grave crisi mondiale, la Russia di Putin sta giocando la sua carta: il suo esercito ritorna in modo massiccio nelle ex repubbliche sovietiche. L’egemonia di Mosca riprende quota. Anche nella Cecenia musulmana, colpevole di aver da sempre appoggiato il regime dei talebani.

 

cecenia l'irriducibile

Con l'indipendenza dei 1991, la Russia perse il controllo della Cecenia, regione di enorme importanza strategica, ricca di giacimenti di petrolio e di gas naturali, attraversata da oleodotti e gasdotti . Nel 1994 i russi decisero di invaderla, ma le milizie di Basayet, dopo due anni di lotta nella quale persero la vita 100 mila ceceni e diverse migliaio di soldati russi, respinsero gli attacchi costringendo i russi alla resa.

Nel 1999 Putin ritorna in Cecenia con il suo esercito, usando a pretesto l'appoggio dato dai ceceni agli indipendentisti del Daghestan. Anche in questa occasione gli attacchi dei russi sono violentissimi e la capitale Grozny viene quasi rasa al suolo. L’aviazione russa utilizza armi chimiche, mentre le truppe di terra commettono atrocità anche contro la popolazione civile. Si scoprono fosse comuni nelle campagne nei dintorni di Grozny.

Dopo l'attentato di New York, i russi non hanno esitato a ipotizzare un collegamento tra i ribelli ceceni e il terrorismo fondamentalista. «Anche noi, da anni, siamo vittime dei terroristi» ha detto Putin, con chiaro riferimento alla situazione cecena.


OSAMA O FRANKENSTEIN?

 Di lotta armata gli afghani sanno qualcosa. Durante i primi decenni dell'ottocento l'Afghanistan, in conflitto costante con i paesi vicini, fu straziato da una guerra civile tra bande rivali. L'Inghilterra, temendo una minaccia al suo prezioso commercio con il India, intervenne con una serie di azioni sia diplomatiche sia militari che portarono all'occupazione del paese nel 1840 e ancora nel 1878. In entrambe le occasioni gli inglesi furono costretti a ritirarsi, in seguito a una lunga serie di vendette e rappresaglie sanguinose condotte da una feroce guerriglia. Un secolo dopo, neanche la superpotenza militare dell'Unione Sovietica riuscì a domare la tenacia della popolazione afghana durante gli anni di occupazione dal 1979 al 1989, come testimoniano i circa 15mila soldati sovietici rimasti uccisi sul terreno ostile.

Nessuno dubita che la "guerra al terrorismo" degli USA e dei suoi alleati nelle valli e le montagne dell'Afghanistan contro le forze militari dei talebani sarà facile o di breve durata. Se il principale bersaglio, Osama bin Laden, rimane in uno dei suoi rifugi e richiama alle armi i suoi arabi afghani per difendere il suo paese di adozione, sarà bat­taglia dura.

 

ridateci gli stinger

La storia di Osama bin Laden è ormai nota: rampollo di una famiglia miliardaria saudita, guadagna il suo status di guerrigliero quando organizza il reclutamento delle truppe di resistenza isIamica per combattere al fianco dei mujaheddin afghani contro l'occupazione sovietica. Durante gli anni 80, in piena guerra fredda, due sono i nemicì principali dell'Occidente: l'Unione Sovietica e l'Iran, entrambi sospettati di aver finanziato gruppi e atti terroristici. Insieme al Pakistan, paese con una larga maggioranza sunnita (84%), e l'Arabia Saudita, anch'essa sunnita, gli americani vedono con favore una resistenza che si oppone non soltanto al comunismo, ma che funge anche da polo alternativo all'Islam sciita dell'Iran I servizi di sicurezza di tutti i tre i paesi collaborano per appoggiare i mujaheddin. Allora, lontano dal rappresentare il nernico numero uno degli americani, bin Laden e le sue forze ricevettero finanziamenti, armi e anche missili Stinger. Secondo una stima affidabile, l'appoggio americano alla resistenza afghana nel 1989 avrebbe raggiunto i 600 milioni di dollari. Le truppe reclutate da bin Laden e di cui probabilmente dispone tuttora provenivano da tutto il Medio Oriente: Algeria, Egitto, Libia, Marocco, Sudan, Tunisia, Arabia Saudita e Yemen.

Con il ritiro dell'Armata Rossa nel 1989, dopo la fine della guerra fredda e la caduta dell'Unione Sovietica e, soprattutto, dopo la guerra del Golfo, i guerriglieri afghani non servono più agli americani, che rivorrebbero indietro le scorte di missili Stinger. Ma è troppo tardi: i missili sono già impegnati nella guerra civile che segue il ritiro sovietico. Bin Laden ritorna nel suo paese d'origíne, l'Arabia Saudita, ma viene espulso nel 1992 per aver criticato il regime, in particolare la decisione del governo di accettare la presenza di truppe americane in pianta stabile sul suolo arabo. Dal 1993 al 1996 si trova in Sudan dove, rafforzando il proselitismo antiamericano, si prepara ad una nuova jihad, diventando tessitore di nuovi network di fedeli pronti a qualsiasi sacrificio. Ripristina i suoi contatti con gruppi islamici in Egitto, Algeria e nello stesso Sudan, e offre aiuto ai signori della guerra in Somalia per combattere le truppe prevalentamente americane dell'ONU.

 

a scuola di Jiad

Nel febbraio del 1993 si verifica il primo attentato terroristico significativo sul territorio americano: un camion-bomba parcheggiato nel garage del World Trade Center uccide 6 persone e ne ferisce 1000. L’attacco, non è riconducibile a bin Laden, ma gli imputati principali il pakistano Rainzi Youssef e i suoi due complici palestinesi erano stati addestrati nei campi afghani, mentre i figli dello sceicco cieco Omar Abdel Rahman, ritenuto l'ispiratore religioso dell'attacco, combattevano al fianco dei talebani. Appoggiati dal Pakistan e senza alcuna opposizione da parte degli americani, i talebani arrivano al potere nel 1996. Gli Stati Uniti puntano su nuove opportunità economiche, dando il vi alla costruzione di un maxi oleodotto che, attraversando l'Afghanistan, unirà l'Asia centrale al Pakistan.

Nel 1997, sotto forte pressione americana, bin Laden viene espulso dal Sudan e si trasferisce di nuovo in Afghanistan proprio nel momento in cui i taleban rafforzano il loro potere e la natura repressiva del regime, calpestando soprattutto i diritti civili delle donne. Bin Laden diventa amico personale del capo religioso di Kabul, Mulla Moliammed Omar, il quale sposa una figlia del miliardario. I campi di addestramento creati negli anni dell'occupazione sovietica e sparsi nel paese funzionano negli anni 90 coni scuole di guerriglia e di preparazione psicologica per la jihad. Qui vengono addestrati i movimenti islamici sunniti che si oppongono ai governi delle repubbliche asiatiche islamiche dell'Asia centrale come Tagikistan e Uzbekistan, i militanti provenienti dal Kashmir, dalla Cecenia e dal Daghestan, e i fondamentalisti del mondo arabo e sudestasiatico. Oltre al «grande Satana" americano, gli avversari sono Israele, la Russia, l'Iran e il movimento di opposizione afghana, l'Alleanza del Nord, guidato da Alimed Shah Massud, ferito da due finti giornalisti il 9 settembre e morto qualche giorno dopo.

 

dall'Africa alle Twin Towers

Durante la seconda metà degli anni 90 si concretizza l'opposizione degli Stati Uniti all'Afghanistan, in seguito all'aumento delle coltivazioni di oppio, al trattamento sempre più repressivo delle donne e, dal 1997 in poi, all'accoglienza offerta a Osama bin Laden.

Nel febbraio del 1998 bin Laden preannuncia la sua campagna di terrore attraverso una fatwa (direttiva religiosa, ndr.) che viene pubblicata a Londra sul giornale «al Quds-al-Arabi». Nonostante egli non abbia lo status formale di un vero leader spirituale, la fatwa è controfirmata da quattro leader fondamentalisti, due dei quali sono rappresentanti della jihad islamica in Egitto, uno in Pakistan e uno in Bangladesh, La fatwa pronunciata dal cosiddetto "Fronte Mondiale Islamico" dichiara la guerra agli Stati Uniti e chiama i fedeli a «confrontare, combattere e uccidere gli americani e suoi alleati militari e civili» come atto di autodifesa contro l'aggressione delle forze ostili all'Islam. La guerra santa sarebbe giustificata dal complotto cristiano-ebraico che mirerebbe alla totale de-islamizzazione della penisola arabica e dall'occupazione dei luoghi sacri islamici, come la moschea al Aqsa di Gerusalemme. Dalle parole si passa ai fatti: il 7 agosto del 1998 due attacchi contro le ambasciate americane in Tanzania e in Kenia provocano 257 morti e migliaia di feriti, ma la maggior parte delle vittime sono africani molti dei quali di fede islamica. Le azioni, anche se non rivendicate, vengono attribuite all'organizzazione di bin Laden, al Qaeda (la base). La risposta statunitense non tarda ad arrivare: il 20 agosto gli USA bombardano una presunta fabbrica per le armi chimiche in Sudan che poi si rivela essere un'ordinaria fabbrica di medicinali e una base di bin Laden in territorio afghano. Gli americani premono affinché l'Afghanistan consegni bin Laden, e, quando il regime talebano rifiuta, riescono a promuovere una risoluzione dell'ONU che impone strette sanzioni per il paese, isolandolo e creando difficoltà per la sopravvivenza di gran parte della popolazione. Nell'ottobre del 2000 un attacco suicida contro la nave da guerra USS Cole, ad Aden nello Yemen, provoca la morte di 17 marinai e il ferimento di altri 39. Da questo momento bin Laden è il nemico numero uno dell'America.

 

il boom dell'oppio

La coltivazione del papavero da oppio costituisce un filo conduttore che attraversa tutta la tormentata storia afghana da oltre un secolo. Quando la Gran Bretagna intervenne per la prima volta in Afghanistan, uno dei prodotti più lucrosi della colonia indiana che gli inglesi volevano proteggere era proprio l'oppio, che veniva trasportato in Cina e importato (contro gli ordini del regime cinese) per controbilanciare l'esportazione delle grandi quantità di tè dalla Cina all'Inghilterra. Tra le truppe di occupazione sovietica, molti soldati cominciarono a fare uso di oppio, e tornarono in patria tossicodipendenti un fenomeno simile a ciò che avvenne con molti marines statunitensi durante la guerra del Vietnam. La coltivazione del papavero resta nelle mani della popolazione indigena durante l'occupazione, ma non sembra essere stato un pilastro dell'economia militare dei mujaheddin nella lotta contro i sovietici, perché i finanziamenti erano già assicurati dagli USA, dal Pakistan e dall'Arabia saudita. Secondo uno studio condotto nel 1995 dall'UNDCP (l'ufficio dell'ONU che si occupa di lotta alla droga), fino al 1978 l'85% della popolazione afghana abitava la campagna, coltivando soprattutto il grano con l'aiuto di sistemi di irrigazione. La guerra contro i sovietici devasta l'intera economia e porta allo spopolamento rurale: la metà dei villaggi viene bombardata, spingendo i contadini verso le città. La popolazione urbana aumenta dal 15 al 24%, un terzo della popolazione scappa oltre confine, il 9% viene ucciso: i profughi all'interno dello stesso Afghanistan rappresentano l'11% della popolazione. Per i contadini rimasti l'oppio diventa uno dei pochi mezzi di sostegno e di sopravvivenza: rende tre volte di più del grano, resiste all'inflazione ed è un prodotto molto duraturo e robusto un fattore importante, dopo che il 60% delle strade è stato danneggiato e il trasporto dalla campagna ai mercati è precario. Durante gli anni della guerra l'oppio viene coltivato sul terreno migliore e con la migliore irrigazione. La coltivazione, che non è in mano ad un singolo gruppo etnico ma ad afghani di diverse etnie, aumenta di oltre il 1200% tra il 1978 e il 1994. Il boom della produzione prosegue con l'arrivo dei talebani fino al 1999, quando da solo l'Afghanistan produce il 79% dell'oppio illecito a livello mondiale, quasi tutto sotto il controllo dei talebani che, secondo alcune stime, impongono tasse per una rendita totale di 30 milioni di dollari all'anno.

 

terrore globale

La comunità internazionale viene colta dì sorpresa quando, nel luglio del 2000, i talebani emettono un decreto che vieta totalmente la coltivazione dell'oppio per ragione di stretta osservanza della legge islamica. Si tratta ora di capire, come suggerisce Lucia Vastano dove sono finite le scorte accumulate negli ultimi anni.

Osama bin Laden è forse uno dei primi protagonisti della lotta armata post-comunista a rendersi conto delle possibilità aperte dalla globalizzazione. I gruppi da lui appoggiati sono networks strutturati in maniera fluida, con scarsa formalizzazione di ruoli, gerarchie e procedure. Operano in strutture di composizione mista, comprendendo membri "in sonno" persone insospettabili, munite di passaporto o di regolare permesso di soggiorno, che agiscono dopo alcuni anni di vita irreprensibile e agenti transitori, confluiti nel gruppo per un'azione precisa e che spariscono subito dopo. Unico nel panorama terroristico, bin Laden opera al di fuori di un contesto politico geografico nazionale e senza distinzione di nazionalità. Gli esperti ritengono che egli non sia necessariamente al corrente di ogni azione da lui ispirata o finanziata, ma funge da facilitatore, responsabile per l'indirizzo e il bersaglio generale delle azioni, lasciando ad ogni gruppo la scelta di dove e come colpire. Se davvero la sua rete dispone di cellule nascoste in ben 60 paesi del mondo, compresi come ritiene la CIA 200/300 individui nei paesi dell'Unione Europea, non sarà facile sradicarla.

Una generica dichiarazione di "guerra al terrorismo" non sembra essere necessariamente una strategia vincente né saggia. E’ giusto, certamente, identificare, processare e condannare i responsabili, ma bisogna anche comprendere le vere radici del problema per poter estirpare i moltissimi focolai di fondamentalismo estremista che esistono in tutto il mondo.

Se non si comincia ad aiutare i musulmani moderati a isolare l'estremismo, confrontandoci anche seriamente con i rapporti Israele-Palestina, si rischia di fomentare nuovi martiri e nuove guerre facendo cosi esattamente il gioco di Osama bin Laden.

 

la guerra e le angosce dei bambini

di Rito Cristofori

I grattacieli erano stati distrutti tante volte, i nemici annientati in massa poi, con la nuova partita, tutto riviveva come prima e non era successo niente. L’11 settembre scorso, invece, le immagini drammatiche provenienti dagli Stati Uniti sono rimaste le stesse, si sono ripetute sugli schermi senza lasciare spazio alle incertezze. Non era un videogioco, era la realtà. Le Torri trafitte dagli aerei, il crollo, la paura e l'insicurezza nelle parole di tutti. Il bambino si ritrova smarrito, spogliato della sua rassicurante realtà virtuale. Allora chiede alla mamma, al papà, al maestro. Alcuni alzano la cornetta e digitano l'19696 di Telefono Azzurro. Cosa sta succedendo? Cosa deve ancora accadere?». I bambini sono sottoposti, e continueranno a esserlo dopo l'inizio dei bombardamenti, a sovrastimolazioni su tematiche di distruttività e di morte. «Occorre parlare con loro. Riformulare la lettura della realtà. Ricollocare le angosce, adottando il nostro lingua al loro livello di comprensione» ha sottolineato il Prof. Caffo, presidente di Telefono Azzurro. «è opportuno tutelare i più piccoli da immagini invasive e notizie fornite in modo ansiogeno. Con gli adolescenti è bene condividere il problema della guerra, avviare una riflessione non semplificata». Le linee telefoniche di Telefono Azzurro stanno ricevendo molte chiamate prevalentemente da adolescenti in preda all'ansia. Ragazzi e ragazze tra i 13 e i 16 anni ' che vogliono confrontarsi con esperti su quanto è accaduto, su come loro e gli altri lo stanno vivendo. Entrambi i sessi sono accomunati da vissuti emotivi forti, rispetto ai quali sentono il bisogno di essere ascoltati e rassicurati.

Cliccando sul sito di Telefono Azzurro www.azzurro.it   sezione news   si accede ad una pagina web che contiene il dossier "Aiutiamo i bambini a capire la guerra". Un modo per aiutare gli adulti a riconoscere i sintomi del trauma. Qualora i bambini non parlassero, non bisogna fidarsi dei silenzio, non fermarsi sul ciglio delle parole. il disagio, la paura, usano a volte un linguaggio particolare che va interpretato.

   

UN MONDO SICURO PERCHÉ VERAMENTE UMANO

di Leoluca Orlando

Attraverso il fumo delle torri gemelle di Manhattan e oltre le lacrime per il dolore di tante vittime di un'inaudita arcaica-moderna violenza, abbiamo visto comparire la sagoma di una divinità pagana rassicurante e brutale, arcaica modema essa stessa: la dea Sicurezza.

E’ misurabile necessariamente in secoli il tempo che separa il giorno 11 settembre 2001 da altri (quali?) giorni vissuti dall'umanità parimenti gravidi di complessità di analisi e potenzialità di effetti.

Mai, come in quelle ore, tanta parte dell'umanità si è sentita americana, partecipe di un dolore e di un desiderio di verità e giustizia così forte. Mai come in quelle ore il popolo e le istituzioni pub­bliche e private degli Stati Uniti d'America hanno avuto, in ragione del terribile dolore patito, una così grande capacità di incidere su sorrisi, stili di vita, valori dell'umanità: altro che Coca Cola, al­tro che New Deal, altro che Piano Marshall, altro che imperialismo, altro che egemonia economico culturale militare!

Un paese potente che conosce un così terribile dolore, che piange, diventa umanamente più cre­dibile, diventa ancora più forte.

Tutti noi, nessuno escluso, in quei giorni abbiamo ripetuto che l’11 settembre era lo spartiacque tra un prima e un dopo; era la data dopo la quale nes­suno e nulla sarebbe stato come prima in una larghissima parte del mondo.

E il popolo americano (l'umanità tout court) si è trovato davanti al progetto criminale del giorno 11 settembre nello stesso stato d'animo nel quale ci siamo tante volte trovati davanti alle stragi di ma­fia.

Chi è responsabile? La mafia! E chi? Non si sa! Ma il capo della mafia è Totò Riina! Allora chi è re­sponsabile? Totò Riina!... e null'altro si diceva (né interessava dire) su altri aspetti e su altre re­sponsabilità concorrenti.

Chi è responsabile dell'attacco aereo in terra americana? Il fondamentalismo islamico! E chi? Non si sa! Ma il personaggio più significativo è Osama bin Laden! Allora chi è responsabile? Osama bin Laden!... e null'altro si dice (né interessa dire) su altri aspetti e su altre responsabilità concorrenti.

A Palermo è questo ciò che alla fine spero resterà e continuerà ad esistere pur nel mutare delle stagioni e delle politiche abbiamo dimostrato in questi anni che è stato possibile contrastare l'inciviltà e la barbarie della mafia senza diventare incivili e barbari, senza costruire divinità pagane, senza cedere alla tentazione, in nome della Sicurezza, di rispondere alla violenza con la violenza.

Abbiamo costruito oltre la legalità (che è fredda applicazione della legge), la cultura della legalità (che è rispetto per la persona umana).

La sepoltura a Palermo di un criminale americano condannato a morte può cosi tornare ancora una volta carica di segni, come l'invocazione di un forte bisogno di umanità.

E mille e mille sono gli atti, i piccoli grandi gesti che in questi anni hanno costruito a Palermo un patrimonio di umanità che dovrebbe superare le angustie delle stagioni e le contrapposizioni politiche.

La globalizzazione porta con sé la fine delle guerre tradizionali fra Stati; la fine delle guerre tradizionali fra Stati promuove lo sviluppo della globalizzazione. E’ certamente la fine delle guerre tradizionali. Ma non è la fine della violenza, dell'uso di energie fisiche e tecniche per sconfiggere, per vincere, per uccidere.

Il terrorismo, da sempre considerato figlio di un dio minore rispetto alla guerra, assume una dimensione egemonica impensabile fino a poco tempo fa. Mille e una implicazioni.

 

Una prima.

Il più potente Stato del mondo potè subito riconoscere, dai contrassegni sulle fusoliere degli aerei, che l'attacco a Pearl Harbour era stato sferrato dall'impero giapponese. Lo stesso più potente Stato del mondo dopo parecchi giorni non era ancora in condizione di individuare con chiarezza il responsabile di un attacco che ha colpito nel cuore del suo stesso territorio persone umane, luoghi simbolici, beni economici incommensurabilmente più grandi di quelli colpiti a Pearl Harbour.

Una seconda.

Il Pentagono, il luogo simbolo degli eserciti costruiti per guerre fra Stati, è stato colpito da un aereo di linea dopo un'ora dal primo attacco alle torri gemelle senza che vi fosse un solo atto di difesa, una sola reazione militare da parte americana. Se si fosse verificato (come tante volte è accaduto in passato) un attacco dieci volte meno dannoso nei riguardi di una sede diplomatica o di un centro militare statunitense nel Golfo Persico o nel Mediterraneo, nei Caraibi o nel Pacifico, vi sarebbe stata certamente (come tante volte è stato in passato) una reazione immediata. Aerei, missili, incrociatori ovunque nel mondo... Ma neanche una mitraglietta a difesa del Pentagono che governa quegli aerei, quei missili, quegli incrociatori.

Una terza.

Non è più la guerra il modello per le violenze criminali ma è il terrorismo il modello per quanti fanno ricorso alla violenza per sconfiggere, per vincere, per uccidere. Le bande criminali in passato si comportavano imitando tecniche, gerarchie, modalità d'azione, strategie militari; da qualche tempo ‑ e dal giorno 11 settembre con un riferimento simbolicamente altissimo ‑ tecniche, gerarchie, modalità d'azione, strategie terroristiche sono il nuovo modello delle bande criminali.

Una quarta.

Stanno insieme fondamentalismo "orientale" sino all'autodistruzione e tecnica "occidentale" sino alla "umana perfezione". Tecnica "occidentale" nei grattacieli distrutti, ma tecnica "occidentale" anche nell'organizzazione e nella realizzazione del progetto criminale. Un incontro-scontro tra civiltà, tra edifici "occidentali" e aerei "occidentali", ma abitati gli uni da uno stile di vita "occidentale" e gli altri guidati da una concezione della vita emblematicamente "orientale".

Cosi si presenta la figura di un "orientale" terrorista suicida con un bagaglio tecnico da sofisticato manager di una multinazionale dell'informatica o dell'aeronautica.

Occidente e Oriente possono essere posti in contrasto soltanto per quanti inseguono dissennate guerre sante tanto ad Est quanto ad Ovest; ma sono "guerre sante" destinate a sfaldarsi perché evoluzione tecnica e stile di vita tendono a contaminarsi, a fondersi: il meticciato tra tecnica (ritenuta fredda) e stile di vita (ritenuto caldo) da sempre segna la storia dell'umanità.

Una quinta...

La dea Sicurezza. Sull'altare di questa divinità pagana del terzo millennio rischiano di esser portati in offerta sacrificale valori quali la solidarietà e la vita, la coscienza civile e la tolleranza...

In nome della Sicurezza malamente intesa e distortamente utilizzata, pena di morte e legge del taglione, aggressività e intolleranza, armamento privato e ostilità pregiudiziali, rischiano di modificare la nostra stessa vita, il modo di essere e di vivere dell'umanità.

La sicurezza è una condizione, non è un valore: valori sono l'umanità, la solidarietà, la vita. Per realizzare una condizione di sicurezza non bisogna disperdere il valore dei valori: il rispetto della persona umana.

Il nazismo riteneva che vi fosse un valore supremo (la coscienza collettiva del popolo) e costituiva un sistema di diritti legati alla coscienza collettiva del popolo (e tali diritti si esprimevano con la parola forse più lunga della lingua tedesca: Volksgemeineschqftgebundenerechte). E Fúhrer aveva il compito di individuare, interpretare e promuovere tali diritti. Su tali basi, sul fondamento di un valore metastorico e metagiuridico quale la coscienza collettiva del popolo tedesco, si è consumata la vergogna dell'umanità nel XX secolo. Dio non voglia, il Dio dei cristiani come Jahvé, Allah come ogni altra divinità, non voglia che il terzo millennio possa vedere l'affermazione in chiave di valore egemone di una divinità pagana: la Sicurezza.

Che ciò non accada dipende da noi, dipende dalle donne e dagli uomini del pianeta. Qui e ora. Oggi dipende in larga misura dalle scelte del popolo americano... Dalle scelte che faremo anche con il popolo americano, tutti insieme se siamo convinti che il terribile attacco dell'11 settembre sia stato subito dall'umanità intera e non solo dal popolo americano.

Dividiamo insieme, amici americani, le lacrime del dolore e la costruzione di un mondo non più e non mai disumano perché sicuro, ma finalmente sicuro perché veramente umano.

IL SOLDATO DI VENTURA E IL MEDICO AFGHANO

  di Tiziano Terzani

PESHAWAR - Sono venuto in questa città di frontiera per essere più vicino alla guerra, per cercare di vederla coi miei occhi, di farmene una ragione; ma, come fossi saltato nella minestra per sapere se è salata o meno, ora ho l’impressione di affogarci dentro. Mi sento andare a fondo nel mare di follia umana che, con questa guerra, sembra non avere più limiti. Passano i giorni, ma non mi scrollo di dosso l’angoscia: l’angoscia di prevedere quel che succederà e di non poterlo evitare, l’angoscia di essere un rappresentante della più moderna, più ricca, più sofisticata civiltà del mondo ora impegnata a bombardare il Paese più primitivo e più povero della Terra; l’angoscia di appartenere alla razza più grassa e più sazia ora impegnata ad aggiungere nuovo dolore e miseria al già stracarico fardello di disperazione della gente più magra e più affamata del pianeta. C’è qualcosa di immorale, di sacrilego, ma anche di stupido - mi pare - in tutto questo. A tre settimane dall’inizio dei bombardamenti anglo-americani dell’Afghanistan la situazione mondiale è molto più tesa ed esplosiva di quanto lo fosse prima. I rapporti fra israeliani e palestinesi sono in fiamme, quelli fra Pakistan e India sono sul punto di rottura; l’intero mondo islamico è in agitazione e ogni regime moderato di quel mondo, dall’Egitto all’Uzbekistan, al Pakistan stesso, subisce la montante pressione dei gruppi fondamentalisti.

Nonostante tutti i missili, le bombe e le operazioni segretissime dei commandos , mostrateci in piccoli spezzoni del Pentagono, come per farci credere che la guerra è solo un videogame, i talebani sono ancora saldamente al potere, la simpatia nei loro confronti cresce all’interno dell’Afghanistan, mentre diminuisce invece in ogni angolo del mondo il senso della nostra sicurezza.

«Sei musulmano?», mi chiede un giovane quando mi fermo al bazar a mangiare una focaccia di pane azzimo. «No». «Allora che ci fai qui? Presto vi ammazzeremo tutti». Attorno tutti ridono. Sorrido anch’io.

Lo chiamano Kissa Qani, il «bazar dei raccontastorie». Ancora una ventina d’anni fa, era uno degli ultimi, romantici crocevia dell’Asia pieno delle più varie mercanzie e varie genti. Ora è una sorta di camera a gas con l’aria irrespirabile per le esalazioni e le folle sempre più in mal arnese a causa dei tantissimi rifugiati e mendicanti. Fra le vecchie storie che ci si raccontavano c’era quella di Avitabile, un napoletano soldato di ventura arrivato qui a metà dell’Ottocento con un amico di Modena e diventato governatore di questa città. Per tenerla in pugno, ogni mattina all’ora di colazione faceva impiccare un paio di ladri dal minareto più alto della moschea e per decenni ai bambini di Peshawar è stato detto: «Se non sei buono, ti do ad Avitabile». Oggi le storie che si raccontano al bazar sono tutte sulla guerra americana.

Alcune, come quella secondo cui l’attacco a New York e Washington è stato opera dei servizi segreti di Tel Aviv - per questo nessun israeliano sarebbe andato a lavorare nelle Torri Gemelle l’11 settembre -, e quella secondo cui l’antrace per posta è una operazione della Cia per preparare psicologicamente gli americani a bombardare Saddam Hussein, sono già vecchie, ma continuano a circolare e soprattutto a essere credute. L’ultima è che gli americani si sarebbero resi conto che con le bombe non riescono a piegare l’Afghanistan e hanno ora deciso di lanciare sacchi pieni di dollari sulla gente. «Ogni missile costa due milioni di dollari. Ne hanno già tirati più di cento. Pensa: se avessero dato a noi tutti quei soldi, i talebani non sarebbero più al potere», dice un vecchio rifugiato afghano, ex comandante di un gruppo di mujaheddin anti-sovietici, venuto a sedersi accanto a me.

L’idea che gli americani son pieni di soldi e disposti a essere generosi con chi sia disposto a schierarsi dalla loro parte è diffusissima. Giorni fa alcune centinaia di capi religiosi e tribali della comunità afghana in esilio si sono riuniti in un grande anfiteatro nel centro di Peshawar per discutere del futuro dell’Afghanistan «dopo i talebani». Per ore e ore dei bei, barbutissimi signori - ottimi per i primi piani delle televisioni occidentali - si sono avvicendati al microfono a parlare di «pace e unità», ma nei loro discorsi non c’era alcuna passione, non c’era alcuna convinzione. «Son qui solo per registrare il loro nome e cercare di raccogliere fondi americani», diceva un vecchio amico, un intellettuale pakistano, di origine pashtun come quella gente. «Ognuno guarda l’altro chiedendosi "e tu quanto hai già avuto?". Quel che gli americani dimenticano è un nostro vecchio proverbio: un afghano si affitta, ma non si compra».

Per gli americani la riunione di Peshawar era il primo importante passo per quella che, sulla carta, pareva loro la ideale soluzione politica del problema afghano: far tornare il re Zahir Shah, installare a Kabul un governo in cui tutti fossero rappresentati - compresi alcuni capi talebani moderati - e mandare l’esercito del nuovo regime a caccia degli uomini di Al Qaeda, risparmiando così il lavoro e i rischi ai soldati della coalizione.

Ma le soluzioni sulla carta non sempre funzionano sul terreno, specie quando questo terreno è l’Afghanistan.

Già l’idea che il vecchio re del passato, in esilio a Roma da trent’anni, possa ora giocare un ruolo nel futuro del paese è una illusione di chi crede di poter rifare il mondo a tavolino, è una pretesa di quei diplomatici che non escono dalle loro stanze ad aria condizionata. Basta andare fra la gente per rendersi conto che il vecchio sovrano non gode di quel prestigio che le cancellerie occidentali - specie quella italiana - gli attribuiscono e che il suo non essersi mai fatto vedere, il suo non aver mai visitato un campo di rifugiati viene preso come una indicazione di indifferenza per la sofferenza del suo popolo. «Bastava che al tempo dell’invasione sovietica si fosse fatto fotografare con un fucile in mano ed avesse sparato un colpo in aria. Oggi lo rispetterebbero - dice l’amico - ... e poi, poteva almeno l’anno scorso essere andato in pellegrinaggio alla Mecca, il che, coi tempi che corrono, gli avrebbe dato un po’ di rilievo anche dal punto di vista religioso».

A parte il re, l’altro uomo su cui gli americani contavano per il loro gioco era Abdul Haq, uno dei più prestigiosi comandanti della resistenza anti-sovietica, tenutosi poi fuori dalla guerra civile che seguì. «Non è qui. E’ andato in Afghanistan» si diceva durante la conferenza di Peshawar, alludendo ad una «missione» che sarebbe stata decisiva per il futuro. L’idea ovvia era che Abdul Haq, col suo prestigio e il suo grande ascendente sui tanti vecchi mujaheddin alleatisi coi talebani, avrebbe staccato dal regime del Mullah Omar alcuni comandanti regionali e avrebbe potuto marciare su Kabul alla testa di gruppi pashtun quando la capitale fosse stata presa dalla Alleanza del Nord, che i pashtun ed i pakistani non vogliono assolutamente vedere al potere.

La «missione» di Abdul Haq non è durata a lungo. I talebani lo hanno seguito appena quello è entrato in Afghanistan, dopo alcuni giorni lo hanno catturato e nel giro di poche ore lo hanno giustiziato come un «traditore» assieme a due suoi seguaci. Gli americani con tutta la loro attrezzatura elettronica ed i loro super-elicotteri non sono riusciti a salvarlo.

Il presupposto di tutta questa manovra americana per una soluzione politica era comunque che il regime dei talebani si sfaldasse, che sotto la pressione delle bombe cominciassero le defezioni e che nel paese si creasse un vuoto di potere. Ma tutto questo non è successo. Anzi. Ogni indicazione è che i talebani sono ancora fermamente in carica. Catturano giornalisti occidentali che si avventurano oltre la frontiera e fanno sapere, per scoraggiare altri tentativi, di non avere più spazio, né cibo per detenerne altri. «Le varie inchieste sono in corso. Verranno tutti giudicati secondo la sharia, la legge coranica», dicono, come farebbe un qualsiasi stato sovrano. I talebani passano decreti, fanno comunicati per smentire notizie false e continuano a sfidare la strapotenza americana non cedendo terreno e promettendo morte agli afghani che si schierano con il nemico.

Non solo. Il fatto che i talebani siano ora attaccati da degli stranieri, fa sì che anche chi aveva poca o nessuna simpatia per il loro regime, ora si schiera dalla loro parte. «Quando un melone vede un altro melone, ne prende il colore», dicono i pashtun. Dinanzi agli stranieri, visti di nuovo come invasori, gli afghani diventano sempre più dello stesso colore.

Per gli americani, già sotto enorme pressione internazionale per la stupidità delle loro bombe intelligenti che continuano a cadere su gente inerme e di nuovo sui magazzini della Croce Rossa, la guerra aerea s’è rivelata un completo fallimento, quella politica uno smacco.

Avevano cominciato la campagna afghana dicendo di volere Osama Bin Laden, «vivo o morto», e hanno presto ripiegato sul voler catturare o uccidere il Mullah Omar, capo dei talebani, sperando che questo avrebbe fatto vacillare il regime, ma finora quel che son riusciti a fare, oltre a qualche centinaio di vittime civili, è terrorizzare la popolazione delle città già ridotte a macerie. Le Nazioni Unite calcolano che le bombe hanno fatto fuggire da Kandahar, Kabul e Jalalabad il 75% degli abitanti.

Questo vuol dire che almeno un milione e mezzo di persone sono ora senza tetto, si aggirano nelle montagne del paese e si aggiungono ai sei milioni che, sempre secondo le Nazioni Unite, erano già «a rischio» per mancanza di cibo e protezione prima dell’11 settembre.

«Quelli sono gli innocenti di cui dobbiamo occuparci - dice un funzionario internazionale -. Quelli che non hanno nulla a che fare col terrorismo, quelli che non leggono i giornali, che non guardano la Cnn. Molti di loro non sanno neppure che cosa è successo alle Torri Gemelle».

Quel che tutti sanno invece è che bombe, le bombe che giorno e notte distruggono, uccidono e scuotono la terra come in un costante terremoto, le bombe sganciate dagli aerei d’argento che piroettano nel cielo di lapislazzulo dell’Afghanistan, sono bombe inglesi e americane e questo coagula l’odio dei pashtun, degli afghani e più in generale dei musulmani contro gli stranieri. Ogni giorno di più l’ostilità è ovvia sulla faccia della gente.

Ero andato al bazar perché volevo vedere quanti avrebbero partecipato alla manifestazione pro-talebani che si tiene di routine nella vecchia Peshawar dopo la preghiera di mezzo giorno, ma l’amico pashtun mi aveva avvertito che il numero dei dimostranti non vuol dire ormai nulla. «I duri non marciano più, si arruolano. Vai nei villaggi», m’aveva detto.

L’ho fatto e per un giorno e una notte, in compagnia di due studenti universitari che in quella regione sembrava conoscessero tutti e tutto, ho gettato uno sguardo su un mondo la cui distanza dal nostro non è misurabile in chilometri, ma in secoli: un mondo che dobbiamo capire a fondo se vogliamo evitare la catastrofe che ci sta davanti.

La regione in cui sono stato è a due ore di macchina da Peshawar, a mezza strada dal confine afghano-pakistano. Per le popolazioni di qui la frontiera - anche quella stabilita a tavolino oltre cento anni fa da un funzionario inglese - non esiste.

Dall’una e dall’altra parte di quella innaturale divisione politica fra identiche montagne vive un’identica gente: i pashtun (detti anche pathan) che in Afghanistan sono la maggioranza, in Pakistan una minoranza. I pashtun, prima che afghani o pakistani, si sentono pashtun e il sogno di un Pashtunstan, uno stato che aggreghi tutti i pashtun non è mai completamente tramontato. I pashtun sono i temuti guerrieri dell’Afghanistan; sono loro che gli inglesi non riuscirono mai a sconfiggere. «Un pashtun ama il suo fucile più di suo figlio - dicevano dei loro nemici gli ufficiali di Sua Maestà -. Coraggiosi come leoni, selvaggi come gatti, ingenui come bambini». I talebani sono pashtun e quasi esclusivamente pashtun sono le zone in cui ora cadono le bombe americane. «Mio padre è sempre stato un liberale e un moderato, ma dopo i bombardamenti anche lui parla come un talebano e sostiene che non c’è alternativa alla jihad», diceva uno dei miei studenti, mentre lasciavamo Peshawar.

La strada correva fra piantagioni di canna da zucchero. In lontananza le prime montagne. Sui muri bianchi che dividono i campi, spiccavano grandi slogan dipinti di fresco. «La jihad è il dovere della nazione», «Un amico degli americani è un traditore», «La jihad durerà fino al giorno del giudizio». Il più strano era: «Il profeta ha ordinato la jihad contro l’India e l’America».

Nessuno qui si chiede se al tempo del Profeta, mille e quattrocento anni fa, l’India e l’America esistessero già. Ma è appunto questa accecante mistura di ignoranza e di fede a essere esplosiva ed a creare, attraverso la più semplicistica e fondamentalista versione dell’Islam, quella devozione alla guerra e alla morte con cui abbiamo deciso, forse un po’ troppo avventatamente, di venirci a confrontare.

«Quando uno dei nostri salta su una mina o viene dilaniato da una bomba, prendiamo i pezzi che restano, i brandelli di carne, le ossa rotte, mettiamo tutto nella stoffa di un turbante e seppelliamo quel fagotto lì, nella terra. Noi sappiamo morire, ma gli americani? Gli inglesi? Sanno morire così?». Dal fondo della stanza un altro uomo barbuto, ricordandosi da dove, presentandomi, ho detto di venire, apre un giornale in Urdu e ad alta voce legge una breve notizia in cui si dice che anche l’Italia si è offerta di mandare navi e soldati e il mio interlocutore personalizza la sua sfida: «...e voi italiani allora? Siete pronti a morire così? Perché anche voi venite qui a uccidere la nostra gente, a distruggere le nostre moschee? Che direste se noi venissimo a distruggere le vostre chiese, se venissimo a radere al suolo il vostro Vaticano?». Siamo in una sorta di rudimentalissimo ambulatorio in un villaggio a qualche decina di chilometri dal confine afghano. Negli scaffali polverosi ci sono delle polverose medicine; al muro una bandiera verde e nera con al centro un sole in cui è scritto «Jihad». Attorno al «dottore» che mi parla si sono riuniti una decina di giovani: alcuni sono veterani della guerra, altri ci stanno per andare. Uno è appena tornato dal fronte e racconta dei bombardamenti.

Dice che gli americani sono codardi perché sparano dal cielo, scappano e non osano combattere faccia a faccia. Dice che il Pakistan impedisce ai profughi di entrare nel paese e che tanti civili, feriti nei bombardamenti di Jalalabad, muoiono ora dall’altra parte del confine per mancanza delle più semplici cure.

L’atmosfera è tesa. Qui, ancora più che al bazar, tutti sono assolutamente convinti che quella in corso è una grande congiura-crociata dell’Occidente per distruggere l’Islam, che l’Afghanistan è solo il primo obbiettivo e che l’unico modo di resistere è per tutto il mondo islamico di rispondere all’appello per la guerra santa. «Vengano pure gli americani, così ci potremo procurare delle buone scarpe, togliendole ai cadaveri - dice uno dei giovani - a voi la guerra costa tantissimo. A noi nulla. Non sconfiggerete mai l’Islam».

Come non rendersi conto che per combattere il terrorismo siamo venuti a uccidere innanzitutto degli innocenti e con ciò ad aizzare ancor più un cane che giaceva? Come non vedere che abbiamo fatto un passo nella direzione sbagliata, che siamo entrati in una palude di sabbie mobili e che con ogni altro passo finiremo solo per allontanarci sempre di più dalla via di uscita? Dopo la conversazione con i fanatici della jihad, quella fra me e me è continuata per il resto della notte, passata insonne a tenermi lontano le zanzare. Certo che non è invidiabile una società come quella che produce dei ragazzi così ottusi e disposti a morire. Ma lo è forse la nostra? Lo è quella americana? Che accanto agli eroici pompieri di Manhattan, produce anche gente come il bombarolo di Oklahoma City, gli attentatori alle cliniche abortiste e forse anche quelli che - il sospetto cresce - mettono l’antrace nelle buste spedite a mezzo mondo? Quella su cui avevo appena gettato uno sguardo era una società carica d’odio. Ma è da meno la nostra che ora, per vendetta o magari davvero per mettere le mani sulle riserve naturali dell’Asia Centrale, bombarda un paese che vent’anni di guerra han già ridotto ad una immensa rovina? Possibile che per proteggere il nostro modo di vivere, si debbano fare milioni di rifugiati, si debbano far morire donne e bambini? Per favore, vuole spiegarmi qualcuno esperto in definizioni, che differenza c’è fra l’innocenza di un bambino morto nel World Trade Center e quella di uno morto sotto le bombe a Kabul? La verità è che quelli di New York, sono i «nostri» bambini, quelli di Kabul invece, come gli altri centomila bambini afgani che, secondo l’Unicef, moriranno quest’inverno se non arrivano subito dei rifornimenti, sono i bambini «loro». E quei bambini loro non ci interessano più. Non si può ogni sera, all’ora di cena, vedere sullo schermo della tv di casa un piccolo moccioso afghano che aspetta di avere una pagnotta. Lo si è già visto tante volte; non fa più spettacolo. Anche a questa guerra ci siamo già abituati. Non fa più notizia e i giornali richiamano i loro corrispondenti, le televisioni riducono i loro staff, tagliano sui collegamenti via satellite dai tetti degli alberghi a cinque stelle di Islamabad. Il circo va altrove, cerca altre storie, l’attenzione è già stata anche troppa.

Eppure l’Afghanistan ci perseguiterà perché è la cartina di tornasole della nostra immoralità, delle nostre pretese di civiltà, della nostra incapacità di capire che la violenza genera solo violenza e che solo una forza di pace e non la forza della armi può risolvere il problema che ci sta dinanzi.

«Le guerre cominciano nella mente degli uomini ed è nella mente degli uomini che bisogna costruire la difesa della pace», dice il preambolo della costituzione dell’Unesco. Perché non provare a cercare nelle nostre menti una soluzione che non sia quella brutale e banale di altre bombe e di altri morti? Abbiamo sviluppato una grande conoscenza, ma non appunto quella della nostra mente, e ancor meno quella della nostra coscienza, mi dicevo insonne tentando sempre di scacciare le zanzare.

La notte è fortunatamente breve. Alle quattro la voce metallica di un altoparlante comincia a salmodiare dall’alto di un minareto vicino; altre rispondono in lontananza. Partiamo.

Nella hall dell’albergo dove arrivo a fare colazione è già accesa la televisione. La prima notizia, all’alba, non è più la guerra in Afghanistan, ma l’annuncio fatto a Washington del «più grande contratto di forniture belliche nella storia del mondo».

Il Pentagono ha deciso di affidare alla Lockheed Martin la costruzione della nuova generazione di sofisticatissimi aerei da caccia: 3.000 pezzi per un valore iniziale di 200 miliardi di dollari. Gli aerei entreranno in funzione nel 2012.

Per bombardare chi? Mi chiedo. Penso ai ragazzini della madrassa che nel 2012 avranno giusto vent’anni e mi torna in mente una frase dell’invasato «dottore»: «Se gli americani vogliono combatterci per quattro anni, noi siamo pronti, se vogliono farlo per 40 anni siamo pronti. Per 400, siamo pronti».

E noi ? Questo è davvero il momento di capire che la storia si ripete e che ogni volta il prezzo sale.

 

IL CORANO E LA RIVOLUZIONE

 

 

Massimo Introvigne, direttore del Centro studi sulle nuove religioni 

L'Apocalisse di Benladen: «Un'ideologia criminale che affascina le masse»  

Secondo il leader di al-Qaeda la presenza di truppe occidentali nel luogo sacro dell'Arabia Saudita, le sanzioni all'Iraq e il supporto a Israele sono stati tre gravi aggressioni all'islam: per questo la guerra contro gli Stati Uniti, definita «difensiva», è un «dovere individuale» di ogni musulmano.

 

Non vi è male più grande che a New York e per questa ragione la sua porzione di punizione sarà più grande». Non si tratta di un testo di Osama bin Laden e neppure di Nostradamus, ma di Bashir Muhammad 'Abdallah, autore di testi di apocalittica popolare islamica, ignoti all'islamologia colta, ma molto venduti in Egitto: la citazione è dal suo Zilzal al-ard al-'azim, pubblicato al Cairo nel 1994. In uno scritto circolato in una lista privata via Internet, quindi pubblicato come editoriale sul quotidiano New Orleans Times-Picayune, la professoressa Catherine Wessinger della Loyola University inquadra il movimento di Osama bin Laden nella categoria del «millenarismo rivoluzionario»: quel millenarismo, cioè, che non si limita a speculare su avvenimenti apocalittici ma usa la violenza per sovvertire il presente ordine di cose e realizzarne uno nuovo e finale. Come accennato, nell'islam i riferimenti apocalittici - che non mancano - raramente (almeno fino a tempi recenti) sono stati applicati alla lettura di eventi del presente e a profezie concrete e «politiche» per il futuro. Ma tutto questo è avvenuto finché l'apocalittica islamica è rimasta monopolio dei «dotti», mentre il populismo fondamentalista ne ha aperto l'interpretazione ai «semplici».

Una teoria non autentica

In che senso la categoria di millenarismo rivoluzionario aiuta a capire Osama bin Laden e la sua capacità d'influenzare e reclutare un congruo numero di persone? Per rispondere a questa domanda, occorre riflettere su una distinzione ovvia quando la si applica al mondo cristiano, ma che sembra meno evidente nei dibattiti di questi giorni sull'islam. Le dottrine millenaristiche in genere possono essere valutate su due piani: uno strettamente teologico e uno sociologico. Questi due piani non coincidono.

Tutto questo è vero anche per la letteratura millenaristica islamica (romanzi e scenari per il futuro) che è diventata popolare a partire dalla guerra dei Sei Giorni del 1967. Dal punto di vista teologico, è facile per uno studioso occidentale dell'islam (posto che la legga e se ne occupi, il che normalmente non accade) affermare che non rappresenta l'autentica apocalittica islamica; l'idea è condivisa da autorità islamiche come quelle dell'università al-Azhar del Cairo, che hanno ripetutamente messo in guardia contro questa letteratura, non tanto per il suo estremismo quanto perché incorpora al suo interno temi che derivano dal millenarismo cristiano del protestantesimo fondamentalista. Dal punto di vista sociologico, proprio le opere degli autori più criticati come Sa'id Ayyub, Muhammad Da'ud e il citato Bashir Muhammad 'Abdallah sono continuamente ristampate e godono di grande popolarità in tutto il mondo sunnita. David Cook, dell'università di Chicago - il maggior studioso di questo genere di letteratura popolare - ne vede il significato ultimo nell'aver sottratto temi come quelli dell'Anticristo (Dajjal) e dei tempi ultimi al secolare monopolio delle élite colte, trasformandoli in carne e sangue per le masse.

L'analisi di Cook dei contenuti e della popolarità di questi prodotti è inquietante. I due temi che emergono sono quelli dell'Anticristo e della sua sconfitta da parte del Mahdi. Per identificare l'Anticristo - che è già fra noi - il millenarismo popolare non fa appello solo alle fonti islamiche, ma alla letteratura fondamentalista protestante, alla propaganda antisemita occidentale e perfino all'esoterismo di quart'ordine con riferimenti più o meno pertinenti a Nostradamus, agli Ufo e al triangolo delle Bermude. L'avvento dell'Anticristo è il risultato di un complotto ebraico, che ha come principale strumento gli Stati Uniti (cui sono riferite diverse profezie tradizionali) che finisce per allearsi - in nome della comune avversione all'islam - anche con i «crociati» cristiani e in particolare con il «Vaticano». Per esempio nell'opera al-Mahdi al-muntazar'ala al-abwab di Muhammad Da'ud (1997) leggiamo che, quando l'islam inizia il suo grande risveglio militare, il «Vaticano», d'intesa con il «governo italiano», invia sabotatori in terra islamica per distruggerne le infrastrutture. Quando le spie sono scoperte e si pentono, il «governo italiano» si vendica uccidendo i familiari dei pentiti. Lo scenario è, evidentemente, farneticante: ma non rassicura leggere, dopo New York (di cui si parla, in effetti, molto spesso), frequenti riferimenti a Roma come obiettivo della collera islamica.

L'Anticristo è sconfitto dal Mahadi, il messia dei tempi ultimi, che unifica i diversi Stati islamici (in molti casi, uccidendone i dirigenti che sono agenti dei «crociati» occidentali e degli ebrei - i quali controllerebbero la massoneria, e molti dirigenti arabi sarebbero massoni -, quando non ebrei sotto mentite spoglie) e distrugge i nemici dell'islam. In questa prospettiva, il Mahdi è nello stesso tempo il nuovo califfo. In uno dei testi più influenti di questa corrente, al-Masih al Dajjal di Sa'id Ayyub (1987), alla fine delle sue conquiste «i canti di battaglia risuonano a Roma». Quando si legge dell'idea di Osama bin Laden o del mullah talebano Omar di proporsi come «califfi» unificatori di tutto il mondo islamico, si pensa subito a un tipo di pretesa che appare evidentemente assurda sul piano della politica secolare. Ma la pretesa ha un senso se riferita alle prospettive del millenarismo popolare sul Mahdi, i cui successi non sono prevedibili sul terreno squisitamente militare e politico in quanto sono di origine soprannaturale e miracolosa. David Cook mostra come - nonostante la disapprovazione ufficiale - questa letteratura millenarista abbia un notevole successo nelle masse arabe, e abbia costretto i suoi critici a prenderla in qualche modo in considerazione, non solo attraverso le condanne dei «conservatori» (legati in genere all'università al-Azhar, dove peraltro alcuni degli autori apocalittici hanno studiato), ma anche con la nascita di una scuola di «neo-conservatori» che trattano gli stessi temi ma vorrebbero farlo in un modo rigorosamente islamico, senza utilizzare fonti protestanti o esoteriche occidentali. Naturalmente, altro è scrivere scenari di fantapolitica religiosa più o meno romanzati, altro è organizzare attentati. Tuttavia, la popolarità di questa letteratura millenarista che - a differenza della stragrande maggioranza di quella fondamentalista protestante - è intrinsecamente violenta, aiuta a capire alcuni riferimenti di bin Laden altrimenti incomprensibili, e contribuisce alla creazione di un clima in cui la prospettiva terroristica può trovare simpatizzanti e seguaci.

Una lunga tradizione

Sarebbe peraltro sbagliato ritenere che il millenarismo di bin Laden cammini esclusivamente appoggiandosi sulla letteratura apocalittica «popolare». La seconda gamba del suo millenarismo rivoluzionario è costituita da un'interpretazione del Corano che - pur criticata dalle autorità religiose più ostili al radicalismo e considerata filologicamente scorretta da studiosi occidentali - ha una lunga tradizione «colta», e non solo popolare. Rosalind Gwynne, dell'università del Tennesee, autrice di un pregevole studio sull'uso del Corano nella letteratura prodotta da bin Laden e al-Qaeda, sottolinea come vi siano frequenti riferimenti a Taqi al-Din Idn Taymiyyah (1262-1328), un giurista di scuola hanbalita morto in carcere a causa delle sue idee estremiste e considerato autorevole in Arabia Saudita. Una tecnica non espressamente richiamata da bin Laden, ma usata dai suoi maestri come Muhammad Abd al-Salam Faraj (1954-1982), giustiziato nel 1982 come ispiratore dell'assassinio del presidente egiziano Sadat, consiste nel dare rilievo alla nozione di versetti «abrogati» e «abroganti».

Si tratta di una nozione non unanimemente accolta dagli esegeti, ma che ha una lunga tradizione. Questa è una delle strategie interpretative che permettono di togliere vigore ai passaggi coranici che sembrerebbero condannare l'uccisione di civili, donne e bambini compresi. Un'altra consiste nel sostenere che i pilastri della fede sono sei (mentre per altri sono cinque), e comprendono il jihad: che essi vanno disposti in ordine gerarchico e che il jihad viene subito dopo la professione di fede, così che le esigenze del jihad, in caso di contrasto, prevalgono su altre esigenze religiose o morali. Quanto al significato della parola jihad, è certamente vero che non si restringe alla «guerra santa» nel senso militare del termine, comprendendo ogni forma di «sforzo» morale, culturale e religioso: ma non è meno vero che nei manifesti di bin Laden il contesto - dove i rimandi più frequenti sono a Corano 9,5, il cosiddetto "versetto della spada": «(...) uccidete questi associatori (cioè coloro che "associano" al Dio unico altri dèi) ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati» - è quello di combattimenti tutt'altro che metaforici. Fra l'altro, secondo Faraj, il «versetto della spada» ha efficacia abrogante rispetto a un buon numero di altri brani coranici, che sarebbero stati rivelati precedentemente e che sembrano favorire la coesistenza pacifica con gli infedeli.

La «fatwa» contro gli Usa

 

A chi obietta che il Corano permette solo la guerra difensiva, bin Laden risponde che vi sono state non una ma ben tre aggressioni gravi (la presenza di truppe occidentali sul sacro suolo dell'Albania, le sanzioni all'Iraq e il supporto a Israele) per cui la guerra contro gli Stati Uniti è oggi sempre e per definizione difensiva, con la conseguenza di rendere la «guerra santa» «dovere individuale» di ogni musulmano (da compiere peraltro non necessariamente in forma militare), e non solo «dovere collettivo» che potrebbe essere compiuto da alcuni a nome di tutti. In terzo luogo, sulla scia di Ibn Taymiyyah, bin Laden interpreta i riferimenti agli «associatori» e «miscredenti» (contro altri interpreti) includendovi anche i «popoli del Libro» (cristiani ed ebrei) - almeno quelli che non accettano esplicitamente lo stato di dhimmi, ponendosi sotto la protezione dell'islam e riconoscendone l'egemonia - e perfino i cattivi musulmani, per esempio gli attuali governatori dell'Arabia  Saudita.

Da ultimo bin Laden dà importanza all'inizio del Corano 2,191 («Uccideteli ovunque li incontriate (...)») e a Corano 2,193 («Combatteteli finché non ci sia più persecuzione, e il culto sia (reso solo) ad Allah»), ricollegandosi a una lunga tradizione rigorista secondo cui la miscredenza stessa è un atto di aggressione e giustifica la più dura reazione militare. Certamente occorre uno sforzo per interpretare sistematicamente le fonti nel modo più rigorista possibile per arrivare, nella fatwa del 23 febbraio 1998, a concludere che «uccidere gli americani e i loro alleati - civili e militari - in questi tempi apocalittici è un «dovere individuale per ogni musulmano, e può farlo in ogni Paese in cui gli sia possibile farlo». Talora bin Laden procede «tagliando» dalla citazione la seconda parte di un versetto coranico che attenua e qualifica la prima, occasionalmente violando le regole che indicano precisamente quando una pausa all'interno di un versetto è permessa, consigliata o vietata. La fatwa del 1998, peraltro, è sottoscritta non solo da bin Laden, ma anche da dirigenti che - diversamente da lui - possono vantare qualche credenziale come studiosi del Corano.

Il millenarismo rivoluzionario di bin Laden, così, conferma di essere un'interpretazione delle fonti tradizionali islamiche discutibile dal punto di vista filologico e che, a diversi snodi interpretativi, deve compiere scelte minoritarie fra gli stessi autori classici che il fondatore di al-Qaeda cita. Si ricollega, tuttavia, a una corrente la cui importanza è tutt'altro che irrilevante negli stessi ambienti colti, e che oggi può esercitare un certo fascino fra le masse islamiche grazie anche al lavoro di semina svolto da una letteratura popolare che ruota intorno al tema dell'Anticristo. Si tratta, certamente, di un'ideologia pericolosa e criminale: liquidarla come semplicemente ridicola o come «totalmente estranea» al mondo islamico significa però non capire le ragioni profonde della sua influenza e del suo (relativo) successo, che la categoria di «millenarismo rivoluzionario» può invece aiutare a mettere a fuoco più esattamente.

 

 

da Avvenire Primo Piano – Martedì 13 Novembre 2001

 

 

IL PROFETA GUERRIERO E QUEL TE NEL BAZAR

di Tiziano Terzani

QUETTA (Pakistan) - Scrivo queste righe da una modesta locanda affacciata sul grande bazar della città dove una medioevale folla di uomini barbuti e inturbantati, avvolti nella moderna foschia azzurrognola delle esalazioni di autobus e motorini, si mescola a ciuchi, cavalli, barrocci e carretti. La frontiera afgana è a un centinaio di chilometri e questa città, acquattata in una conca di spigolose, brulle montagne grigio-rosa, è una delle spiagge sulle quali si abbattono le onde della guerra vicina lasciandosi dietro i soliti resti umani del naufragio: i profughi, gli orfani, i feriti, i mendicanti.

Non si fanno due passi senza essere accostati da mani s carne e supplicanti, da sguardi vuoti di donne dietro il burqa. Sono riuscito a trovare una camera qui perché il «turista» americano che la occupava è partito una mattina per l' Afghanistan e non è più tornato. La prima versione della sua scomparsa è stata che i talebani lo avevano arrestato e impiccato come agente Cia. Un'altra che è stato ucciso in uno scontro a fuoco.

I talebani hanno semplicemente detto che il cadavere era all' ospedale di Kandahar e chi voleva poteva andare a prenderselo. Nessuno l'ha fatto e il padrone della locanda ha riaffittato la stanza. Secondo lui l'americano si faceva chiamare maggiore, parlava una paio di lingue locali e mostrava bei rotoli di dollari. Chi sa chi era davvero e come sono andate le cose. Anche di una piccola storia così è ormai diventato impossibile stabilire i fatti.

Già, i fatti. Tutta la vita ci son corso dietro convinto che lì - nei fatti accertati e sicuri - avrei trovato una qualche verità. Ora, a 63 anni, dinanzi a questa guerra appena cominciata e con l'inquietante presentimento di quel che seguirà, mi pare che i fatti sono solo un' apparenza e che la verità dentro di loro è al massimo come una bambola russa: appena la si apre se ne trova una più piccola ed ancora una più piccola, ed ancora una più piccola fino a che si resta con un minuscolo seme.

Frastornati dai dettagli di tanti fatti perdiamo sempre di più il senso dell' insieme. A che serve essere informati ora per ora sulla caduta di Mazar-i-Sharif e di Kabul quando queste ci sono presentate come «vittorie» e non ci rendiamo conto che, come umanità, stiamo comunque subendo alcune terribili sconfitte: quella di ricorrere ancora alla guerra come soluzione dei conflitti e quella di rifiutare la nonviolenza come la più grande prova di forza.

E' un vecchio detto che in tutte le guerre la verità è la prima a morire. In questa, la verità non ha fatto neppure in tempo a nascere. Spie, informatori, millantatori e mestatori pullulano ormai ovunque, specie in una città di frontiera come questa, ma il loro ruolo è diventato marginale. Quelli che davvero contano in questa guerra sono gli spindoctor, gli esperti in comunicazioni, gli addetti alle pubbliche relazioni. Sono loro ad offuscare il fondo di inutilità di questa guerra e ad impedire così all' opinione pubblica del mondo, specie quella dell' Europa, di prendere una posizione morale e creativa in proposito.

Un gruppo di questi scienziati-illusionisti è appena venuto da Washington a stabilirsi ad Islamabad per «gestire» le centinaia di giornalisti stranieri ora in Pakistan; un superesperto del ristretto gruppo che fino a ieri lavorava alla Casa Bianca è andato a stabilirsi al numero 10 di Downing Street per aiutare Tony Blair nel suo ruolo di imbonitore americano, quasi fosse lui e non Colin Powell il Segretario di Stato. La verità di questa guerra sembra essere così indicibile che ha costantemente bisogno di essere impacchettata, di essere «gestita», di essere oggetto di una astuta campagna di marketing. Ma così è diventato il nostro mondo: la pubblicità ha preso il posto della letteratura, gli slogan ci colpiscono ormai più della poesia e dei suoi versi.

L'unico modo di resistere è ostinarsi a pensare con la propria testa e soprattutto a sentire col proprio cuore. Due settimane fa ho lasciato Peshawar ed in compagnia dei miei due studenti di medicina, incontrati per caso, mi son messo in viaggio per il Pakistan. L'idea era di prendere la temperatura di questo «paese dei puri» (questo vuol dire Pakistan), nato nel 1947 dalla spartizione dell' Impero inglese in India per dare una patria ai musulmani, ed ora in prima linea di un conflitto in cui una delle tante poste è la sua stessa sopravvivenza.

L'idea era di vedere da vicino le conseguenze della guerra in Afghanistan di cui gli americani continuano a dire che «è solo la prima fase», per capire cosa succederà al resto del mondo - il nostro mondo, il mondo di tutti - quando questa guerra da qui si sposterà verosimilmente in Iraq, in Somalia, in Sudan, forse in Siria, in Libano e chi sa ancora dove. Sono più di 60 i paesi in cui, secondo Washington, si annidano i terroristi e chi non collaborerà con gli Stati Uniti a snidarli sarà considerato un nemico. Possibile che in Europa si siano levate così poche voci contro questa rigidità, quasi suicida, dell'America? Possibile che l'Europa sia stata, dopo la verità, l'altra grande vittima di questa guerra?

In questo viaggio, per evitare la trappola dei percorsi obbligati, predisposti dagli imbonitori, e quella degli alberghi di lusso, ormai tutti adibiti a tenere occupata la «stampa internazionale» con le quotidiane conferenze stampa, i comunicati e le interpretazioni di ex ministri e generali in pensione, abbiamo deciso di star lontani da tutto ciò che è ufficiale e di seguire la logica di quell' unico filo che a volte può essere davvero magico: il caso.

Così, passando da un incontro casuale a un altro, abbiamo fatto centinaia di chilometri da un angolo all' altro del paese, abbiamo parlato con decine di persone, abbiamo assistito al più grande raduno di musulmani del mondo - se si esclude quello dei pellegrini alla Mecca - ed alla fine abbiamo provocato un ordine di arresto nei nostri confronti da parte del ministro degli Interni del Baluchistan che ha sguinzagliato i suoi commando, per venirci a ripescare nella cittadina di Chaman, sulla linea di confine con l'Afghanistan, dove c'eravamo illusi di passare, inosservati, la notte.

Il tutto è cominciato in una casa da tè di quell' affascinante centro della vecchia Peshawar che ancora è il Bazar dei racconta-storie. Seduto, accanto a noi, sulla stuoia di paglia lisa e polverosa a bere kawa - un infuso di foglie non fermentate - da picco li bricchi smaltati, neri di sporco e di ammaccature, stava un uomo sui trent'anni con una barba foltissima e lo sguardo stranamente dolce e fermo. Ci siamo guardati; ci siamo parlati ed il pomeriggio è passato in un soffio con tutti gli altri avventori presto in cerchio a seguire, coinvoltissimi, la nostra conversazione.

Non so se tutto quel che Abu Hanifah mi ha raccontato era vero, ma, da una serie di controlli fatti poi con l'aiuto dei miei studenti, penso lo fosse. Diceva di essere nato « 35 o 37 anni fa» nella provincia di Ghazni in Afghanistan, di essere il comandante di 250 talebani, di aver combattuto contro gli indiani in Kashmir, di essere stato richiamato in Afghanistan dopo l'inizio dei bombardamenti e di essere arrivato la s era prima in Pakistan con un piccolo gruppo dei suoi per una missione.

Gli ho chiesto tutto quel che uno vorrebbe sapere dei talebani e le sue risposte erano pronte, precise e politicamente informate come quelle un tempo di un commissario politico cinese o vietcong. Diceva che le bombe e i missili non fanno loro paura («i gusci dei Cruise già vengono usati per fare dei minareti»), che la guerra comincerà sul serio solo quando le truppe americane scenderanno a terra e che i talebani non potranno mai essere completamente eliminati dall'Afghanistan perché «taleb vuol dire uno che ha studiato in una madrassa e in ogni famiglia afghana c'è ormai uno come me».

Diceva che anche la possibile morte del mullah Omar, ora il capo dei talebani, non ca mbierà nulla; il consiglio supremo dai saggi, la Shura, «è fatta di mille mullah Omar ed ognuno di loro può succedergli». Diceva che ogni città, ogni villaggio ha una struttura locale che rappresenta la Shura e che quella resterà in piedi e sarà la v era autorità per la popolazione anche quando i talebani, in certe fasi della guerra, dovessero essere costretti a cedere terreno ai nemici per poi tornare ad attaccarli. Forse si illudeva, ma sembrava convintissimo.

L'impressione che ho avuto di quell'uomo non era quella di un fanatico ignorante, imbevuto di superstizione come i giovani jihadi che avevo incontrato nei villaggi fuori Peshawar. Quelli credevano che le bombe americane sarebbero state fermate da miracolose mani che al momento giusto apparivano in cielo. Erano ottusi, indottrinati all'odio. Lui no. Sapeva che le armi degli americani sono «formidabili», ma diceva che alla fine dei conti l'arma più potente è quella della fede. Era riflessivo, informato sulle cose del mondo, cosciente. Più che un miliziano, mi pareva un monaco d'un ordine combattente, come da noi un tempo, forse, erano i Templari.

Ho chiesto a Abu Hanifah come era possibile per lui andare e venire in Pakistan, un paese prima legatissimo ai talebani, ma or a schierato contro di loro ed alleato degli Stati Uniti. Come era possibile per lui, ora «il nemico» della guerra contro il terrorismo essere lì, in una città pakistana, a prendere apertamente il tè con me? Ha riso lui ed han riso tutti quelli che avevamo attorno. Questa è la realtà: nonostante l' ufficiale rovesciamento di fronte e la drammatica presa di posizione del generale Musharraf a favore di Washington, il Pakistan resta nel fondo estremamente ambivalente nei confronti della guerra.

Il governo di Islamabad sa che i pashtun, sia quelli che vivono in Afghanistan sia quelli che vivono in Pakistan, si considerano una unica nazione e che il rischio di antagonizzarli è una guerra civile lungo i duemila chilometri della frontiera. Il rischio crescerà se l'Afghanistan verrà praticamente diviso in due con l'Alleanza del Nord in controllo di Kabul e delle regioni settentrionali, comunque abitate da non-pashtun, ed i talebani in controllo del Sud. Islamabad sa che, nonostante le recenti epurazioni volute da Washington, l'intero apparato statale pakistano, specie quello delle Forze Armate, è pieno di elementi che coi talebani sono legati a doppio filo: li hanno concepiti, li hanno tenuti a battesimo e ne condividono l'ideologia e la fede religiosa.

Non è certo un caso che la notte stessa in cui il generale Musharraf, su pressione degli americani, annunciò la rimozione del capo dei suoi servizi segreti, un incendio distrusse tutti i dossier riguardanti i talebani, le storie de i loro capi, le carte delle loro postazioni, delle loro caverne. Se gli americani avessero messo le mani su quei documenti la loro caccia a Osama Bin Laden ed al mullah Omar sarebbe stata molto più semplice. Inoltre Musharraf sa che la guerra americana in Afghanistan ha creato una grande simpatia per i talebani e che il mito di Bin Laden, «eroe dei poveri oppressi», «simbolo della rivolta musulmana contro l'arroganza della superpotenza infedele», si sta diffondendo fra le masse e potrebbe rivolgersi in ogni momento contro di lui, già descritto dai fondamentalisti come un kaffir, un infedele, uno che «mangia dollari americani». Il semplice fatto di aver sfidato gli Stati Uniti fa di Bin Laden un eroe popolare.

Dovunque sono stato in queste due settimane ho visto i suoi poster nelle rivendite dei giornali, la sua faccia sul retro degli autobus, dei trisciò, sui vetri delle macchine private, appiccicata ai carretti dei gelatai ambulanti. Le cassette coi suoi discorsi sono in tutti i bazar. Persino nei circoli della borghesia più agiata, quella che manda i figli a studiare in America, che ha legami economici con gli Stati Uniti e che appoggia il presidente Musharraf perché, «con la pistola americana puntata alla testa, non aveva altra scelta», ho sentito espressioni di odio anti-americano inconcepibili solo alcuni mesi fa. «Ormai c' è un piccolo Osama in ognuno di noi», mi spiegava, senza alcuna ironia, una elegante, ingioiellata signora della buona società di Lahore, durante un a cena. Era stato Abu Hanifah a farmi andare a Lahore. Mi aveva spiegato che la sua «missione» in Pakistan era di partecipare all' annuale riunione dei tablighi jamat e così l' ho seguito. Impressionante.

A 30 chilometri da Lahore, in una piana chiamata Raiwind, per tre giorni, oltre un milione di uomini (non ho visto una singola donna) venuti da ogni angolo del Pakistan e da varie parti del mondo si sono ritrovati all' ombra di immensi teloni bianchi; assieme, in una costante nuvola di polvere gialla sollevata dal vento, hanno pregato cinque volte al giorno, hanno ascoltato i discorsi degli anziani ed hanno riaffermato quell' incredibile legame di fratellanza musulmana che per noi occidentali è a volte difficile da capire, abituati come si amo a pensare sempre più al «mio» e sempre meno al «nostro».

I tablighi sono una strana, disciplinata e potente organizzazione. Formalmente sono dei missionari islamici dedicati non alla conversione degli infedeli, ma alla riforma in senso spirituale dei musulmani «caduti sotto l'influsso del materialismo occidentale». Ogni membro dell' organizzazione dedica, gratuitamente, quattro mesi all' anno a quest'opera di missione. A piccoli gruppi, senza mai leggere i giornali e mai guardare la televisione per non distrarsi, viaggiano nel paese, vivono nei villaggi più remoti e re-insegnano alla gente «la originaria via di Allah».

Con questo hanno una estesa rete di contatti ed una grande influenza, non solo in Pakistan, ma ormai in varie parti del mondo in cui sono presenti. Il loro segreto è che restano nell' ombra. I tablighi non cercano pubblicità, non vogliono che si scriva di loro, non permettono di essere fotografati, filmati ed i loro capi non danno interviste. I tablighi sostengono di essere per la nonviolenza, di non voler fare politica e non vanno per questo confusi coi fondamentalisti dei partiti islamici estremisti che qui manifestano contro il governo ed appoggiano apertamente Osama ed i talebani.

Eppure, passando ore ed o re in quella immensa, disciplinata congrega di uomini, tutti col loro berretto bianco o un turbante in testa a snocciolare i loro rosari, mi è parso ovvio che, nonostante tutte le apparenti differenze, c'è fra i tablighi, Osama ed i talebani una obiettiva coincidenza di interessi ed una implicita solidarietà. E questa va capita perché, per estensione, coinvolge ogni musulmano in ogni parte del mondo. Osama ha innanzitutto un obiettivo politico: la liberazione dei luoghi sacri dell' Islam dalla presenza degli infedeli e dalla dinastia ora regnante, definita da lui corrotta. In altre parole, Osama vorrebbe prendere il potere in Arabia Saudita.

Il suo secondo obiettivo è riportare quel paese, i cui sudditi qui in Pakistan ad esempio sono popolarmente conosciuti come «sesso ed alcool», ad una forma di Islam più puro e spirituale. Siccome vede gli Stati Uniti come i protettori dell'attuale regime saudita ed i corruttori del mondo islamico in genere, Osama ha dichiarato la sua jihad. Con l 'aspetto politico di tutto questo i tablighi hanno poco o nulla a che fare. Molto invece con l' aspetto religioso. Anche loro vogliono tornare ad un Islam più spirituale. Ed in questo simpatizzano di fondo con Osama ed i talebani.

Ma c'è di più. I tablighi, come molti altri elementi non necessariamente fanatici ed estremisti dell'universo islamico, hanno una più generica e più esistenziale aspirazione: quella semplicemente di condurre un'esistenza diversa dalla nostra, di vivere secondo altri principi, di stare fuori dai meccanismi internazionali che loro vedono dominati da leggi e valori di stampo esclusivamente occidentale.

Nelle conversazioni con tanti e diversi tipi di musulmani in Pakistan ho notato un continuo riferimento a una sorta di violenza di cui molti dicono ora di sentirsi vittime. La causa? Il confronto con l'Occidente. A torto o a ragione, molti percepiscono la globalizzazione come uno strumento della nostra «civiltà atea e materialistica» che, appunto attraverso l'espansione dei mercati, diventa sempre più ricca e più forte a scapito del loro mondo. Con una certa paranoia anche i musulmani più colti di questo Paese vedono in ogni mossa dell'Occidente, compreso il conferimento del premio Nobel della letteratura a V.S. Naipaul, un attacco all'Islam. Da qui la reazione difensiva e il ricorrere all'Islam come a un rifugio. La religione diventa l'arma ideologica contro la modernità, vista come occidentalizzazione. Per questo anche i moderati come i tablighi, senza voler essere jihadi , finiscono per simpatizzare con i talebani e con Osama.

Questo è il problema che abbiamo dinanzi: un problema che non si risolve con le bombe, che non si risolve andando in giro per il mondo a rovesciare regimi che non ci piacciono per rimpiazzarli con vecchi re in esilio o coalizioni di convenienza messe assieme in qualche lontana capitale.

Osama può anche venir stanato dall'Afghanistan; i talebani possono anche essere sgominati e ridotti ad una forza annidata nelle montagne ad alimentare una nuova guerriglia, ma il problema di fondo resta. Le bombe non fanno che renderlo più virulento.

A noi può parere strano, ma c'è oggi nel mondo un crescente numero di gente che non aspira ad essere come noi, che non insegue i nostri sogni, che non ha le nostre aspettative e i nostri desideri. Un commerciante di tessuti di 60 anni, incontrato al raduno dei missionari tablighi me lo ha detto con grande semplicità: «Non vogliamo vivere come voi, non vogliamo vedere la vostra televisione, i vostri film. Non vogliamo la vostra libertà. Vogliamo che la nostra società sia retta dalla sharia , la legge coranica, che la nostra economia non sia determinata dalla legge del profitto.

Quando io alla fine di una giornata ho già venduto abbastanza per il mio fabbisogno, il prossimo cliente che viene da me, lo mando a comprare dal mio vicino che ho visto non ha venduto nulla», mi ha detto. Mi son guardato attorno. E se tutta quella enorme massa di uomini - l'ultimo giorno si dice fossero un milione e mezzo - la pensasse davvero come lui?

Ero curioso. Nella folla avevo perso le tracce di Abu Hanifah, ed ho chiesto a quel commerciante se potevo andarlo a trovare a casa sua. Mi ha dato l'indirizzo. Veniva da Chaman, una cittadina sulla linea di confine esattamente a mezza strada fra Quetta, capitale del Baluchistan pakistano, e Kandahar, il centro spirituale del Mullah Omar in Afghanistan. Chaman è praticamente chiusa agli stranieri e l'unico modo di andarci è in un convoglio scortato dalla polizia e con un permesso speciale rilasciato a Quetta. È così che sono finito in questa locanda.

Facendo la prima passeggiata per orientarmi, ho scoperto che ero vicino all'ospedale della città dove ogni giorno arrivano i feriti civili dei bombardamenti americani su Kandahar. E lì ho conosciuto «Abdul Wasey, 10 anni, afghano, vittima di missile Cruise, gamba fratturata», come dice un cartello scritto a mano ed attaccato al muro scortecciato dietro il suo letto sporco e polveroso. È pallidissimo e magro come un'acciuga. Un mattone legato con una corda al suo calcagno penzola dal fondo del letto per tenergli immobile la gamba ingessata. L'altra, solo pelle ed ossa, è come il palo di una granata.

Abdul giocava a cricket con i suoi amici in un prato quando sono stati colpiti. Gli altri sette son morti. Il padre l'ha portato qui con un fratello di 14 anni che ora gli tiene compagnia. Lui è tornato in Afghanistan. L'ospedale è pieno. Ogni letto è una storia, ma ho sentito che la mia curiosità non era benvenuta. E poi a che serve saperne di più? A che serve sapere che i missili Cruise che hanno ammazzato gli amici di Abdul, stroncato la gamba a lui e fatto tutti i disgraziati che giacciono immobili e muti in questo sudicio ospedale di provincia, raggiunto come una grande speranza alla fine di una giornata di viaggio, sono caduti dove son caduti a causa di una «errata impostazione del computer»? Quei missili dovremmo semplicemente smettere di produrli.

Il convoglio per Chaman parte da Quetta, a volte sì a volte no, la mattina alle dieci. L'idea è di portare un gruppetto di giornalisti autorizzati al posto di frontiera, farli restare al massimo un paio d'ore e poi riportarli a Quetta. I pakistani non vogliono rendere troppo pubblici i tanti traffici che avvengono a quel confine e si dice che incoraggino i ragazzini dei campi profughi a prendere a sassate i visitatori per tenerli lontani. Odio questo tipo di visite guidate e, appena messo piede a Chaman, coi miei due studenti, ci siamo dileguati. La popolazione era ostile e non ce l'abbiamo fatta a raggiungere la casa del nostro mercante di stoffe. Ci ha salvati una delle piccole ambulanze di Abdul Saddar Edhi, il «santo» di Karachi, che vanno oltre la frontiera a prendere i feriti.

Nel pomeriggio sono riuscito ad incontrare una delegazione di talebani a cui ho consegnato una richiesta di visitare Kandahar il giorno dopo, ma non ho potuto passare la notte a Chaman. La polizia ci ha trovati e, dopo qualche calcio ai miei studenti ed un po' di diplomazia da parte mia, siamo stati rilasciati.

Anche lì il caso ci ha dato una mano. Stavamo tornando a Quetta, seguiti a vista da una jeep carica di commando, quando la nostra macchina, proprio in cima al passo di Khojak, ha forato concedendomi una sosta d'una decina di minuti e con ciò una grandiosa, indimenticabile visione dell'Afghanistan e della assurdità di quel che l'Occidente, con l'America in testa, cerca di farci. Il sole era appena tramontato ed una mezza luna diafana cominciava ad argentarsi nel cielo di pastello sopra una distesa di montagne. A volte rosa, a volte violette o color ocra, brulle, eppure vive, erano come le onde di un oceano congelato dall'eternità.

Su una vetta vicina, una decina di camionisti avevano disteso i loro tappetini da preghiera sulla polvere e come ritagli neri di carta contro quell'immensità si inchinavano ritmicamente verso Occidente, sapendo che altri milioni di musulmani in quello stesso momento facevano nella stessa direzione gli stessi gesti con lo stesso pensiero diretto allo stesso, indescrivibile dio che li tiene tutti uniti in una comunione che a noi ormai sfugge.

Ripensavo alla mia ultima domenica a Firenze, dopo l'11 settembre, quando ho fatto il giro delle chiese giusto per sentire cosa vi si diceva. Niente. Una grande delusione. Da San Miniato, a Santo Spirito, a Santa Maria Novella tutti i sacerdoti leggevano lo stesso passo del Vangelo, tutti facevano gli stessi generici discorsi, senza un solo riferimento alla vita di oggi, ai problemi e alle angosce della gente per quel che sta succedendo nel mondo. Qui in Pakistan ogni venerdì le moschee tuonano, a volte delirano, ma con ciò legano i fedeli, dando loro qualcosa, magari di sbagliato, a cui pensare, a cui dedicarsi. Da noi la Chiesa preferisce ancora tacere, invece che rompere i ranghi dell'ortodossia politica e far sentire con fermezza una sua voce di pace.

Guardavo la sequenza infinita delle montagne scurirsi rapidamente e mi chiedevo come potranno mai gli americani trovare in quel labirinto lunare la caverna in cui si nasconde Osama. Si dice che ce ne siamo almeno 8.000, ognuna con tunnel lunghi a volte chilometri, con varie entrate, con vari livelli. Ed anche se lo trovano? La guerra, così come è stata annunciata, non finirà qui.

Pensata da quel passo fra le montagne l'Europa mi pareva lontanissima, così come sono certo che quel che succede qui pare lontano all'Europa. Eppure non è così. Quel che avviene in Afghanistan è vicinissimo, ci riguarda. Non solo perché la caduta di Kabul è tutt'altro che la soluzione ai problemi dell'Afghanistan, ma perché l'Afghanistan «è solo la prima fase». L'Iraq, la Somalia, il Sudan sono molto più vicini.

Che faremo quando Bush vorrà andare a bombardare là? Abbiamo fatto i conti con i musulmani che vivono fra di noi e che ora possono essere indifferenti alla guerra in Afghanistan, ma meno quando verranno bombardate le loro case? Vogliamo anche noi partecipare alle uccisioni di stile israeliano di tutti quelli che la Cia deciderà di mettere sulle sue liste nere?

Sarebbe molto più saggio - mi pare - che ora l'Europa dissentisse e che, invece di lasciare i suoi vari governi a fare singolarmente la loro parte di «satelliti» di Washington, si esprimesse con una sola voce ed aiutasse, da vera amica ed alleata, l'America a trovare una via d'uscita dalla trappola afghana. Giorni fa un giornale in lingua Urdu argomentava convincentemente che i vari paesi che ora in un modo o in un altro incoraggiano gli americani ad impegnarsi in Afghanistan, in fondo lo fanno sperando che gli americani ci si impantanino e che la loro credibilità di grande potenza venga messa in discussione. Iran, Cina, Russia ed al limite lo stesso Pakistan, hanno buone ragioni di risentimento contro gli Stati Uniti e grandi preoccupazioni per questa nuova presenza militare americana nel cuore dell'Asia Centrale. L'Europa non è in alcun modo in questa posizione.

Allo stesso modo però l'Europa non può essere del tutto indifferente alla possibilità che gli Stati Uniti perseguano, dietro il paravento di questa guerra internazionale al terrorismo, un progetto tutto loro per la realizzazione di un nuovo ordine mondiale che persegua esclusivamente l'interesse nazionale americano.

Il gruppo ora al potere a Washington, formato principalmente da veterani della Guerra Fredda, con in testa il Segretario alla Difesa Rumsfeld, fa pensare che questa tentazione possa essere reale. È quel gruppo, legato fra l'altro agli interessi dell'industria bellica, che ha da sempre contestato i trattati per la limitazione degli armamenti ed ora ne chiede l'abrogazione; è quel gruppo che ha sostenuto la necessità della superiorità nucleare americana ed ha in passato detto che le armi atomiche son fatte per essere usate e non per restare per sempre ferme nei silos.

Con la fine della Guerra Fredda e la scomparsa di una vera minaccia, quell'America ha visto con preoccupazione il ridursi progressivo della spesa militare Usa ed ha fatto di tutto per identificare un nuovo nemico che giustificasse il rottamaggio dei vecchi armamenti e la produzione di tutta una serie di nuovi sistemi bellici «intelligenti» per il campo di battaglia tecnologico del ventunesimo secolo. Un primo candidato a questo ruolo di «nemico» è stata la Corea del Nord, finché non si è scoperto che il paese moriva letteralmente di fame ed era molto improbabile che si mettesse a sfidare la potenza americana. Poi è stata la volta della Cina, ma è risultato difficile sostenere che Pechino potesse minacciare più che l'isola di Taiwan, visto che non ha ancora neppure un bombardiere a lungo raggio. A questo punto è spuntata l'ipotesi dell'Islam, «nemico» contro cui difendersi nell'appena inventato «scontro di civiltà».

Il massacro dell'11 settembre ha reso quel nemico estremamente credibile ed ha permesso all'America di varare tutta una politica che sarebbe stata altrimenti inaccettabile. Il nemico è stato ora identificato nei «terroristi» ed il processo di demonizzazione nei confronti di quelli che Washington definisce tali è cominciato. I primi a farne le spese sono stati i talebani ex mujaheddin ed Osama Bin Laden creature loro stesse, non va dimenticato, dell'America quando questa aveva bisogno di loro per combattere l'Unione Sovietica.

L'Europa non può seguire, senza una pausa di riflessione, l'America su questa strada. L'Europa deve rifarsi alla propria storia, alla propria esperienza di diversità al fine di trovare la forza per un dialogo e non per uno scontro di civiltà.

La grandezza delle culture è anche nella loro permeabilità. Basta non affrontarsi a colpi di aerei carichi di civili innocenti e di bombe sganciate, seppur per sbaglio, su chi non è responsabile di nulla. Anche dei fondamentalisti islamici come i talebani possono, pur a loro modo, cambiare. Fossero stati riconosciuti come il governo legittimo dell'Afghanistan nel 1996 quando presero il potere, forse le statue di Bamyan sarebbero ancora al loro posto e forse ad Osama Bin Laden non sarebbe stato steso il tappeto rosso. Anche i talebani vivono nel mondo e debbono, a loro modo, adattarvisi.

Quando sono andato al consolato afghano di Quetta per sollecitare la mia domanda del visto per Kandahar, il diplomatico talebano che mi ha ricevuto aveva sulla scrivania un bel, moderno computer. Forse guardava in Internet le ultime notizie sul suo paese per indovinare quanto ancora sarebbe rimasto al suo posto, ora che Kabul è caduta.

Tornando alla locanda, mi fermo all'ospedale a salutare Abdul Wasey. Il corridoio è affollato di afghani appena arrivati con nuovi feriti. Nel letto accanto a quello di Abdul c'è ora un uomo sulla cinquantina col ventre squarciato da una scheggia. Mi vede entrare e dare ad Abdul due cose che ho portato. Raccoglie faticosamente il fiato ed urla: «Prima vieni a bombardarci, poi a portarci i biscotti. Vergogna».

Non so cosa fare. Cerco dentro di me delle giustificazioni, delle parole da dire. Poi penso ai soldati francesi, tedeschi ed italiani che presto si uniranno a questa guerra e mi rendo conto che, alla fine di una vita in cui ho sempre visto feriti e morti fatti da altri, mi toccherà ancora a vedere, in questo ospedale o altrove, le vittime delle mie bombe, delle mie pallottole. E mi vergogno davvero.


 

IL VENDITORE DI PATATE E LA GABBIA DEI VECCHI LUPI

 

di Tiziano Terzani

 

 

KABUL - La vista è stupenda. La più bella che potessi immaginarmi. Ogni mattina mi sveglio in un sacco a pelo disteso sul cemento e qualche piastrella di plastica d’uno stanzone vuoto all’ultimo piano del più alto edificio del centro città e gli occhi mi si riempiono di tutto quel che un viaggiatore diretto qui ha sempre sognato: la mitica corona delle montagne di cui un imperatore come Babur, capostipite dei Moghul, avendole viste una volta, ebbe nostalgia per il resto della vita e desiderò che fossero la sua tomba; la valle percorsa dal fiume sulle cui sponde è cresciuta la città a proposito della quale un poeta, giocando sulle due sillabe del nome Kabul in persiano, scrisse: «La mia casa? Eccola: una goccia di rugiada fra i petali di una rosa»; il vecchio Bazaar dei Quattro Portici dove, si diceva, è possibile trovare ogni frutto della natura e del lavoro artigiano; la moschea di Puli-i-Khisti; il mausoleo di Timur Shah. Il santuario del Re dalle Due Spade costruito in onore del primo comandante musulmano che nel Settimo secolo dopo Cristo, pur avendo già perso la testa, mozzatagli da un fendente, continuò - secondo la leggenda - a combattere con un'arma per mano, determinato com'era ad imporre l'Islam, una nuova, aggressiva religione appena nata in Arabia, ad una popolazione che qui, da più d'un millennio, era felicemente indù e buddhista; e poi, alta, imponente sulla cresta della prima fila di colli, proprio di fronte alle mie vetrate, la Fortezza di Bala Hissar nella cui Residenza hanno regnato tutti i vincitori e nelle cui galere han languito, o sono stati sgozzati, tutti i perdenti della storia afghana.

La vista è stupenda, ma da quando sono arrivato, più di due settimane fa, con in tasca una lettera di presentazione per un vecchio intellettuale, nella borsa una bibliotechina di libri-compagni-di-viaggio e in petto un gran misto di rabbia e di speranza, questa vista non mi dà pace. Non riesco a goderne perché mai, come da queste finestre impolverate, ho sentito, a volte quasi come un dolore fisico, la follia del destino a cui l'uomo, per sua scelta, sembra essersi votato: con una mano costruisce, con l'altra distrugge; con fantasia dà vita a grandi meraviglie, poi con uguale raffinatezza e passione fa attorno a sé il deserto e massacra i suoi simili.

Prima o poi quest'uomo dovrà cambiare strada e rinunciare alla violenza. Il messaggio è ovvio. Basta guardare Kabul. Di tutto quel che i miei libri raccontano non restano che i resti: la Fortezza è una maceria, il fiume un rigagnolo fetido di escrementi e spazzatura, il bazaar una distesa di tende, baracche e container ; i mausolei, le cupole, i templi, sono sventrati; della vecchia città fatta di case in legno intarsiato e fango non restano, a volte in file di centinaia e centinaia di metri, che dei patetici mozziconi color ocra come sulla battigia le guglie dei castelli di sabbia costruiti da bambini e subito espugnati dalle onde.

Tanti monumenti sono letteralmente scomparsi. L'enigmatico Minar-i-Chakari , Colonna della Luce, costruito, fuori Kabul sulla vecchia via di Jalalabad, nel Primo Secolo dopo Cristo, forse per commemorare l'illuminazione di Buddha, non ha resistito alle cannonate e dal 1998 non è che un triste cumulo di antichi sassi.

Kabul non è più, in nessun senso, una città, ma un enorme termitaio brulicante di misera umanità; un immenso cimitero impolverato. Tutto è polvere ed ho sempre di più l'impressione che nella polvere che mi annerisce costantemente le mani, che mi riempie il naso, che mi entra nei polmoni, in questa polvere c'è tutto quel che resta di tutte le ossa, di tutte le reggie, le case, i giardini, i fiori e gli alberi che hanno un tempo fatto di quella valle un paradiso. Settanta diversi tipi di uva, trentatré tipi di tulipani, sei grandi giardini folti di cedri erano il vanto di Kabul. Non c'è assolutamente più nulla. E questo non per una maledizione divina, non per l'eruzione di un vulcano, lo straripamento di un fiume o una qualche altra catastrofe naturale. Il paradiso è finito una volta e poi di nuovo e poi tante altre volte per una sola, unica causa: la guerra. La guerra degli invasori di secoli fa, la guerra del secolo scorso e dell'inizio di questo secolo portata qui dagli inglesi - che ora, poco delicatamente, son voluti tornare a capo della «Forza di pace» -, la guerra degli ultimi vent'anni, quella a cui tutti, in un modo o nell'altro, magari solo vendendo armi ad uno dei tanti contendenti, abbiamo partecipato; ed ora la guerra americana: una fredda guerra di macchine contro uomini.

Forse è l'età che mi ha fatto sviluppare una sorta di isterica sensibilità per la violenza, ma dovunque poso lo sguardo vedo buchi di pallottole, squarci di schegge, vampate nere di esplosioni ed ho l'impressione di esserne trafitto, mutilato, bruciato. Forse ho perso, se l'ho mai avuta, quella obbiettività dell'osservatore non coinvolto, o forse è solo il ricordo di un verso che Gandhi recitava nella sua preghiera quotidiana, chiedendo di potersi «immaginare la sofferenza degli altri» per poter capire il mondo, ma davvero non riesco ad essere distaccato come se questa storia non mi riguardasse.

Dall'alto della mia finestra vedo un uomo camminare lento e voltarsi continuamente a guardare una giovane donna che gli arranca dietro senza una gamba. Forse è sua figlia. Anch'io ne ho una e solo ora, per la prima volta nella vita, penso che potrebbe saltare su una mina. Il freddo ora screpola la pelle e vedo gruppi di bambini-mendicanti che accendono dei falò con sacchetti e pezzi di plastica trovati nei cumuli di spazzatura. Ho un nipote di quell'età e mi immagino lui a respirare quell'aria puzzolenta e cancerogena pur di scaldarsi. Dopo giorni di ricerca sono finalmente riuscito a rintracciare l'anziano signore per il quale avevo una lettera di presentazione: l'ex curatore del Museo di Kabul. L'ho trovato al bazaar di Karte Ariana dove ora, per campare la famiglia, vende patate. Avrebbe potuto succedere a me; potrebbe ancora succedere ad ognuno di noi: a causa di una guerra.

Mi hanno raccontato che, durante il periodo più duro della guerra, fra il 1992 ed il 1996 quando quelle stesse fazioni dell'Alleanza del Nord che ora governano Kabul, ma che allora avevano fatto di questa città il loro campo di battaglia ed il loro mattatoio (più di 50.000 furono i morti civili), i grandi container di ferro, arrivati via mare e poi via Pakistan pieni delle armi e munizioni americane per la jihad contro l'Unione Sovietica, venivano usati dai gruppi di mujaheddin come prigioni per i loro nemici e che a volte, per rappresaglia, i prigionieri ci venivano dimenticati dentro, a volte arrostiti bruciandoci attorno taniche di benzina. Non so se sia vero, ma non riesco più a guardare uno di questi container - e ce ne sono a migliaia, dappertutto, riciclati in abitazioni, negozi ed officine - senza ripensare a quella storia.

Ogni oggetto, ogni muro, ogni faccia qui è segnata, mi pare, da questa orribile violenza che è stata ed è ancora - ora, in questo momento, mentre scrivo - la guerra.

Neppure l'alba, dopo una notte di dormiveglia col rombo intermittente dei B-52 che passano alti, è rincuorante a Kabul. Il sole sembra un incendio dietro il paravento delle montagne che rimangono a lungo come ritagli di carta scura contro l'orizzonte. Capita che, mentre la città è ancora tutta nell'ombra, un solitario B-52 si illumini improvvisamente dei primi raggi dorati e diventi come un misterioso, inquietante, uccello da preda intento a scrivere con le sue quattro code di fuoco strani messaggi di morte nel cielo nero-turchese.

I B-52 non sono qui soltanto per bombardare i rifugi degli uomini di Bin Laden o i convogli sospetti in cui potrebbe nascondersi il Mullah Omar. Son qui per ricordare a tutti chi sono i nuovi poliziotti, i nuovi giudici, i nuovi padroni-burattinai di questo paese. L'alzabandiera americano, messo in scena lunedì scorso, giorno della grande festa musulmana di Id, alla fine del Ramadan, era fatto esattamente per dire questo, con la banda dei marines che intonava il «Dio salvi l'America», i discorsi di circostanza, il picchetto d'onore ed il lento, lentissimo issare del vessillo a stelle e strisce sul pennone del giardino. Varie rappresentanze hanno riaperto a Kabul i loro battenti; diplomatici iraniani, turchi, francesi, cinesi, inglesi ed italiani hanno rispolverato le scrivanie e tirato su la bandiera; nessuno ha fatto di questa routine un tale evento.

Gli americani hanno una loro sorta di ossessione con la bandiera. Quella che hanno rimesso sulla ambasciata di Kabul è la stessa che avevano ammainato nel 1989. Ma non era la prima che gli Stati Uniti ripiantavano sul suolo afghano. Quella l'hanno issata i marines nella loro base alla periferia di Kandahar agli inizi della campagna militare. La base è stata battezzata «Campo Giustizia» e la bandiera, tanto perché sia chiaro che «giustizia» in questo caso vuol dire soprattutto «vendetta», porta le firme dei familiari delle vittime delle Torri Gemelle.

Gli afghani non hanno alcuna difficoltà a capire questo tipo di cose. Nel 1842 il grande Bazaar dei Quattro Portici con i suoi famosi disegni murali e le sue decorazioni floreali venne raso al suolo e saccheggiato dalle truppe inglesi per vendicare l'uccisione di due emissari di Londra ed il successivo sterminio, da parte degli afghani, di un corpo di spedizione di 16.000 uomini e dipendenti sulla via da Kabul a Jalalabad (solo un medico sopravvisse a raccontare la storia). Nel 1880 furono di nuovo gli inglesi, dopo aver impiccato nel cortile della Fortezza 29 capi afghani di una nuova rivolta indipendentista, a radere al suolo gran parte di Bala Hissar «perché - come scrisse il generale di Sua Maestà che diresse l'operazione - indelebile resti il ricordo di come sappiamo vendicare i nostri uomini».

Con questo tipo di «ricordi» a cui fanno riferimento vari monumenti e nomi di strade e quartieri nella Kabul moderna, sarebbe certo stato più corretto da parte di quella misteriosa entità che si definisce «comunità internazionale» e che in verità sembra sempre di più essere un club ad uso e consumo degli Stati Uniti, affidare il comando della «Forza di pace» ad un Paese che non fosse, come l'Inghilterra, identificato qui col colonialismo, l'aggressione ed un poco meritevole record: il bombardamento aereo di Kabul e della sua popolazione civile da parte dell'aviazione inglese nel 1919 fu il primo nella storia.

Secoli prima gli afghani avevano conosciuto un'altra ed ancor più memorabile vendetta. Passando per la piana di Bamiyan nel 1221, Gengis Khan aveva visto morire suo nipote, colpito da una freccia afgana, ed aveva ordinato che in quella valle non fosse lasciato alcun segno di vita. Per giorni i soldati mongoli sgozzarono ogni uomo, donna, bambino ed animale fino a che, si dice, le spade erano senza filo e le braccia stanche; poi segarono ogni albero e sradicarono ogni pianta. Fu così che per centinaia d'anni i grandi Buddha scolpiti nella roccia, ma già spogli dell'oro originale che li ricopriva, guardarono con gli occhi vuoti nella valle... aspettando che altri guerrieri, questa volta i Talebani, armati di bazooka, venissero a vendicarsi contro la «comunità internazionale» che si rifiutava, contro ogni evidenza, di riconoscerli come i legittimi governanti dell'Afghanistan.

Ora tocca ai Talebani essere vittime degli americani che vogliono vendicare i loro morti e soprattutto vogliono ristabilire nel mondo l'idea della loro invulnerabilità. Il fatto che i Talebani non siano direttamente - e forse neppure indirettamente - responsabili di quei morti è ormai irrilevante. Così come è irrilevante che gli afghani, certo non coinvolti nel massacro delle Torri Gemelle, siano stati i primi a pagare il conto di quella vendetta. Quanto caro sia stato resta un mistero.

Questa è una guerra seguita da centinaia di giornalisti, una guerra a cui è certo dedicata più carta stampata e più ore televisive di qualsiasi altra guerra precedente, eppure è una guerra che gli Stati Uniti con grande determinazione riescono a mantenere invisibile e di cui non faranno mai sapere l'intera verità.

Ci sono in questa guerra domande a cui gli Stati Uniti si rifiutano di rispondere e che per questo nessuno pone già più. Eccone alcune: quante sono state finora le vittime civili - quelle assolutamente innocenti - dei bombardamenti americani? A mio parere già più delle vittime delle Torri Gemelle. Quante sono state le vittime fra i militari Talebani? A mio parere oltre diecimila.

La sola prova che ho è piccola, ma significativa. Prima di venire in Afghanistan sono ripassato da Peshawar e sono tornato nella regione pakistana dominata dai fondamentalisti islamici dove, subito dopo l'inizio dei bombardamenti, avevo incontrato i giovani che partivano, entusiasti, per la jihad. Bene, ne ho rivisto uno che era appena riuscito a tornare: sconfitto. I bombardamenti a tappeto dei B-52, raccontava, erano stati terrificanti e micidiali. Assieme ai suoi compagni era andato per combattere gli americani, ma di quelli non aveva visto neppure l'ombra. Aveva solo sentito i loro aerei rombare in cielo e visto i devastanti risultati delle loro bombe attorno a sé. Di un gruppo di 43 erano sopravvissuti solo in tre. Se è successo lo stesso là dove i Talebani han cercato di resistere e mantenere il controllo del terreno, come hanno fatto per settimane a Kandahar, le loro perdite debbono essere state considerevoli.

Un'altra improponibile domanda è questa: che cosa è successo alle centinaia di famiglie degli arabi venuti in Afghanistan a combattere, per conto degli americani, la jihad contro i sovietici e rimasti poi qui al seguito di Osama Bin Laden? La casa accanto a quella del mio «venditore di patate» era abitata da un gruppo di famiglie così. «C'erano varie donne ed almeno una decina di bambini. Una notte sono tutti partiti su dei camioncini», dice. Dove sono ora?

Il mio giovane jehadi fuori Peshawar raccontava che, tornando verso il Pakistan, aveva incontrato dei combattenti arabi che andavano dai contadini pashtun della regione a pregarli di prendere con sé le loro mogli ed i figli, facendosi promettere che si sarebbero occupati di loro. Come certi bambini ebrei lasciati a dei contadini ariani perché sopravvivessero alle retate naziste. Che colpe hanno quella gente? Chi si occuperà di loro?

Ci sono centinaia di migliaia di afghani (250.000 soltanto a Maslakh, vicino ad Herat) che per sfuggire ai bombardamenti americani sono finiti in zone remote del paese dove ora, a causa della neve, è impossibile far arrivare loro del cibo e che già muoiono di fame e rischiano di scomparire in massa. Ma la loro è una tragedia che passa inosservata: disturba il quadro positivo che i portavoce della Coalizione Internazionale contro il Terrorismo intendono presentare al mondo e, tranne qualche inorridito e ribelle funzionario delle Nazioni Unite, nessuno ne parla, nessuno si indigna. Se qualcuno solleva qualche dubbio la risposta è ormai sempre la stessa: «Ricordatevi dell'11 settembre», come se quelle vittime potessero giustificare tutto, come se quelle vite fossero diverse dalle altre e comunque valessero molto, molto di più.

Una forma di violenza si aggiunge ad un'altra. Solo interrompendo questo ciclo si può sperare in una qualche soluzione, ma nessuno sembra disposto a cominciare. Fra le tante organizzazioni non governative che si affollano ora in Afghanistan a portare, coi soldi dei vari governi, la loro versione di umanità e di aiuti, non ho sentito di nessuna che intenda venire qui a lavorare per la riconciliazione, a proporre la non violenza, a far riflettere gli afghani - e forse anche gli altri - sulla futilità della vendetta. E, mio Dio, se ce ne sarebbe bisogno! Raramente ho visto un paese così imbevuto di violenza, di ostilità, così propenso alla guerra. Dovunque mi rivolgo sento odio. I Tagiki odiano i Pashtun, gli Uzbeki odiano i Tagiki, i Pashtun odiano gli Uzbeki e tutti odiano gli Hazara, visti ancora oggi come i discendenti delle orde mongole - il loro nome significa «a migliaia» - ed eredi di Gengis Khan.

Ho sempre creduto che la sofferenza fosse una maestra di saggezza e venendo in Afghanistan pensavo di trovare qui, dopo tanta sofferenza un terreno fertile per una riflessione sulla non-violenza ed un impegno alla pace. Per niente! Neppure là dove sarebbe più ovvio.

Il centro ortopedico del Comitato Internazionale della Croce Rossa, è uno dei posti più commoventi di Kabul, un concentrato di dolore e di speranza, diretto da un torinese, schivo ed efficiente, Alberto Cairo. Lui è la sola persona del Centro ad avere due mani e due gambe. A tutti gli altri, pazienti ed impiegati, medici e tecnici manca regolarmente qualcosa. Persino l'uomo delle pulizie è senza una gamba. «Lavorare qui serve a noi a sentirci utili e serve a chi arriva qui, avendo perso un pezzo di sé, a vedere che è possibile continuare a vivere», dice l'uomo che mi accompagna. Era un traduttore. Un giorno, tornando a casa in bicicletta, un cecchino della Alleanza del Nord lo ha centrato in una gamba spappolandogliela sopra al ginocchio. «Se non è morto, quel tipo è ora di nuovo a Kabul», ho commentato come soprappensiero, «Lei lo ha perdonato?». «No.No. Se potessi lo ammazzerei con le mie mani», mi ha risposto. Tutti quelli che ci stavano a sentire erano d'accordo.

Nella sezione delle donne una ragazzina di 13 anni, impara a camminare con un nuovo piede di plastica, andando lentamente lungo un tracciato di orme rosse sul pavimento. Un giorno, sei mesi fa la madre le ha chiesto di andare a cercare un po' di legna per il fuoco. Poco dopo ha sentito una esplosione e le urla. Chiedo alla fisioterapista che l'aiuta, anche lei senza una gamba, persa anni fa su una mina nascosta nel cortile della scuola, se pensa possibile un mondo senza guerra. Ride come avessi raccontato una barzelletta. «Impossibile. Impossibile», dice.

Ogni politico in visita a Kabul si fa vedere al centro di Alberto Cairo e porta aiuti perché lui continui il suo convincentissimo lavoro. Quel che nessuno ha il coraggio di dire è che l'unico modo di metter fine a quel lavoro, agli aiuti ed alle visite dei politici è quello di proibire, ora, subito il commercio e la costruzione di tutte le mine in tutto il mondo. Che la «comunità internazionale» mandi una «Forza di pace» a smantellare qualsiasi fabbrica, dovunque si trovi!

Cairo è in Afghanistan da 12 anni e conta di restarci il resto della vita. Di lavoro ne ha: oltre al milione di vecchie mine, ci sono ora tutte quelle nuove lanciate dagli americani. Anche lui sorride della mia speranza in un mondo senza guerra. «In Afghanistan la guerra è il sale della vita», dice, «la guerra è più saporita della pace». Il suo non è cinismo; è rassegnazione.

Ma io non posso rassegnarmi anche se mi rendo conto che quello che stiamo vivendo è un momento particolarmente tragico per l'umanità. Da settimane tutto quello che vedo e che sento a proposito di questa guerra sembra fatto per dimostrare che l'uomo non è affatto la parte più nobile della creazione e che nel suo cammino di incivilimento sta subendo ora, davanti a noi, con la nostra partecipazione, una grande battuta d'arresto.

Proprio all'inizio del terzo millennio, all'inizio di quella che tanti giovani pensavano fosse «l'Era Nuova», l'uomo ha innescato un pericolosissimo processo di nuova barbarie. Proprio quando una serie di regole del convivere umano parevano assicurate e condivise dai più, tutto è stato sconvolto e l'amministrazione della morte altrui torna ad essere una routine tecnico-burocratica come alla fine per Eichmann era diventato il trasporto degli ebrei: sotto gli occhi di soldati occidentali, a volte con la loro attiva partecipazione, prigionieri con le mani legate dietro la schiena vengono fucilati ed il massacro, definito convenientemente una «rivolta carceraria» viene archiviato. Interi villaggi di contadini la cui unica colpa è di essere nelle vicinanze di una montagna chiamata Tora Bora vengono rasi al suolo dai bombardamenti a tappeto con centinaia di vittime, ma la loro esistenza viene spudoratamente negata ripetendo che tutti gli obbiettivi colpiti sono militari. Una personalità di rilievo come il Segretario alla Difesa Rumsfeld descrive i combattenti di Osama Bin Laden come «animali feriti», per questo particolarmente pericolosi e con ciò possibilmente da abbattere anche quando il rifiutare la resa di un combattente disarmato è un crimine di guerra secondo le Convenzioni di Ginevra. Il fatto che le quasi quotidiane apparizioni del Segretario Rumsfeld al podio del Pentagono siano diventate uno dei programmi più popolari e più seguiti d'America, dice molto sullo stato di gran parte dell'umanità oggi. La tortura stessa cessa di essere un tabù nella coscienza occidentale e nei talk-show si discute ormai apertamente sulla legittimità di ricorrerci quando si tratti di estrarre al sospetto-torturato delle informazioni che salvino vite americane. Pochissimi protestano e la «comunità internazionale» si appresta ad accettare che l'interesse nazionale americano prevalga su qualsiasi altro principio, compreso quello finora sacro-santo della sovranità nazionale.

La stessa stampa americana ha messo da parte molti dei vecchi principi che l'hanno in passato resa importante nel suo ruolo di controllo del potere. Ho visto con i miei occhi l'originale di un articolo scritto dall'Afghanistan da un corrispondente di un grande quotidiano e quel che poi è stato pubblicato. Un tempo sarebbe stato motivo di scandalo. Non ora. «Ormai siamo diventati la Pravda », diceva il giornalista.

La attuale, diffusa indifferenza verso quel che sta succedendo agli afghani ed in fondo a noi stessi ha radici profonde. Anni di sfrenato materialismo hanno ridotto e marginalizzato il ruolo della morale nella vita della gente, facendo di valori come il danaro, il successo ed il tornaconto personale il solo metro di giudizio.

È questo nuovo tipo di uomo occidentale, cinico ed insensibile, egoista e politicamente corretto - qualunque sia la politica -, prodotto della nostra società di sviluppo che oggi mi fa paura quanto l'uomo col Kalashnikov e l'aria da grande taglia-gole che ora è ad ogni angolo di strada a Kabul. I due si equivalgono, sono esempi diversi, dello stesso fenomeno: quello dell'uomo che dimentica d'avere una coscienza, che non ha chiaro il suo ruolo nell'universo e diventa il più distruttore di tutti gli esseri viventi, ora inquinando le acque della terra, ora tagliandone le foreste, uccidendone gli animali ed usando sempre più sofisticate forme di varia violenza contro i suoi simili. In Afghanistan tutto questo mi appare chiaro. E mi brucia e mi riempie di rabbia.

Per questo, a pensarci bene, l'unico momento di gioia che ho avuto in questo paese è stato quando ci son passato sopra. Dall'oblò di un piccolo aereo a nove posti della Nazioni Unite in rotta da Islamabad a Kabul, il mondo appariva come se l'uomo non fosse mai esistito e non ci avesse lasciato alcuna traccia di sé. Dall'alto il mondo era semplicemente meraviglioso: senza frontiere, senza conflitti, senza bandiere per cui morire, senza patrie da difendere.

«Ho pietà di coloro che l'amore di sé / lega alla patria; / la patria è soltanto / un campo di tende in un deserto di sassi», dice un vecchio canto himalayano citato da Maraini nel suo Segreto Tibet . Se anche ci fossero state, quelle tende non le avrei viste.

Per stare al sicuro l'aereo volava a dieci chilometri di altezza e la terra ora ocra, ora violetta e grigia, era come la pelle grinzosa d'un vecchio gigante; i fiumi le sue vene. Dinanzi, come un immenso oceano in tempesta congelatosi all'improvviso, avevamo la barriera innevata dell'Hindu Kush, «l'assassino di hindù», a causa delle centinaia di migliaia di indiani morti di freddo in quelle montagne mentre venivano trasportati come schiavi per l'Asia Centrale dai loro conquistatori Moghul.

L'Afghanistan è stato da sempre, per la sua posizione geografica, il grande corridoio del mondo. Da qui son passate tutte le grandi religioni, le grandi civiltà, i grandi imperi; da qui son passate tutte le razze, tutte le idee, tutte le arti. L'Afghanistan è una miniera di storia umana, sepolta nella terra di posti come Mazar-i-Sharif, Kabul, Kunduz, Herat e Balkh. «E voi che ci fate qui?», chiese nel 1924 un viaggiatore americano, sorpreso di vedere a Kabul, fra quelle delle grandi potenze, anche una ambasciata italiana. «L'archeologia», si sentì rispondere dall'allora ministro plenipotenziario Paternò dei Marchi. Dall'inizio del secolo scorso tanti sono stati gli scavi fatti in Afghanistan da nostre missioni scientifiche ed era davvero penoso, nelle prime settimane dei bombardamenti, sentire che i B-52 americani, alla caccia dei Talebani, praticavano ora una loro nuova forma di archeologia andando a scavare, a suon di bombe a tappeto, proprio in quei posti preziosi.

Questo d'essere al centro di un qualche interesse altrui è il destino dell'Afghanistan. È così che, da Alessandro il Macedone, ai mongoli, ai russi, agli inglesi nell'Ottocento, il Paese è sempre stato la posta di un Grande Gioco. È esattamente ancora oggi così.

Quando l'aereo delle Nazioni Unite s'è posato sulla pista di Bagram, un posto che 2.000 anni fa fu capitale di un grande civiltà - Kushan - di cui le guerre han spazzato via ogni traccia in superficie, i nuovi giocatori erano tutti lì, su quella pista di cemento in mezzo ad una valle ora deserta e punteggiata dalla spettrale presenza di carcasse di carri armati, elicotteri, camion, aerei e cannoni. Mentre tre marines ed un cane lupo, anche lui americano, venivano ad annusare meticolosamente i miei bagagli, dei soldati russi poco lontani trafficavano attorno ad un loro aereo e ad una fila di camion dai tendoni chiusi su cui era scritto «Dalla Russia per i bambini dell'Afghanistan». Dinanzi alle rovine di una caserma si vedevano le sagome di alcuni soldati inglesi. Bisognava guardare le stupefacenti montagne che, al calar del sole, sembrano prendere vita e muoversi col mutare delle ombre e dei colori, per non disperarsi: la vecchia storia stava semplicemente rincominciando.

La «comunità internazionale» pensa di aver trovato una soluzione per i problemi dell'Afghanistan in una formula che combina violenza e soldi, milizie afghane colpevoli di vari misfatti, ma ora tenute a bada anche loro dai B-52, ed una persona per bene come il nuovo capo dell'esecutivo Hamid Karzai, unico e debole Pashtun fra i rappresentanti forti delle altre etnie.

Spero che la formula funzioni, ma non ci credo. Certo, anche a Kabul la vita riprende. L'ho vista riprendere a Phnom Penh dopo la fine dei Khmer Rossi, l'ho vista riprendere nelle foreste del Laos e del Vietnam defoliate dagli agenti chimici e cancerogeni degli americani. Ma che vita? Una vita nuova, una vita più consapevole, più tollerante, più serena o la solita vita di ora: aggressiva, rapace, violenta?

Uno dei momenti che non dimenticherò di questi giorni a Kabul è stata la visita allo zoo. «Vale la pena, mi creda», aveva suggerito il «venditore di patate». Era venerdì, giorno di festa per i musulmani e qualche decina di persone avevano pagato i duemila afghani (150 lire) del biglietto per entrare a vedere la collezione più patetica e misera di animali che uno possa immaginarsi: un piccolo orso col naso scortecciato e purulento, un vecchio leone che non sta più sulle gambe ed a cui è morta di recente la leonessa, un cerbiatto, una civetta, due aquile spennacchiate e tanti conigli e piccioni. Durante le battaglie fra i vari gruppi mujaheddin dell'Alleanza del Nord, prima che arrivassero i Talebani, lo zoo è stato per po' la linea del fronte; ci son cadute sopra varie bombe e missili e molte gabbie si sono sfasciate permettendo a vari animali di scappare. I lupi non sono stati fortunati ed in una gabbia puzzolentissima, senza acqua, dove un guardiano butta una volta al giorno degli avanzi di carne, sono rimasti due vecchi esemplari.

Sono lì da anni: soli, prigionieri, chiusi nello stesso spazio. Si conoscono. Si conoscono bene, eppure strisciano in continuazione guardinghi contro le pareti ormai lustre e la rete tutta rabberciata e, incrociandosi, ogni volta ringhiano, si mostrano i denti e si aggrediscono, aizzati da una piccola folla di uomini che forse s'illudono d'essere diversi e non si rendono conto d'essere, anche loro, nella gabbia dell'esistenza solo per morirci.

Tanto varrebbe allora viverci in pace.


 

Islam

 

dall'Enciclopedia Encarta

 

Religione fondata all'inizio del VII secolo d.C. da Maometto (in arabo Muhammad) e praticata oggi da circa un miliardo di fedeli. Confessione diffusa in larghissima maggioranza non solo in tutti i paesi del Medio Oriente, a eccezione di Israele, ma anche in Africa centrosettentrionale (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Mauritania, Senegal, Mali, Niger, Ciad, Sudan, Somalia), in Turchia, Iran, Afghanistan, Pakistan e Asia centrale (Azerbaigian, Turkmenistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan), oltre che in Bangladesh, Maldive, Malesia e Indonesia. In India costituisce una minoranza significativa; in Europa viene professata dal 70% della popolazione dell'Albania e da oltre il 40% degli abitanti della Bosnia-Erzegovina. In Italia i musulmani sono almeno 500.000, per gran parte immigrati dai paesi nordafricani e dal Senegal.

Islam è parola araba che indica il concetto di sottomissione assoluta all'onnipotenza di Allah, il Dio unico e invisibile: l'Islam si caratterizza infatti come espressione di un monoteismo radicale, fin dalla formula fondamentale – "Non vi è altro Dio all'infuori di Allah, e Maometto è il profeta di Allah" – recitata nel segno dell'appartenenza alla comunità degli adoratori dell'unico Dio. Il seguace dell'Islam viene definito in italiano musulmano, termine coniato sulla base del persiano musliman, forma equivalente all'arabo muslimun, plurale di muslim, la parola, che si ritrova nella lingua inglese, utilizzata per indicare appunto chi si considera sottomesso alla divinità unica e irraggiungibile nella sua dimensione trascendente. Questa concezione rigorosamente monoteistica viene considerata dalla stessa tradizione islamica in continuità con il credo dell'ebraismo e del cristianesimo, religioni che costituirebbero le tappe fondamentali della rivelazione divina. Quest'ultima culminerebbe nella predicazione di Maometto, il profeta per eccellenza e l'ultimo dei latori della rivelazione di Allah dopo Abramo (in arabo Ibrahim), Mosè (Musa) e lo stesso Gesù (Isa). A tal proposito occorre precisare che la tradizione musulmana, riferendosi a Gesù come al più venerabile fra i profeti vissuti prima di Maometto, considera esclusivamente la sua natura umana; Maometto stesso non si attribuì mai una natura sovrumana, presentandosi unicamente come il profeta al quale Allah avrebbe consegnato, per tramite dell'arcangelo Gabriele, la rivelazione divina destinata a essere custodita e venerata per sempre dai fedeli. Tale rivelazione è contenuta nel Corano, il libro sacro dettato da Dio all'umanità a completamento del messaggio parzialmente trasmesso dalla Bibbia ebraica e cristiana.

Affiancando a questa concezione teologica un corpus normativo che regolamenta con precisione la condotta dei fedeli interamente sottomessi al volere divino, l'Islam ambisce a identificare l'intera società con la comunità dei fedeli di Allah. A differenza del cristianesimo, il mondo musulmano non ha mai conosciuto un'autorità suprema ritenuta depositaria della verità in materia di fede e di etica. In assenza di una figura paragonabile a quella del papa nel cattolicesimo, la tradizione islamica assegna all'intera comunità dei fedeli il compito di custodire i precetti della religione e della retta condotta e accoglie con molte riserve il ruolo di custodi autorevoli dell'ortodossia attribuito in epoca moderna ai dotti dell'Università Al-Azhar del Cairo fra i sunniti, e alla gerarchia dei mullah iraniani fra gli sciiti.

 

Le origini

Vissuto nell'Arabia occidentale all'inizio del VII secolo d.C., Maometto predicò agli abitanti di quella terra, in maggioranza seguaci del politeismo, i dettami della nuova fede rivelatagli direttamente dall'unico Dio. Nonostante l'ostilità incontrata nella sua città natale, La Mecca, il profeta riuscì a dar vita, nella città oggi nota come Medina, a una comunità politico-religiosa che sarebbe riuscita, già prima del 632, anno della morte del fondatore, a imporre la propria autorità in tutta l'Arabia, nelle città come fra le tribù nomadi, elevando l'appartenenza all'Islam al ruolo di elemento di identificazione di una compagine politica unitaria.

L'istituzione del califfato, mirante a garantire la legittima successione di Maometto alla guida della nazione islamica, rappresentò l'ambito privilegiato per la trasmissione delle rivelazioni divine comunicate oralmente dal profeta ai suoi discepoli più fidati e registrate in forma scritta già all'epoca del terzo califfo Othman (644-656) nelle 114 sure (capitoli) del Corano, accettate dall'Islam come definitive e immutabili. I passi del libro sacro costituirono ben presto il fondamento delle prescrizioni rituali ed etiche della comunità, che tuttavia accostò alle parole e alle azioni del profeta anche alcune pratiche non testimoniate dal Corano: questa tradizione parallela, detta in arabo sunnah, rappresenta tuttora una fonte autorevole soprattutto per i sunniti, che vi scorgono un complemento indispensabile alla rivelazione divina. Il saldo governo dei califfi e la fede comune permise i rapidi successi degli eserciti arabi. Questi ultimi già prima del 650 sottomisero al dominio del califfato di Medina, l'Egitto, la Siria, l'Iraq e le regioni occidentali della Persia, mentre con il passaggio del potere, intorno al 660, alla dinastia degli Omayyadi, prese avvio la seconda fase della diffusione dell'Islam, che penetrò nel vastissimo territorio compreso fra il Marocco e l'Afghanistan, in Spagna e nelle regioni dell'Asia centrale.

 

Monoteismo, demonologia, escatologia

Se la tradizione musulmana, sottolineando il primato assoluto di Allah, gli attribuisce le parole rivelate a Maometto e registrate nel Corano, le cui pagine altro non sarebbero che copie di un archetipo celeste unico e immutabile, la moderna ricerca storico-religiosa mira a chiarire le origini del monoteismo islamico considerando primariamente l'influenza esercitata in Arabia dall'ebraismo e dal cristianesimo, in particolare nell'ambiente culturale del profeta, al quale non erano ignote le Sacre Scritture degli ebrei e dei cristiani, salutati con rispetto come "popoli del libro". Il Corano, infatti, fa riferimento a Mosè come al tramite della rivelazione divina contenuta nella Torah, mentre Gesù viene presentato come il custode di un "vangelo" in una prospettiva tendente a identificare il fondatore del cristianesimo con l'estensore di un libro dettato dalla divinità.

Annoverando Gesù tra i profeti, analogamente ai personaggi considerati tali dall'Antico Testamento, il Corano lo presenta come Masih, Messia, ma respinge come bestemmia suprema l'attribuzione di una natura divina, pur condividendo con i Vangeli il racconto della sua nascita da una vergine e dei miracoli compiuti, per poi divergere dalla tradizione cristiana in merito alla crocifissione: Gesù sarebbe stato infatti direttamente innalzato al cielo da Dio senza conoscere l'umiliazione del supplizio, patito in realtà da un uomo reso simile a lui agli occhi dei suoi persecutori e degli stessi discepoli. Queste e altre asserzioni del Corano possono essere connesse più o meno precisamente con i racconti dei Vangeli apocrifi e con le dottrine delle differenti correnti ebraiche e cristiane diffuse, o comunque conosciute in qualche modo, in Arabia all'epoca di Maometto, ed è significativo che lo stesso libro sacro, presentando come fatto riprovevole la divisione dei cristiani in sette contrapposte l'una all'altra, abbia coscienza dei numerosi movimenti sviluppatisi in seno al cristianesimo dei primi secoli e in gran parte condannati come eretici.

Fra le creature di Allah il Corano contempla pure, accanto agli angeli, la folta schiera dei jinn, gli antichi "spiritelli" che, venerati nel paganesimo preislamico come divinità minori, sono stati adottati dall'Islam sia come esseri benefici divenuti fedeli ad Allah sia come pericoloso esercito di demoni, tra i quali Iblis è il minaccioso tentatore degli uomini. Per quanto concerne l'escatologia, la tradizione islamica prevede il giudizio universale, presentato nel Corano, assieme alla resurrezione, come momento culminante della storia di questo mondo al termine di una serie di terrificanti cataclismi naturali (sure 81,82,84); il paradiso – adn, nome arabo dell'Eden biblico – precluso agli infedeli e ai malvagi, destinati al fuoco dell'inferno, viene descritto (sura 52) come un giardino di delizie, dove i beati, riconosciuti tali dopo che le loro buone azioni, pesate su una bilancia, si saranno rivelate più consistenti di quelle cattive, potranno godere della felicità dei sensi gustando cibi succulenti e allietandosi con la compagnia di incantevoli fanciulle (vedi Huri).

La tradizione che arricchì successivamente i dati del Corano offre invece la suggestiva narrazione della fine del mondo preceduta dall'apparizione del dajjal, la Bestia apocalittica, creatura malefica che regnerà sulla terra per 40 giorni prima di essere sconfitta da Gesù, il precursore del mahdi, figura escatologica capace di inaugurare un'epoca di felicità e di giustizia che prelude al giudizio universale.

 

La legge e i riti

La professione di fede in Allah obbliga i seguaci dell'Islam all'osservanza di una serie di norme etiche e legali che, regolamentando ogni aspetto della vita della comunità, costituiscono un complesso e minuzioso codice giuridico concepito come modello ideale per una società teocratica. Identificando infatti la società civile con la comunità dei fedeli, la teologia islamica innalza il diritto, fiqh, "saggezza", al rango di scienza religiosa, che deve essere coltivata dai dotti con la massima dedizione per garantire nel futuro la conformità della condotta dei fedeli ai principi della legge, la shariah. Gli esperti di giurisprudenza, detti mufti nella tradizione sunnita e mullah in quella sciita, legiferano in relazione a ogni aspetto della vita civile e religiosa: essi elaborano sia le norme del codice penale sia le prescrizioni del diritto di famiglia, ponendo a fondamento delle loro decisioni non solo i dati del Corano e della sunnah, come si trovano nelle raccolte dei detti e delle azioni del profeta (vedi Hadith), ma anche l'orientamento concorde, ijma, di una o più generazioni di uomini di legge in relazione a una determinata materia; alle indicazioni di questi cultori del diritto devono attenersi i qadi, i giudici chiamati a pronunciare le sentenze in merito ai singoli casi loro sottoposti.

Nell'ambito di competenza della shariah rientrano anche le norme del diritto matrimoniale. Le nozze per l'uomo possono avere anche carattere poligamico: alla libertà di sposare fino a quattro donne si associa l'obbligo di assicurare un identico tenore di vita a ciascuna delle consorti e ai rispettivi figli. Tale obbligo, soprattutto in epoca moderna, fa di questa pratica una possibilità limitata agli uomini più benestanti. Il divorzio, possibile per iniziativa del marito anche in assenza di particolari motivazioni, può essere ottenuto dalla donna solo per mezzo di una complessa procedura giuridica, sulla base dello stesso principio che consente il matrimonio fra un musulmano e una donna di diverso credo religioso, ma impedisce di dare in sposa una donna musulmana a un uomo non seguace dell'Islam. Per quanto concerne l'abbigliamento femminile, l'esortazione rivolta dal Corano alle donne affinché indossino un mantello che copra il loro corpo da capo a piedi non può essere posta a fondamento della prescrizione di nascondere anche il volto, introdotta dai califfi Abbasidi (750-1258) con la consuetudine di confinare le mogli nell'harem, ovvero "luogo interdetto" agli uomini, consentendo loro di comparire in pubblico soltanto con il volto coperto.

Questo orientamento non univoco della tradizione antica fa sì che le prescrizioni in materia di abbigliamento femminile siano tuttora più o meno rigide nei diversi paesi islamici, analogamente alle altre norme che regolano le attività delle donne in campo sociale e professionale. Allo stesso modo, l'applicazione letterale della shariah come espressione principale del diritto (taglio della mano destra come pena per il furto o lapidazione per l'adulterio) è prerogativa di paesi, quali l'Arabia Saudita e l'Iran, più inclini a una visione integralista dell'Islam. Altrove, ad esempio in Egitto e in Siria, la pratica islamica convive con un sistema legale parzialmente ispirato a modelli occidentali, mentre la Turchia è dal 1928 uno stato ufficialmente laico, benché non vi manchino movimenti religiosi di indirizzo più o meno integralista.

Se questa pluralità di orientamenti costituisce indubbiamente un motivo di tensione nel mondo musulmano, la quasi totalità dei seguaci di questa religione offre invece un'immagine di profonda unità per quanto concerne l'osservanza di quei doveri noti come Cinque pilastri dell'Islam: alla professione di fede, shahada, nell'unico Dio, il musulmano deve infatti affiancare la preghiera quotidiana, salat, nelle forme rituali previste, osservando poi il digiuno, sawm, durante il mese di Ramadan, oltre a recarsi in pellegrinaggio, hagg, almeno una volta nella vita alla città santa, La Mecca, e a versare una certa somma di denaro come decima, zakat, a beneficio dei poveri e della comunità. Obblighi altrettanto sentiti dai fedeli sono, oltre alla circoncisione maschile, l'astinenza dal consumo di bevande alcoliche e di carne di maiale, e il rispetto delle norme della macellazione rituale degli animali delle cui carni è lecito cibarsi.

La preghiera, certamente la pratica più suggestiva dell'Islam, riunisce per cinque volte al giorno (soltanto tre fra gli sciiti) l'intera comunità dei fedeli che, ovunque si trovino, interrompono all'ora stabilita qualsiasi attività per compiere i gesti di un preciso cerimoniale, rivolgendosi verso La Mecca su un tappeto, limite dello spazio sacro, a piedi scalzi e in stato di purità rituale dopo una serie di abluzioni. La preghiera quotidiana viene recitata in forma collettiva nella moschea, il luogo di culto dei musulmani, dove il venerdì, giorno festivo per l'Islam, si tiene a mezzogiorno il rito solenne. Oltre alla salat, guidata da un imam, viene recitata una sorta di omelia pronunciata dal pulpito da un khatib, figura che comunque non riveste, al pari dello stesso imam, alcuna funzione sacerdotale in nome del principio della pari dignità di tutti i fedeli di fronte ad Allah. Al muezzin, forma turca dell'arabo muadhdhin, è invece affidato l'incarico di annunciare dal minareto, la torre annessa alla moschea, l'ora della preghiera quotidiana e della funzione del venerdì.

Il luogo più sacro per i seguaci dell'Islam è certamente la città natale del profeta, La Mecca, dove, al centro del cortile della Grande moschea, la "moschea sacra" per eccellenza, si erge la Kaaba, una costruzione cubica, larga circa 10 metri e alta 15, verosimilmente utilizzata in epoca preislamica come santuario pagano dagli adoratori della celebre Pietra Nera, un meteorite di 30 centimetri di diametro che, incastonato in un angolo dell'edificio, è divenuto oggetto di venerazione anche per i musulmani. Considerando infatti la Pietra Nera come dono inviato dal cielo per confortare Adamo dopo la sua cacciata dal paradiso, la tradizione islamica vuole che la Kaaba, edificata da Abramo come luogo dove chiamare a raccolta tutti i popoli invitati a rendere culto all'unico Dio, fosse caduta nelle mani dei seguaci del politeismo e dell'idolatria, prima che Maometto la restituisse alla sua funzione originaria di luogo consacrato alla pratica del monoteismo.

Oltre a sottolineare la sacralità di Medina, dove si trova fra l'altro la tomba del profeta, il mondo islamico tributa da sempre grande venerazione alla città di Gerusalemme, il più antico fra i luoghi santi del monoteismo; qui Maometto, trasportatovi nottetempo dall'arcangelo Gabriele, avrebbe conosciuto l'esperienza miracolosa dell'ascensione ai sette cieli e dell'incontro con i massimi profeti, da Adamo a Gesù. Grande importanza assumono per gli sciiti, in relazione alle attività dei loro imam, numerose altre città, come Karbala in Irak e Qom in Iran.

Facendo decorrere il computo degli anni dall'Egira, il trasferimento di Maometto dalla Mecca a Medina, il calendario islamico si articola su un ciclo lunare di 12 mesi non connessi con il corso delle stagioni. Il nono mese è il Ramadan, il periodo più sacro dell'anno durante il quale i fedeli osservano scrupolosamente l'obbligo di digiunare, astenendosi anche dalle bevande e dai rapporti sessuali, dall'alba al tramonto, per poi celebrare come momento di gioia, alla comparsa della luna nuova, la festa più importante dell'anno, il primo giorno del mese successivo a quello del digiuno. L'ultimo mese dell'anno, quello di Dzu 'l Hijjah, offre invece lo spettacolo solenne del pellegrinaggio alla Mecca. Nella prima metà del mese la città santa viene invasa da una folla sterminata di fedeli che indossano una veste bianca. Terminate le purificazioni rituali essi procedono verso il cuore della città, la Grande moschea, dove compiono sette giri intorno alla Kaaba (il rito si chiama tawaf) e baciano la Pietra Nera, recandosi poi, come ultima tappa di una corsa frenetica fra le colline, nel piccolo villaggio di Mina. Esaurita in questo luogo la celebrazione di altri riti, fra cui una lapidazione simbolica del diavolo, il pellegrinaggio si conclude, il decimo giorno del mese, con il sacrificio di animali secondo un cerimoniale imitato nei tre giorni successivi, quelli appunto della "festa del sacrificio" in tutto il mondo musulmano.

Le tendenze principali

Cogliendo le linee essenziali dello sviluppo storico delle tendenze più significative tuttora presenti nell'Islam, è possibile far risalire ai primi decenni successivi alla morte di Maometto l'origine delle correnti fondamentali, i sunniti e gli sciiti, che sarebbero sorte, assieme ai kharigiti, fra il 656 e il 661 come fazioni politiche protagoniste di una dura lotta di potere, per poi acquisire nel corso dei secoli il carattere di comunità religiose distinte da indirizzi teologici peculiari.

Se l'Islam venne dominato sin dalle origini da una visione sostanzialmente legalistica dell'esperienza religiosa, emersero ben presto in seno alla comunità tendenze mistiche e il desiderio di intrattenere un rapporto diretto con il divino, caratteristica delle numerose scuole del sufismo. Ostacolati dai giuristi e dai califfi, i mistici musulmani furono spesso vittime della persecuzione, come nel caso di al Hallaj, giustiziato nel 922 a motivo della sua fede nell'unione mistica con Allah, che ai custodi dell'ortodossia suonava come una sfida alla dottrina tradizionale della trascendenza assoluta di Dio. Gli scritti di Al-Ghazali, che contribuì all'accettazione delle forme di culto del misticismo islamico, chiusero un'epoca di straordinaria fioritura culturale che, utilizzando le categorie del pensiero greco (particolarmente il neoplatonismo) come strumento per un'indagine più profonda dei contenuti spirituali del Corano, aveva prodotto i capolavori della filosofia islamica.

Per quanto concerne invece l'epoca moderna, il rapporto con la cultura europea ha certamente costituito il motivo di fondo del dibattito che ha interessato, già dal XVIII secolo, l'intero mondo musulmano, determinando talvolta uno stato di tensione a motivo dell'emergere, accanto alle posizioni decisamente riformistiche, di atteggiamenti di chiusura totale di fronte a qualsiasi influenza culturale estranea all'antica tradizione religiosa. Ai teorici di un Islam per così dire "moderato" che sappia far convivere i suoi ideali tradizionali con le esigenze di una società moderna e parzialmente occidentalizzata si contrappongono infatti quanti considerano il primato della legge religiosa nella vita sociale come elemento irrinunciabile dell'identità islamica, minacciata dal laicismo politico e sociale dell'Occidente secolarizzato. Il malcontento diffuso negli ambienti religiosi più tradizionalisti, fortemente critici verso la politica di quei governi ritenuti responsabili della corruzione di una società ligia da secoli al rispetto dei principi più puri dell'Islam, è alla base del fenomeno del cosiddetto fondamentalismo islamico.

È questa una delle tendenze più vistose dell'Islam del XX secolo, per quanto sia scorretto sopravvalutarne l'importanza a scapito delle altre espressioni di questa religione. Sorto propriamente in ambito cristiano in riferimento alle istanze di quelle denominazioni del protestantesimo che, alla fine del XIX secolo, promossero negli Stati Uniti una battaglia a difesa dell'interpretazione letterale del testo biblico, il termine "fondamentalismo" indica oggi convenzionalmente l'ideologia dei numerosi movimenti nati nel mondo islamico per propugnare, anche con il ricorso alla violenza, il ritorno alla rigida osservanza dei precetti della religione come forma di opposizione politica e culturale all'Occidente.

Se questi ideali caratterizzarono già dal 1928 un gruppo come quello dei "Fratelli musulmani", il cui esponente di maggior prestigio, Sayyid Qutb, fu giustiziato per ordine delle autorità egiziane nel 1966, il fondamentalismo islamico ha conosciuto la sua massima diffusione nell'ultimo scorcio del secolo con l'attività di numerosi movimenti politico-religiosi capaci di influire sulla vita sociale in diversi paesi.

Il modello politico a cui molti militanti di questi partiti fanno riferimento è quello dell'Iran, dove nel 1979 l'ayatollah Khomeini, una delle più alte autorità dell'Islam sciita, riuscì a conquistare il potere facendo del fondamentalismo religioso il motivo ispiratore di una rivoluzione popolare contro il regime filo-occidentale dello scià Reza Pahlavi. Roccaforte del fondamentalismo è divenuto dal 1989 anche il Sudan, con il colpo di stato militare che ha portato al potere il Fronte islamico nazionale di Hassan al Turabi, e la più rigida ortodossia islamica è stata imposta in Afghanistan dal 1996 con la vittoria dei taliban, giovani reclutati nelle scuole coraniche e divenuti miliziani di una delle fazioni in lotta per la supremazia dopo il ritiro degli invasori sovietici dal paese.

In Turchia il rispetto della costituzione laica non ha impedito al Refah, o "Partito del benessere" di Necmettin Erbakan, piuttosto vicino agli ideali del fondamentalismo islamico, di divenire forza politica di governo. In Algeria il Fronte islamico di salvezza (FIS) fu messo fuori legge dal partito al potere dopo avere acquisito il ruolo di forza politica di rilievo ottenendo addirittura la maggioranza dei suffragi nel primo turno delle elezioni politiche del dicembre 1991; questa decisione scatenò la reazione violenta del movimento, le cui azioni terroristiche continuano a insanguinare il paese (60.000 morti alla metà del 1997), colpendo soprattutto intellettuali, giornalisti e semplici cittadini contrari alla prospettiva di islamizzazione dello stato. Movimenti integralisti, come quello di Hamas, si oppongono al processo di pace fra il popolo palestinese e lo stato di Israele (vedi Questione palestinese), mentre fazioni integraliste, ad esempio gli Hezbollah sciiti, sono stati protagonisti della storia recente del Libano.

Motivo ispiratore comune per le azioni di queste compagini politico-religiose è il concetto di "guerra santa" contro gli infedeli, identificati indifferentemente con i non musulmani e con i membri della comunità islamica considerati traditori a motivo delle loro posizioni progressiste e filo-occidentali. A questo proposito occorre precisare che il termine arabo jihad, nel quale non solo la cultura occidentale, ma anche qualche settore dello stesso integralismo islamico, tende a cogliere la definizione della guerra santa come dottrina essenziale nell'Islam, nel Corano ha un'accezione più ampia: jihad significa infatti "sforzo" e il libro sacro, considerando come sforzo maggiore sulla via di Dio l'impegno del fedele a vincere le proprie tentazioni per divenire un buon musulmano, presenta la guerra santa contro gli infedeli soltanto come dovere minore da compiersi in circostanze ben precise sulla base di una rigorosa definizione giuridica. Non si deve dimenticare inoltre che, per quanto l'Islam sia penetrato fino in Europa come conseguenza della forza espansionistica dell'impero ottomano dal 1300 alla fine della prima guerra mondiale, il diritto musulmano non ha mai previsto, di fatto, l'imposizione della fede islamica attraverso la guerra, tenendo distinti i successi militari dei popoli arabi dalla diffusione della religione predicata da Maometto.

Sunniti La maggioranza dei seguaci dell'Islam (circa l'83%, pari a 680 milioni di persone), caratterizzati da una tradizione rituale e dottrinale che si distingue da quella degli sciiti. Il nome deriva dal concetto di Sunna, la tradizione più antica di norme etiche e morali, stabilite sulla base dei detti e degli atti di Maometto noti come hadith e considerati, insieme col Corano, le fonti principali del diritto islamico.

Nel III secolo dell'Islam (il IX secolo d.C.) le raccolte scritte di hadith erano ormai così numerose che si ritenne necessario procedere a una valutazione della loro autenticità, attribuendo valore normativo soltanto a quelle che potevano essere fatte risalire ai discepoli del profeta.

Furono accettate come autentiche 14 collezioni di hadith, che costituiscono testi canonici ai quali i sunniti attribuiscono un valore analogo a quello del Corano. Vengono consultati assieme al libro sacro per definire qualsiasi questione dottrinale e giuridica e sono considerati, in quanto testimonianza delle parole del profeta, come parte integrante della rivelazione divina da lui ricevuta.

La riforma dottrinale non riuscì a eliminare le divergenze dei giuristi su alcune questioni di dettaglio, e ciò condusse, pur nell'accettazione comune dei principi generali, alla formazione di diverse scuole di pensiero (mazhab), quattro delle quali sopravvivono tuttora. I loro nomi derivano da quelli dei giuristi che ne elaborarono i principi nel IX secolo d.C.: gli hanifiti (da Abu Hanifa), i malikiti (da Malik ibn Anas), gli shafiti (da al-Shafii) e gli hanbaliti (da Ahmad ibn Hanbal).

Dapprima in competizione, queste scuole di pensiero riuscirono in seguito a convivere senza tensioni, considerandosi espressioni della comune eredità sunnita e diffondendosi nei diversi territori del mondo islamico: i malikiti in Africa settentrionale e occidentale, gli shafiti nel Sud-Est asiatico e in Africa occidentale, gli hanafiti nelle regioni dell'impero ottomano e gli hanbaliti in Arabia Saudita. In età moderna, alcune correnti di pensiero hanno posto come obiettivo dell'Islam sunnita il raggiungimento di un'unità effettiva tra le diverse scuole.

Principale centro di diffusione della dottrina sunnita fu Baghdad, sede del califfato dal 762. I califfi, che si proclamarono fin da principio depositari dell'autorità religiosa, dovettero affrontare le rivendicazioni dei teologi in una lotta di potere originata da un dissidio dottrinale. I califfi negavano l'eternità del Corano (sostenuta invece dai teologi) e ritenevano che il testo sacro fosse stato creato nel tempo. L'abbandono di quest'ultima teoria, verso l'850, aprì la strada al riconoscimento dell'autorità effettiva dei teologi in materia religiosa, per quanto i califfi continuassero a essere considerati guide simboliche della comunità sunnita.

Il dominio dei califfi di Baghdad sulla maggior parte del mondo islamico rese possibile il prevalere della dottrina sunnita su altre concezioni non supportate dall'autorità politica, e l'identità religiosa riuscì a sopravvivere saldamente anche al crollo del califfato e al passaggio dei paesi islamici sotto diverse dominazioni.

Sciiti I seguaci della corrente dell'Islam che si distingue da quella dei sunniti per origini e concezioni teologiche. Originariamente il termine "sciiti" indicava i seguaci (in arabo shiah) del partito di Alì, cugino e genero di Maometto e quarto califfo dell'Islam, considerato come unico successore legittimo del Profeta alla guida della comunità: usurpatori sarebbero dunque i tre califfi precedenti, riconosciuti invece dai sunniti e, con essi, i fondatori della dinastia degli Omayyadi, anch'essi detentori del califfato. Storicamente, il primo gruppo dei seguaci di Alì (assassinato nel 661), che in seguito si separarono da lui, fu quello dei kharigiti.

A questa prima fase di lotte a sfondo politico seguirono in epoca omayyade (661-750) le tappe dell'elaborazione della teologia caratteristica della comunità sciita. Essa venne adottata dalle correnti rimaste fedeli alla tradizione che riconosce in Alì il depositario della segreta essenza dell'Islam, un sapere esoterico trasmessogli direttamente da Maometto. Custodi di questa sapienza arcana sarebbero i legittimi discendenti di Alì, che sono venerati come imam, cioè "guide" della comunità dotate di poteri sovrannaturali, come l'infallibilità e la capacità di compiere miracoli, e garanti dell'esistenza dell'universo per mezzo della loro forza vitale. La catena di successione degli imam si sarebbe interrotta in seguito all'occultamento dell'ultimo imam, per gli sciiti più tradizionalisti presente sulla Terra soltanto in una dimensione invisibile, preludio della sua manifestazione agli uomini nella veste di apportatore di un regno di giustizia.

Questa concezione, che alcuni gruppi, come i drusi, radicalizzano attribuendo agli imam carattere divino, si discosta nettamente dalla visione dei sunniti, unanimi nel venerare in Maometto l'ultimo dei profeti, depositario della rivelazione definitiva della fede, custodita tuttora dalle guide della comunità, che sono però considerati uomini privi di poteri sovrannaturali. La definizione della discendenza di Alì, assai problematica a motivo dei numerosi figli da lui avuti da mogli diverse, è alla base della divisione in correnti che ben presto caratterizzò il corpo sciita: se la maggior parte dei gruppi riconoscono come imam soltanto i diretti discendenti della genealogia risalente ad Alì e a Fatima, la figlia di Maometto, non sono mancate altre rivendicazioni, come quella dei califfi abbasidi, che si consideravano discendenti di uno dei figli di Alì e di un'altra moglie.

Le correnti

Pur nell'accettazione dei fondamenti comuni della fede sciita, questi diversi gruppi, fra i quali, in primo luogo, gli imamiti e gli ismailiti, hanno sviluppato pratiche e dottrine caratteristiche che li identificano peculiarmente. Cento milioni sono oggi gli sciiti imamiti, detti anche duodecimami in quanto riconoscono una successione di dodici imam. L'ultimo di essi sarebbe comparso sulla terra nell'874 e vivrebbe da allora nascosto in attesa di manifestarsi visibilmente agli uomini. Lo sciismo duodecimano è religione di stato in Iran dal XVI secolo, quando fu adottata dalla dinastia dei Safavidi, ed è diffuso anche in Libano, in Iraq, in Pakistan e in India. Alla tradizione imamita è connessa anche la religione bahai, che, per quanto apparentemente lontana dai principi dell'Islam, deriva direttamente dal babismo, una fede sorta sulla base di alcuni elementi duodecimami.

Come sciiti settimami sono invece noti gli ismailiti, oggi poco più di 15 milioni, che riconoscono una successione di sette imam. Una nuova fase di rivendicazione della discendenza da Alì in chiave politica si verificò con la nascita della dinastia dei Fatimidi, che regnò sull'Egitto per oltre due secoli (909-1171). Le scissioni avvenute in seno alla dinastia portarono alla formazione della corrente dei nizariti, che attribuiscono al loro imam il titolo di aga khan e che, a differenza degli altri gruppi, lo ritengono presente visibilmente fra gli uomini: per i khogia, la corrente nizarita che vanta oggi il maggior numero di fedeli, l'attuale aga khan sarebbe infatti il 49° imam. Un altro dei gruppi distaccatisi nel XII secolo dai Fatimidi è all'origine della comunità dei bohra (o bohara) che, dapprima emigrati nello Yemen, si stabilirono in India nel XVI secolo, venerando come legittimo rappresentante dell'imam occulto il Da'i, capo religioso e autorità giuridica e dottrinale.

Da Zaid ibn Ali, morto nel 740 combattendo contro gli Omayyadi, prendono il nome gli zaiditi, che riconoscono in lui il quinto e ultimo imam, per quanto la loro dottrina presenti alcuni punti discordanti rispetto allo sciismo tradizionale: Zaid, infatti, decidendo di ribellarsi al potere degli Omayyadi, propose come modello ideale per i fedeli qualsiasi discendente di Alì e di Fatima che fosse sufficientemente devoto e politicamente attivo contro gli usurpatori: egli avvicinò così la figura dell'imam al modello del califfo quale era concepito dai sunniti. Un califfato zaidita, fondato nel IX secolo, riuscì a sopravvivere fino al 1963 nello Yemen, dove questa versione dell'Islam vanta ancora oggi circa 5 milioni di fedeli.

La dottrina

L'analisi dello sviluppo storico delle correnti sciite mostra come i duodecimami e gli ismailiti possano essere considerati gli effettivi custodi della tradizione teologica originaria che li differenzia nettamente dai sunniti: per loro, infatti, la saggezza suprema e arcana dell'imam garantisce la possibilità di un'interpretazione (tawil) mistica del Corano simile per tanti aspetti a quella del sufismo. Duodecimami e ismailiti sono sostanzialmente concordi nella venerazione dei primi sei imam fino ad al-Sadiq, dividendosi però sulla sua linea di successione e nella condivisione dell'ulteriore formulazione teologica: l'ultimo imam nascosto diviene per gli sciiti un personaggio escatologico, isolato dalla storia e destinato a manifestarsi all'umanità soltanto alla fine dei tempi come mahdi supremo. Proprio il nascondimento dell'imam pone alle due correnti il problema dell'autorità religiosa e giuridica, giustificando l'attribuzione, fra i duodecimami, di un ruolo di potere ai giuristi quali custodi della tradizione risalente al profeta e agli imam stessi.

Venerati dai fedeli come guide nella preghiera del venerdì, i giuristi giunsero con il passare dei secoli a rivendicare a sé alcune delle prerogative dell'imam nascosto, ponendosi come garanti della fondatezza di pronunciamenti legali solenni (vedi Fatwa) e acquisendo la funzione di autorità suprema in campo politico e religioso: questa situazione fu codificata nel XVII secolo con la definizione di una precisa gerarchia che pone la figura degli ayatollah al vertice di tutta la comunità, anche nelle sue espressioni politiche, com'è avvenuto in Iran dopo la rivoluzione islamica del 1979. La tradizione dei sunniti considera come fonte unica e ufficiale di ogni norma giuridica le collezioni degli hadith, vale a dire le parole e gli atti di Maometto che completerebbero la rivelazione divina contenuta nel Corano, mentre gli sciiti attribuiscono valore normativo anche alle parole e alle azioni degli imam, e il pellegrinaggio alle loro tombe è considerato, accanto al grande pellegrinaggio alla Mecca, uno dei cinque pilastri dell'Islam. Alì e suo figlio Hasan sono venerati come martiri da tutti gli sciiti, e i duodecimami hanno istituito riti durante i quali proclamano la loro fedeltà a questi personaggi; anche i tragici fatti di Karbala, che portarono al martirio dell'altro figlio di Alì, Husayn, sono da sempre ben vivi nella memoria di tutti i fedeli che li rievocano in un rito annuale. In campo teologico, le due visioni dell'Islam si differenziano anche per un'ulteriore elaborazione dottrinale che ha portato gli sciiti a concepire il Corano come creato da Allah nella dimensione temporale, contrariamente alle convinzioni dei sunniti che ritengono il sacro libro eterno e increato. In senso più generale, il carattere mistico della teologia sciita ha favorito sicuramente una maggiore sensibilità nei confronti della speculazione filosofica, con la propensione a rielaborare attivamente anche concezioni estranee all'Islam, come il neoplatonismo, e ad attribuire grande importanza a ogni visione di contenuto spiccatamente esoterico.