newyorkundicisettembreduemilaeuno |
"An eye for an eye leaves the whole world blind" Gandhi. |
QUEL
GIORNO TRA I SEGUACI DI BIN LADEN di
Tiziano Terzani Per
loro quello delle armi non è un mestiere ma una missione. La civiltà
musulmana, un tempo grande e temuta, si sente ora sempre più
marginalizzata, umiliata e offesa dallo strapotere dell’Occidente.
L’Islam è una grande e inquietante religione con una sua tradizione di
atrocità e di delitti (come tante altre fedi peraltro), ma è assurdo
pensare che si possa cancellarla dalla faccia della Terra. Il mondo non è più quello che conoscevamo, le nostre vite sono definitivamente cambiate. Forse questa è l’occasione per pensare diversamente da come abbiamo fatto finora, l’occasione per reinventarci il futuro e non rifare il cammino che ci ha portato all’oggi e potrebbe domani portarci al nulla. Mai come ora la sopravvivenza dell’umanità è stata in gioco. Non c’è niente di più pericoloso in una guerra - e noi ci stiamo entrando - che sottovalutare il proprio avversario, ignorare la sua logica e, tanto per negargli ogni sua possibile ragione, definirlo un «pazzo». Ebbene, la Jihad islamica, quella rete clandestina e internazionale che fa ora capo allo sceicco Osama Bin Laden e che, con ogni probabilità, ha avuto la mano nell’allucinante attacco-sfida agli Stati Uniti, è tutt'altro che un fenomeno di «pazzia» e, se vogliamo trovare una via d'uscita dal tunnel di sgomento in cui ci sentiamo gettati, dobbiamo capire con chi abbiamo a che fare e perché. Nessun giornalista occidentale è riuscito a passare del tempo con Bin Laden e a osservarlo da vicino, ma alcuni hanno potuto avvicinare e ascoltare la sua gente. A me capitò, nel 1996, di passare una giornata in uno dei campi di addestramento che lui finanziava al confine fra il Pakistan e l’Afghanistan. Ne uscii sgomento e impaurito. Per tutto il tempo in mezzo ai mullah, duri e sorridenti, e tanti giovani dagli sguardi freddi e sprezzanti, mi ero sentito un appestato, il portatore di un qualche morbo da cui non mi ero mai sentito affetto. Ai loro occhi la mia malattia era semplicemente il mio essere occidentale, rappresentante di una civiltà decadente, materialista, sfruttatrice, insensibile ai valori universali dell’Islam. Ho visto i seguaci di Bin Laden Duri, sprezzanti, senza dubbi Dobbiamo capire con chi abbiamo a che fare per trovare una via d'uscita Avevo provato sulla pelle la conferma che, con la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo, la sola ideologia ancora determinata ad opporsi al Nuovo Ordine, che, con l’America in testa, prometteva pace e prosperità al mondo globalizzato, era quella versione fondamentalista e militante dell’Islam. L’avevo intuito per la prima volta viaggiando nelle re pubbliche musulmane dell’Asia Centrale ex sovietica e l’avevo sentito con la stessa precisione incontrando i guerriglieri anti-indiani nel Kashmir e intervistando uno dei loro capi spirituali che mi salutò dandomi in regalo una copia del Corano - l a mia prima - perché ci «imparassi qualcosa». Vedendo e rivedendo, allibito come tutti, le immagini degli aerei che si schiantavano facendo una carneficina nel centro di New York, così come nei giorni prima leggendo le notizie degli uomini-bomba palestinesi che si facevano saltare in aria mietendo vittime per le strade di Israele, mi tornavano in mente quei giovani di varie nazionalità, ma di una unica, ferma fede, che avevo visto in quel campo di addestramento: erano gente di un altro pianeta, di un altro tempo, gente che «crede» come noi stessi abbiamo saputo fare in passato, ma non sappiamo più, gente che considera il sacrificio della propria vita per una causa «giusta» come una cosa «santa». Quei giovani erano d'una pasta che noi abbiamo difficoltà ad immaginare: indottrinati, abituati ad una vita spartanissima, ritmata da una stretta routine di esercizi, studio e preghiere, una vita tutta disciplina, senza donne prima del matrimonio, senza alcol, senza droghe. Per Bin Laden e la sua gente quello delle armi non è un mestiere, è una missione che ha radici nella fede acquisita nell’ottusità delle scuole coraniche, ma soprattutto nel profondo senso di scacco e di impotenza, nell’umiliazione di una civiltà - quella musulmana - un tempo grande e temuta, che si vede ora sempre più marginalizzata e offesa dallo strapotere e dall’arroganza dell’Occidente. E' un problema che varie altre civiltà hanno dovuto affrontare nel corso dei due secoli passati. Quell’umiliazione la provarono i cinesi davanti «alle barbe rosse» degli inglesi che imposero loro il commercio dell’oppio, la provarono i giapponesi davanti alle «navi nere» dell’ammiraglio americano Perry che voleva aprire il Giappone al commercio. La prima reazione fu di smarrimento. Come poteva la loro civiltà, di gran lunga superiore a quella degli stranieri-invasori, essere messa al muro e resa così impotente? I cinesi cercarono una soluzione innanzitutto con un ritorno alla tradizione (la rivolta dei Boxer), poi imboccando la via della modernizzazione di stile sovietico e ultimamente di stile occidentale. I giapponesi, già alla fine dell’Ottocento, fecero questo salto tutto in una volta, mettendosi a imitare ossessivamente tutto ciò che era occidentale, copiando le uniformi degli eserciti europei, l’architettura delle nostre stazioni e imparando a ballare il valzer. Occidente diabolico Questo problema del come sopravvivere al confronto con l’Occidente, mantenendo una propria identità, si è posto ovviamente nel Novecento anche per i musulmani e anche nel loro caso le risposte hanno oscillato fra il rifugio nel tradizionale, come nel caso dello Yemen o dei Wahabi, e varie forme di occidentalizzazione: la più ardita e radicale è stata quella attuata in Turchia da Kemal Ataturk il quale negli anni Venti, riscrivendo la Costituzione, togliendo il velo alle donne, sostituendo la legge islamica con una copia del codice civile svizzero e una di quello penale italiano, mise il suo Paese sulla strada che oggi sta portando Istanbul, pur con qualche sussulto, a diventare parte della Comunità Europea. Per i fondamentalisti questa occidentalizzazione del mondo islamico è un anatema e mai come ora questo processo minaccia ai loro occhi la sua identità. Secondo loro, con la fine della Guerra Fredda l’Occidente ha scoperto le sue carte e sempre più chiaro appare il progetto - per loro «diabolico» - di incorporare l’intera umanità in un unico sistema globale che, grazie alla tecnologia in suo possesso, dia all’Occidente l’accesso e il controllo di tutte le risorse del mondo, comprese quelle che il Creatore - non a caso, secondo i fondamentalisti - ha messo nelle terre dove è nato e si è esteso l’Islam: dal petrolio del Medio Oriente a l legname delle foreste indonesiane. Guerra agli Usa E' solo negli ultimi dieci anni che questo fenomeno della globalizzazione, o meglio della americanizzazione, si è rivelato nella sua ampiezza. Ed è esattamente nel 1991 che Bin Laden, fino allora un protegé degli americani (il suo primo lavoro in Afghanistan fu quello di costruire per la Cia i grandi bunker sotterranei per lo stoccaggio delle armi destinate ai mujaheddin), si rivolta contro Washington. Lo stazionamento di truppe americane nel suo Paese, l’Arabia Saudita, durante e dopo la guerra del Golfo, gli parve un insopportabile affronto e una violazione della santità dei luoghi sacri dell’Islam. La posizione di Osama Bin Laden divenne chiara nel 1996 quando lanciò la sua prima dichiarazione di guerra contro gli Stati Uniti: «Le pareti di oppressione e umiliazione non possono essere abbattute che con una grandine di pallottole». Nessuno lo prese molto sul serio. Ancora più esplicito fu il manifesto della sua organizzazione, Al Qaeda, reso noto nel 1998 dopo una riunione dei vari gruppi associati a Bin Laden. «Da sette anni gli Stati Uniti occupano le terre dell’Islam nella penisola araba, saccheggiando le nostre ricchezze, imponendo la loro volontà ai nostri governanti, terrorizzando i nostri vicini e usando le loro basi militari nella penisola per combattere i popoli musulmani vicini». L’appello rivolto a tutti i musulmani fu quello di «confrontare, combattere e uccidere» gli americani. L’obiettivo dichiarato di Bin Laden è la liberazione del Medio Oriente. Quello sognato in nome dell’eroico passato è forse molto più vasto. I primi attacchi della jihad sono sferrati contro le ambasciate americane in Africa e provocano decine e decine di morti. Washington risponde bombardando le basi di Bin Laden in Afghanistan e una fabbrica di medicinali in Sudan provocando centinaia, altri dicono migliaia di vittime civili (il numero esatto non fu mai accertato perché gli Stati Uniti bloccarono un'inchiesta dell’Onu sull’incidente). La controrisposta di Bin Laden è venuta ora a New York e a Washington. Non potendo colpire i piloti dei B-52 che sganciano le loro bombe da altezze irraggiungibili, né arrivare ai marinai che lanciano i loro missili dalle navi al largo, la soluzione è quella terroristica di attaccare masse di civili indifesi. Le azioni di questi uomini sono atroci, ma non sono gratuite, sono atti di guerra, una guerra che da tempo non è più quella cavalleresca, una guerra in cui il bombardamento di popolazioni inermi è già stato un fenomeno comune a tutti i belligeranti dell’ultimo conflitto mondiale, da quello dei V2 tedeschi su Londra, al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki col suo bilancio di oltre duecentomila morti: tutti civili. Da tempo ormai si combattono con mezzi e metodi nuovi guerre non dichiarate, lontano dagli occhi del mondo che si illude oggi di vedere e capire tutto solo perché assiste in diretta al crollo delle Torri Gemelle. Dal 1983 gli Stati Uniti hanno bombardato a più riprese nel Medio Oriente Paesi come il Libano, la Libia, l’Iran e l’Irak. Dal 1991 l’embargo imposto dagli Stati Uniti all’Irak di Saddam Hussein dopo la guerra del Golfo ha fatto, secondo stime americane, circa mezzo milione di morti, molti dei quali bambini a causa della malnutrizione. Cinquantamila morti all’anno sono uno stillicidio che certo genera in Irak e in chi si identifica con l’Irak una rabbia simile a quella che l’ecatombe di New York ha generato nell’America e di conseguenza anche in Europa. Importante è capire che fra queste due rabbie esiste un legame. Ciò non significa confondere le vittime coi boia, significa solo rendersi conto che, se vogliamo capire il mondo in cui siamo, lo dobbiamo vedere nel suo insieme e non solo dal nostro punto di vista. Non si può capire quel che ci sta succedendo solo a sentire le dichiarazioni dei politici, costretti come sono a ripetere formule retoriche, condizionati a reagire alla vecchia maniera a una situazione completamente nuova e incapaci di ricorrere alla fantasia per suggerire ad esempio che, invece di fare la guerra, questo è il momento di fare finalmente la pace, a cominciare da quella fra israeliani e palestinesi. Invece guerra sarà. In queste ore una strana coalizione si sta mettendo in moto attraverso gli automatismi di trattati nati per un fine e ora usati per un altro e attraverso l’adesione di Paesi come la Cina, la Russia e forse anche l’India, ognuno spinto dai propri interessi strettamente nazionalistici. Per la Cina la guerra mondiale contro il terrorismo è una buona occasione per cercare di risolvere i suoi vecchi problemi con le popolazioni islamiche nei suoi territori di confine. Per la Russia di Putin è un'occasione per risolvere innanzitutto il problema della Cecenia e mettere a tacere tutte le accuse per le spaventose violazioni dei diritti umani da parte delle truppe di Mosca laggiù. Lo stesso è vero per l’India e il suo annoso conflitto per il controllo del Kashmir. Il problema è che sarà estremamente difficile fare apparire questa guerra solo come una campagna contro il terrorismo e non come una guerra contro l’Islam. Stranamente la coalizione che oggi si sta formando assomiglia molto a quella che secoli fa l’Islam si trovò a combattere su due fronti: a Occidente i Crociati, a Oriente le tribù nomadi dell’Asia Centrale e i mongoli. In quella occasione i musulmani resistettero e finirono per convertire all’Islam gran parte dei loro avversari. Questa è la scommessa che Bin Laden e i suoi possono aver fatto sferrando il loro attacco al cuore dell’America. Forse contano proprio su una rappresaglia del mondo occidentale per coagulare una massiccia resistenza islamica e fare di quella che oggi è una minoranza, pur determinata, un fenomeno più esteso. L’Islam si presta bene, per la sua semplicità e il suo innato carattere di militanza, a essere l’ideologia dei dannati della Terra, di quelle masse di poveri che oggi affollano, disperate e discriminate, il Terzo Mondo occidentalizzato. Intreccio di interessi Più che rimuovere i terroristi e chi li ha appoggiati (forse ci sorprenderà sapere quanti personaggi, alcuni anche insospettabili, sono coinvolti), sarebbe più saggio rimuovere le ragioni che spingono tanta gente, soprattutto fra i giovani, nelle file della jihad e fanno loro apparire come una missione il compito di uccidersi e di uccidere. Se noi davvero crediamo nella santità della vita, dobbiamo accettare la santità di tutte le vite. O siamo invece pronti ad accettare le centinaia, le migliaia di morti - anche quelli civili e disarmati - che saranno vittime della nostra rappresaglia? Basterà alle nostre coscienze che quei morti ci vengano presentati, nel gergo da pubbliche relazioni dei militari americani, come «danni collaterali»? Dipende da quel che noi faremo, da come reagiremo a questa orribile provocazione, da come vedremo la nostra storia di ora nella scala della storia dell’umanità, il tipo di futuro che ci aspetta. Il problema è che fino a quando penseremo di avere il monopolio del «bene», fino a che parleremo della nostra come la civiltà, ignorando le altre, non saremo sulla buona strada. L’Islam è ovunque L’Islam è una grande e inquietante religione con una sua tradizione di atrocità e di delitti (come tante altre fedi peraltro), ma è assurdo pensare che un qualsiasi cowboy, pur armato di tutte le pistole del mondo, possa cancellare questa fede dalla faccia della Terra. Meglio sarebbe aiuta re i musulmani stessi a isolare, invece che renderle più virulente, le frange fondamentaliste e a riscoprire l’aspetto più spirituale della loro fede. L’Islam è ormai ovunque. Nell’America stessa ci sono ormai tanti musulmani quanto ebrei (sei milioni, la gran parte, non a caso, afro-americani, attirati dal fatto che l’Islam è stato fin dal suo inizio al di sopra del concetto di razza). Sul territorio americano ci sono già 1.400 moschee, una persino nella base navale di Norfolk. Non dobbiamo farci ora trascinare da visioni parziali della realtà, non dobbiamo diventare ostaggi della retorica a cui oggi ricorre chi è a corto di idee per riempire il silenzio di sbigottimento. Il pericolo è che, a causa di questi tragici, orribili dirottamenti, finiamo noi stessi, come esseri umani, per essere dirottati da quella che è la nostra missione sulla Terra. Gli americani l’hanno descritta nella loro costituzione come «il perseguimento della felicità». Bene: perseguiamo tutti assieme questa felicità, dopo averla magari ridefinita in termini non solo materiali e dopo esserci convinti che noi occidentali non possiamo perseguire una nostra felicità a scapito della felicità di altri e che, come la libertà, anche la felicità è indivisibile. L'ecatombe di New York ci ha dato l’occasione di ripensare a tutto e ci ha messo dinanzi a nuove scelte. Quella più immediata è di aggiungere o togliere al fondamentalismo islamico le sue ragioni di essere, di trasformare i balli dei palestinesi, da macabre esultazioni per una tragedia altrui, in espressioni di gioia per una loro riguadagnata dignità. Altrimenti ogni bomba o missile che cadrà sulle popolazioni del mondo non nostro non farà che seminare altri denti di drago, e dar vita a nuovi giovani disposti a urlare «Allah Akbar», Allah è grande, pilotando un altro aereo carico di innocenti contro un grattacielo o, domani, lasciando una bomba batteriologica o una atomica tascabile in qualche nostro supermercato. Solo se riusciremo a vedere l’universo come un tutt'uno in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la grande bellezza sta nella sua diversità, cominceremo a capire chi siamo e dove stiamo. Altrimenti saremo solo come la rana del proverbio cinese che, dal fondo di un pozzo, guarda in su e crede che quel che vede sia tutto il cielo. Duemilacinquecento anni fa un indiano, chiamato poi «illuminato», spiegava una cosa ovvia: che «l’odio genera solo odio» e che «l’odio si combatte solo con l’amore». Pochi l’hanno ascoltato. Forse è venuto il momento. Tiziano Terzani, 62 anni, fiorentino, collaboratore del «Corriere della Sera», vive dal ' 69 in Oriente, di cui ha seguito gli avvenimenti principali. E' autore di numerose pubblicazioni. Questa la sua analisi del la realtà islamica. SULL’ORLO DI UNA GUERRA Sun Tzu, Cina, l’arte della guerra, scritto oltre 2.500 anni fa «Soltanto coloro che calcolano molto vinceranno; coloro che calcolano poco non vinceranno e tantomeno vinceranno coloro che non calcolano affatto».
|
![]() |
di
Oriana Fallaci Oriana
Fallaci, con questo straordinario scritto, rompe un silenzio di un
decennio. Lunghissimo. La nostra più celebre scrittrice (lei dice
scrittore e non pronuncia più la parola giornalista), vive buona parte
dell’anno a Manhattan. Non risponde al telefono, apre la porta di rado,
esce assai di meno. Non dà mai interviste. Tutti ci hanno provato,
nessuno c’è riuscito. Isolata. Ma la storia e il destino hanno voluto
che il centro della moderna apocalisse si aprisse, come una voragine
dantesca, poco distante dalla sua bella e letteraria abitazione. L’onda
d’urto di quella mattina dell’11 settembre ha sconvolto anche la
quiete eremitica ed ermetica di Oriana. Apre la porta, gesto inconsueto
del quale sembra meravigliarsi... Lo sguardo è dolce e insieme feroce.
Oriana lavora da anni a un’opera molto importante e attesa in tutto il
mondo, fra pile di documenti, in un disordine solo apparente, con fervore
guerresco. Le avevo chiesto di scrivere quello che aveva visto, provato,
sentito dopo quel martedì e Oriana ha raccolto su alcuni fogli emozioni,
pensieri. «Su ogni esperienza lascio brandelli d’anima», aveva scritto
qualche anno fa. E’ ancora vero, verissimo. Pensieri forti. Dirompenti.
Su cui ragionare e riflettere. Sull’America, sull’Italia, sul mondo
islamico. Sulla Patria (sorprendente quel che dice sulla Patria).
Invettive e tesi che nel medesimo tempo sgorgano dal cervello e dal cuore,
o meglio dal cervello attraverso il cuore. «Qualcuno queste cose doveva
dirle. Le ho dette. Ora lasciatemi in pace. La porta è chiusa di nuovo. E
non voglio riaprirla», sbotta. I suoi soliti artigli. Farà discutere.
Eccome. Mi
chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il
silenzio che ho scelto, che da anni mi impongo per non mischiarmi alle
cicale. E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni
gioiscono come l'altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza. «Vittoria!
Vittoria!». Uomini, donne, bambini. Ammesso che chi fa una cosa simile
possa essere definito uomo, donna, bambino. Ho saputo che alcune cicale di
lusso, politici o cosiddetti politici, intellettuali o cosiddetti
intellettuali, nonché altri individui che non meritano la qualifica di
cittadini, si comportano sostanzialmente nello stesso modo. Dicono: «Bene.
Agli americani gli sta bene». E sono molto molto, molto arrabbiata.
Arrabbiata d'una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina
ogni distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina di rispondergli e anzitutto
di sputargli addosso. Io gli sputo addosso. Arrabbiata come me, la
poetessa afro-americana Maya Angelou ieri ha ruggito: «Be angry. It's
good to be angry, it's healthy. Siate
arrabbiati. Fa bene essere arrabbiati. È sano». E se a me fa bene io non
lo so. Però so che non farà bene a loro, intendo dire a chi ammira gli
Usama Bin Laden, a chi gli esprime comprensione o simpatia o solidarietà.
Hai acceso un detonatore che da troppo tempo ha voglia di scoppiare, con
la tua richiesta. Vedrai. Mi chiedi anche di raccontare come l'ho vissuta
io, quest'Apocalisse. Di fornire insomma la mia testimonianza. Incomincerò
dunque da quella. Ero a casa, la mia casa è nel centro di Manhattan, e
alle nove in punto ho avuto la sensazione d'un pericolo che forse non mi
avrebbe toccato ma che certo mi riguardava. La sensazione che si prova
alla guerra, anzi in combattimento, quando con ogni poro della tua pelle
senti la pallottola o il razzo che arriva, e rizzi gli orecchi e gridi a
chi ti sta accanto: «Down! Get
down! Giù! Buttati
giù». L'ho respinta. Non ero mica in Vietnam, non ero mica in una delle
tante e fottutissime guerre che sin dalla Seconda Guerra Mondiale hanno
seviziato la mia vita! Ero a New York, perbacco, in un meraviglioso
mattino di settembre, anno 2001. Ma la sensazione ha continuato a
possedermi, inspiegabile, e allora ho fatto ciò che al mattino non faccio
mai. Ho acceso la Tv. Bè, l'audio non funzionava. Lo schermo, sì. E su
ogni canale, qui di canali ve ne sono quasi cento, vedevi una torre del
World Trade Center che bruciava come un gigantesco fiammifero. Un corto
circuito? Un piccolo aereo sbadato? Oppure un atto di terrorismo mirato?
Quasi paralizzata son rimasta a fissarla e mentre la fissavo, mentre mi
ponevo quelle tre domande, sullo schermo è apparso un aereo. Bianco,
grosso. Un aereo di linea. Volava bassissimo. Volando bassissimo si
dirigeva verso la seconda torre come un bombardiere che punta
sull'obiettivo, si getta sull'obiettivo. Sicché ho capito. Ho capito
anche perché nello stesso momento l'audio è tornato e ha trasmesso un
coro di urla selvagge. Ripetute, selvagge. «God! Oh,
God! Oh, God, God, God! Gooooooood! Dio! Oddio! Oddio!
Dio, Dio, Dioooooooo!» E l'aereo s'è infilato nella seconda torre come
un coltello che si infila dentro un panetto di burro. Erano
le 9 e un quarto, ora. E non chiedermi che cosa ho provato durante quei
quindici minuti. Non lo so, non lo ricordo. Ero un pezzo di ghiaccio.
Anche il mio cervello era ghiaccio. Non ricordo nemmeno se certe cose le
ho viste sulla prima torre o sulla seconda. La gente che per non morire
bruciata viva si buttava dalle finestre degli ottantesimi o novantesimi
piani, ad esempio. Rompevano i vetri delle finestre, le scavalcavano, si
buttavano giù come ci si butta da un aereo avendo addosso il paracadute,
e venivano giù così lentamente. Agitando le gambe e le braccia, nuotando
nell'aria. Sì, sembravano nuotare nell'aria. E non arrivavano mai. Verso
i trentesimi piani, però, acceleravano. Si mettevano a gesticolar
disperati, suppongo pentiti, quasi gridassero help-aiuto-help. E magari lo
gridavano davvero. Infine cadevano a sasso e paf! Sai, io credevo d'aver
visto tutto alle guerre. Dalle guerre mi ritenevo vaccinata, e in sostanza
lo sono. Niente mi sorprende più. Neanche quando mi arrabbio, neanche
quando mi sdegno. Però alle guerre io ho sempre visto la gente che muore
ammazzata. Non l'ho mai vista la gente che muore ammazzandosi cioè
buttandosi senza paracadute dalle finestre d'un ottantesimo o novantesimo
o centesimo piano. Alle guerre, inoltre, ho sempre visto roba che scoppia.
Che esplode a ventaglio. E ho sempre udito un gran fracasso. Quelle due
torri, invece, non sono esplose. La prima è implosa, ha inghiottito se
stessa. La seconda s'è fusa, s'è sciolta. Per il calore s'è sciolta
proprio come un panetto di burro messo sul fuoco. E tutto è avvenuto, o
m'è parso, in un silenzio di tomba. Possibile? C'era davvero, quel
silenzio, o era dentro di me? Devo
anche dirti che alle guerre io ho sempre visto un numero limitato di
morti. Ogni combattimento, duecento o trecento morti. Al massimo,
quattrocento. Come
a Dak To, in Vietnam. E
quando il combattimento è finito, gli americani si son messi a
raccattarli, contarli, non credevo ai miei occhi. Nella strage di Mexico
City, quella dove anch'io mi beccai un bel po' di pallottole, di morti ne
raccolsero almeno ottocento. E quando credendomi morta mi scaraventarono
nell'obitorio, i cadaveri che presto mi ritrovai intorno e addosso mi
sembrarono un diluvio. Bè, nelle due torri lavoravano quasi cinquantamila
persone. E ben pochi hanno fatto in tempo ad evacuare. Gli ascensori non
funzionavano più, ovvio, e per scendere a piedi dagli ultimi piani ci
voleva un'eternità. Fiamme permettendo. Non lo conosceremo mai, il numero
dei morti. (Quarantamila, quarantacinquemila...?). Gli americani non lo
diranno mai. Per non sottolineare l'intensità di questa Apocalisse. Per
non dar soddisfazione a Usama Bin Laden e incoraggiare altre Apocalissi. E
poi le due voragini che hanno assorbito le decine di migliaia di creature
son troppo profonde. Al massimo gli operai dissottèrrano pezzettini di
membra sparse. Un naso qui, un dito là. Oppure una specie di melma che
sembra caffè macinato e invece è materia organica. Il residuo dei corpi
che in un lampo si polverizzarono. Ieri il sindaco Giuliani ha mandato
altri diecimila sacchi. Ma sono rimasti inutilizzati. Che cosa sento per i
kamikaze che sono morti con loro? Nessun rispetto. Nessuna pietà. No,
neanche pietà. Io che in ogni caso finisco sempre col cedere alla pietà.
A me i kamikaze cioè i tipi che si suicidano per ammazzare gli altri sono
sempre stati antipatici, incominciando da quelli giapponesi della Seconda
Guerra Mondiale. Non li ho mai considerati Pietri Micca che per bloccar
l'arrivo delle truppe nemiche danno fuoco alle polveri e saltano in aria
con la cittadella, a Torino. Non li ho mai considerati soldati. E
tantomeno li considero martiri o eroi, come berciando e sputando saliva il
signor Arafat me li definì nel 1972. (Ossia quando lo intervistai ad
Amman, luogo dove i suoi marescialli addestravano anche i terroristi della
Baader-Meinhof). Li considero vanesi e basta. Vanesi che invece di cercar
la gloria attraverso il cinema o la politica o lo sport la cercano nella
morte propria e altrui. Una morte che invece del Premio Oscar o della
poltrona ministeriale o dello scudetto gli procurerà (credono)
ammirazione. E, nel caso di quelli che pregano Allah, un posto nel
Paradiso di cui parla il Corano: il Paradiso dove gli eroi si scopano le
Uri. Scommetto che sono vanesi anche fisicamente. Ho sotto gli occhi la
fotografia dei due kamikaze di cui parlo nel mio «Insciallah»: il
romanzo che incomincia con la distruzione della base americana (oltre
quattrocento morti) e della base francese (oltre trecentocinquanta morti)
a Beirut. Se l'erano fatta scattare prima d'andar a morire, quella
fotografia, e prima d'andar a morire erano stati dal barbiere. Guarda che
bel taglio di capelli. Che baffi impomatati, che barbetta leccata, che
basette civettuole... Eh!
Chissà come friggerebbe il signor Arafat ad ascoltarmi. Sai, tra me e lui
non corre buon sangue. Non mi ha mai perdonato né le roventi differenze
di opinione che avemmo durante quell'incontro né il giudizio che su di
lui espressi nel mio libro «Intervista con la storia». Quanto a me, non
gli ho mai perdonato nulla. Incluso il fatto che un giornalista italiano
imprudentemente presentatosi a lui come «mio amico», si sia ritrovato
con una rivoltella puntata contro il cuore. Ergo, non ci frequentiamo più.
Peccato. Perché se lo incontrassi di nuovo, o meglio se gli concedessi
udienza, glielo urlerei sul muso chi sono i martiri e gli eroi. Gli
urlerei: illustre Signor Arafat, i martiri sono i passeggeri dei quattro
aerei dirottati e trasformati in bombe umane. Tra di loro la bambina di
quattro anni che si è disintegrata dentro la seconda torre. Illustre
Signor Arafat, i martiri sono gli impiegati che lavoravano nelle due torri
e al Pentagono. Illustre Signor Arafat, i martiri sono i pompieri morti
per tentar di salvarli. E lo sa chi sono gli eroi? Sono i passeggeri del
volo che doveva buttarsi sulla Casa Bianca e che invece si è schiantato
in un bosco della Pennsylvania perché loro si son ribellati! Per loro sì
che ci vorrebbe il Paradiso, illustre Signor Arafat. Il guaio è che ora
fa Lei il capo di Stato ad perpetuum. Fa il monarca. Rende visita al Papa,
afferma che il terrorismo non le piace, manda le condoglianze a Bush. E
nella sua camaleontica abilità di smentirsi, sarebbe capace di
rispondermi che ho ragione. Ma cambiamo discorso. Io sono molto ammalata,
si sa, e a parlare con gli Arafat mi viene la febbre. Preferisco
parlare dell'invulnerabilità che tanti, in Europa, attribuivano
all'America. Invulnerabilità? Ma come invulnerabilità?!? Più una società
è democratica e aperta, più è esposta al terrorismo. Più un paese è
libero, non governato da un regime poliziesco, più subisce o rischia i
dirottamenti o i massacri che sono avvenuti per tanti anni in Italia in
Germania e in altre regioni d'Europa. E che ora avvengono, ingigantiti, in
America. Non per nulla i paesi non democratici, governati da un regime
poliziesco, hanno sempre ospitato e finanziato e aiutano i terroristi.
L'Unione Sovietica, i paesi satelliti dell'Unione Sovietica e la Cina
Popolare, ad esempio. La Libia di Gheddafi, l'Iraq, l'Iran, la Siria, il
Libano arafattiano, lo stesso Egitto, la stessa Arabia Saudita di cui
Usama Bin Laden è suddito, lo stesso Pakistan, ovviamente l'Afghanistan,
e tutte le regioni musulmane dell'Africa. Negli aeroporti e sugli aerei di
quei paesi io mi sono sempre sentita sicura. Serena come un neonato che
dorme. L'unica cosa che temevo era essere arrestata perché scrivevo male
dei terroristi. Negli aeroporti e sugli aerei europei, invece, mi sono
sempre sentita nervosetta. Negli aeroporti e sugli aerei americani,
addirittura nervosa. E a New York, due volte nervosa. (A
Washington, no. Devo
ammetterlo. L'aereo sul Pentagono non me lo aspettavo davvero). A mio
giudizio, insomma, non è mai stato un problema di «se»: è sempre stato
un problema di «quando». Perché credi che martedì mattina il mio
subconscio abbia avvertito quella inquietudine, quella sensazione di
pericolo? Perché credi che contrariamente alle mie abitudini abbia acceso
il televisore? Perché credi che fra le tre domande che mi ponevo mentre
la prima torre bruciava e l'audio non funzionava, ci fosse quella
sull'attentato? E perché credi che appena apparso il secondo aereo abbia
capito? Poiché l'America è il Paese più forte del mondo, il più ricco,
il più potente, il più moderno, ci sono cascati quasi tutti in quel
tranello. Gli americani stessi, a volte. Ma la vulnerabilità dell'America
nasce proprio dalla sua forza, dalla sua ricchezza, dalla sua potenza,
dalla sua modernità. La solita storia del cane che si mangia la coda. Nasce
anche dalla sua essenza multi-etnica, dalla sua liberalità, dal suo
rispetto per i cittadini e per gli ospiti. Esempio: circa ventiquattro
milioni di americani sono arabi-musulmani. E quando un Mustafà o un
Muhammed viene diciamo dall'Afghanistan per visitare lo zio, nessuno gli
proibisce di frequentare una scuola di pilotaggio per imparare a guidare
un 757. Nessuno gli proibisce d'iscriversi a un'Università (cosa che
spero cambi) per studiare chimica e biologia: le due scienze necessarie a
scatenare una guerra batteriologica. Nessuno. Neppure se il governo teme
che quel figlio di Allah dirotti il 757 oppure butti una fiala di batteri
nel deposito dell'acqua e scateni una strage. (Dico «se» perché
stavolta il governo non ne sapeva un bel niente e la figuraccia fatta
dalla Cia e dall'Fbi va al di là d'ogni limite. Se fossi il presidente
degli Stati Uniti io li caccerei tutti a pedate nei posteriori per
cretineria). E detto ciò torniamo al ragionamento iniziale. Quali sono i
simboli della forza, della ricchezza, della potenza, della modernità
americane? Non certo il jazz e il rock and roll, il chewing-gum e
l'hamburger, Broadway ed Hollywood. Sono i suoi grattacieli. Il suo
Pentagono. La sua scienza. La sua tecnologia. Quei grattacieli
impressionanti, così alti, così belli che ad alzar gli occhi quasi
dimentichi le piramidi e i divini palazzi del nostro passato. Quegli aerei
giganteschi, esagerati, che ormai usano come un tempo usavano i velieri e
i camion perché tutto qui si muove con gli aerei. Tutto. La posta, il
pesce fresco, noi stessi (E non dimenticare che la guerra aerea l'hanno
inventata loro. O almeno sviluppata fino all'isteria). Quel Pentagono
terrificante, quella fortezza che fa paura solo a guardarla. Quella
scienza onnipresente, onnipossente. Quella tecnologia raggelante che in
pochissimi anni ha stravolto la nostra esistenza quotidiana, la nostra
millenaria maniera di comunicare, mangiare, vivere. E dove li ha colpiti,
il reverendo Usama Bin Laden? Sui grattacieli, sul Pentagono. Come? Con
gli aerei, con la scienza, con la tecnologia. By the way: sai cosa mi
impressiona di più in questo tristo ultramiliardario, questo mancato
play-boy che anziché corteggiare le principesse bionde e folleggiare nei
night-club (come faceva a Beirut quando aveva vent’anni) si diverte ad
ammazzar la gente in nome di Maometto e di Allah? Il fatto che il suo
sterminato patrimonio derivi anche dai guadagni d'una Corporation
specializzata nel demolire, e che egli stesso sia un esperto demolitore.
La demolizione è una specialità americana. Quando
ci siamo incontrati t'ho visto quasi stupefatto dall'eroica efficienza e
dall'ammirevole unità con cui gli americani hanno affrontato
quest'Apocalisse. Eh, sì. Nonostante i difetti che le vengono
continuamente rinfacciati, che io stessa le rinfaccio, (ma quelli
dell’Europa e in particolare dell’Italia sono ancora più gravi),
l'America è un paese che ha grosse cose da insegnarci. E a proposito
dell'eroica efficienza lasciami cantare un peana per il sindaco di New
York. Quel Rudolph Giuliani che noi italiani dovremmo ringraziare in
ginocchio. Perché ha un cognome italiano, è un oriundo italiano, e ci fa
fare bella figura dinanzi al mondo intero. E’ un grande anzi grandissimo
sindaco, Rudolph Giuliani. Te lo dice una che non è mai contenta di nulla
e di nessuno incominciando da se stessa. E' un sindaco degno d'un altro
grandissimo sindaco col cognome italiano, Fiorello La Guardia, e tanti dei
nostri sindaci dovrebbero andare a scuola da lui. Presentarsi a capo
chino, anzi con la cenere sul capo, e chiedergli: «Sor Giuliani, per
cortesia ci dice come si fa?». Lui non delega i suoi doveri al prossimo,
no. Non perde tempo nelle bischerate e nelle avidità. Non si divide tra
l'incarico di sindaco e quello di ministro o deputato. (C'è nessuno che
mi ascolta nelle tre città di Stendhal, insomma a Napoli e a Firenze e a
Roma?). Essendo corso subito, e subito entrato nel secondo grattacielo, ha
rischiato di trasformarsi in cenere con gli altri. S'è salvato per un
pelo e per caso. E nel giro di quattro giorni ha rimesso in piedi la città.
Una città che ha nove milioni e mezzo di abitanti, bada bene, e quasi due
nella sola Manhattan. Come abbia fatto, non lo so. E' malato come me,
pover'uomo. Il cancro che torna e ritorna ha beccato anche lui. E, come
me, fa finta d’essere sano: lavora lo stesso. Ma io lavoro a tavolino,
perbacco, stando seduta! Lui, invece... Sembrava un generale che partecipa
di persona alla battaglia. Un soldato che si lancia all'attacco con la
baionetta. «Forza, gente, forzaaa! Tiriamoci su le maniche, sveltiii!»
Ma poteva farlo perché quella gente era, è, come lui. Gente senza boria
e senza pigrizia, avrebbe detto mio padre, e con le palle. Quanto
all'ammirevole capacità di unirsi, alla compattezza quasi marziale con
cui gli americani rispondono alle disgrazie e al nemico, bè: devo
ammettere che lì per lì ha stupito anche me. Sapevo, sì, che era
esplosa al tempo di Pearl Harbor, cioè quando il popolo s'era stretto
intorno a Roosevelt e Roosevelt era entrato in guerra contro la Germania
di Hitler e l'Italia di Mussolini e il Giappone di Hirohito. L'avevo
annusata, sì, dopo l'assassinio di Kennedy. Ma a questo era seguita la
guerra in Vietnam, la lacerante divisione causata dalla guerra in Vietnam,
e in un certo senso ciò mi aveva ricordato la loro Guerra Civile d'un
secolo e mezzo fa. Così, quando ho visto bianchi e neri piangere
abbracciati, dico abbracciati, quando ho visto democratici e repubblicani
cantare abbracciati «God save America, Dio salvi l'America», quando gli
ho visto cancellare tutte le divergenze, sono rimasta di stucco. Lo
stesso, quando ho udito Bill Clinton (persona verso la quale non ho mai
nutrito tenerezze) dichiarare «Stringiamoci intorno a Bush, abbiate
fiducia nel nostro presidente». Lo stesso, quando le medesime parole sono
state ripetute con forza da sua moglie Hillary ora senatore per lo Stato
di New York. Lo stesso, quando sono state reiterate da Lieberman, l'ex
candidato democratico alla vice-presidenza. (Soltanto lo sconfitto Al Gore
è rimasto squallidamente zitto). E lo stesso quando il Congresso ha
votato all'unanimità d'accettare la guerra, punire i responsabili. Ah, se
l'Italia imparasse questa lezione! È un Paese così diviso, l'Italia. Così
fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche
all'interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno
quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi,
biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali.
Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria popolarità
di periferia. Pei propri interessi personali si fanno i dispetti, si
tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io sono assolutamente convinta
che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la Torre di Giotto o la
Torre di Pisa, l'opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo
darebbe la colpa all'opposizione. I capoccia del governo e i capoccia
dell'opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò
lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che
caratterizza gli americani. Nasce
dal loro patriottismo. Io non so se in Italia avete visto e capito quel
che è successo a New York quando Bush è andato a ringraziar gli operai
(e le operaie) che scavando nelle macerie delle due torri cercano di
salvare qualche superstite ma non tiran fuori che qualche naso o qualche
dito. Senza cedere, tuttavia. Senza rassegnarsi, sicché se gli domandi
come fanno ti rispondono: «I can allow myself to be exhausted not to be
defeated. Posso permettermi d'essere esausto, non d'essere sconfitto».
Tutti. Giovani, giovanissimi, vecchi, di mezz'età. Bianchi, neri, gialli,
marroni, viola... L'avete visti o no? Mentre Bush li ringraziava non
facevano che sventolare le bandierine americane, alzare il pugno chiuso,
ruggire: «Iuessè! Iuessè! Iuessè! Usa! Usa! Usa!». In un paese
totalitario avrei pensato: «Ma guarda come l'ha organizzata bene il
Potere!». In America, no. In America queste cose non le organizzi. Non le
gestisci, non le comandi. Specialmente in una metropoli disincantata come
New York, e con operai come gli operai di New York. Sono tipacci, gli
operai di New York. Più liberi del vento. Quelli non obbediscono neanche
ai loro sindacati. Ma se gli tocchi la bandiera, se gli tocchi la
Patria... In inglese la parola Patria non c'è. Per dire Patria bisogna
accoppiare due parole. Father Land, Terra dei Padri. Mother Land, Terra
Madre. Native Land, Terra Nativa. O dire semplicemente My Country, il Mio
Paese. Però il sostantivo Patriotism c'è. L'aggettivo Patriotic c'è. E
a parte la Francia, forse non so immaginare un Paese più patriottico
dell'America. Ah! Io mi son tanto commossa a vedere quegli operai che
stringendo il pugno e sventolando la bandiera ruggivano Iuessè-Iuessè-Iuessè,
senza che nessuno glielo ordinasse. E ho provato una specie di
umiliazione. Perché gli operai italiani che sventolano il tricolore e
ruggiscono Italia-Italia io non li so immaginare. Nei cortei e nei comizi
gli ho visto sventolare tante bandiere rosse. Fiumi, laghi, di bandiere
rosse. Ma di bandiere tricolori gliene ho sempre viste sventolar pochine.
Anzi nessuna. Mal guidati o tiranneggiati da una sinistra arrogante e
devota all'Unione Sovietica, le bandiere tricolori le hanno sempre
lasciate agli avversari. E non è che gli avversari ne abbiano fatto buon
uso, direi. Non ne hanno fatto nemmeno spreco, graziaddio. E quelli che
vanno alla Messa, idem. Quanto al becero con la camicia verde e la
cravatta verde, non sa nemmeno quali siano i colori del tricolore.
Mi-sun-lumbard, mi-sun-lumbard. Quello vorrebbe riportarci alle guerre tra
Firenze e Siena. Risultato, oggi la bandiera italiana la vedi soltanto
alle Olimpiadi se per caso vinci una medaglia. Peggio: la vedi soltanto
negli stadi, quando c'è una partita internazionale di calcio. Unica
occasione, peraltro, in cui riesci a udire il grido Italia-Italia. Eh!
C'è una bella differenza tra un paese nel quale la bandiera della Patria
viene sventolata dai teppisti negli stadi e basta, e un paese nel quale
viene sventolata dal popolo intero. Ad esempio, dagli irreggimentabili
operai che scavano nelle rovine per tirar fuori qualche orecchio o qualche
naso delle creature massacrate dai figli di Allah. Oppure per raccogliere
quel caffè macinato Il
fatto è che l'America è un paese speciale, caro mio. Un paese da
invidiare, di cui esser gelosi, per cose che non hanno nulla a che fare
con la ricchezza eccetera. Lo è perché è nato da un bisogno dell'anima,
il bisogno d'avere una patria, e dall'idea più sublime che l'Uomo abbia
mai concepito: l'idea della Libertà, anzi della libertà sposata all'idea
di uguaglianza. Lo è anche perché a quel tempo l'idea di libertà non
era di moda. L'idea di uguaglianza, nemmeno. Non ne parlavano che certi
filosofi detti Illuministi, di queste cose. Non li trovavi che in un
costosissimo librone a puntate detto l'Encyclopedie, questi concetti. E a
parte gli scrittori o gli altri intellettuali, a parte i principi e i
signori che avevano i soldi per comprare il librone o i libri che avevano
ispirato il librone, chi ne sapeva nulla dell'Illuminismo? Non era mica
roba da mangiare, l'Illuminismo! Non ne parlavan neppure i rivoluzionari
della Rivoluzione Francese, visto che la Rivoluzione Francese sarebbe
incominciata nel 1789 ossia tredici anni dopo la Rivoluzione Americana che
scoppiò nel 1776. (Altro particolare che gli antiamericani del
bene-agli-americani-gli-sta-bene ignorano o fingono di dimenticare. Razza
di ipocriti). È
un paese speciale, un paese da invidiare, inoltre, perché quell'idea
venne capita da contadini spesso analfabeti o comunque ineducati. I
contadini delle colonie americane. E perché venne materializzata da un
piccolo gruppo di leader straordinari: da uomini di grande cultura, di
gran qualità. The
Founding Fathers, i Padri Fondatori. Ma
hai idea di chi fossero i Padri Fondatori, i Benjamin Franklin e i Thomas
Jefferson e i Thomas Paine e i John Adams e i George Washington eccetera?
Altro che gli avvocaticchi (come giustamente li chiamava Vittorio Alfieri)
della Rivoluzione Francese! Altro che i cupi e isterici boia del Terrore,
i Marat e i Danton e i Saint Just e i Robespierre! Erano tipi, i Padri
Fondatori, che il greco e il latino lo conoscevano come gli insegnanti
italiani di greco e di latino (ammesso che ne esistano ancora) non lo
conosceranno mai. Tipi che in greco s'eran letti Aristotele e Platone, che
in latino s'eran letti Seneca e Cicerone, e che i principii della
democrazia greca se l'eran studiati come nemmeno i marxisti del mio tempo
studiavano la teoria del plusvalore. (Ammesso che la studiassero davvero).
Jefferson conosceva anche l'italiano. (Lui diceva «toscano»). In
italiano parlava e leggeva con gran speditezza. Infatti con le duemila
piantine di vite e le mille piantine di olivo e la carta da musica che in
Virginia scarseggiava, nel 1774 il fiorentino Filippo Mazzei gli aveva
portato varie copie d'un libro scritto da un certo Cesare Beccaria e
intitolato «Dei Delitti e delle Pene». Quanto all'autodidatta Franklin,
era un genio. Scienziato, stampatore, editore, scrittore, giornalista,
politico, inventore. Nel 1752 aveva scoperto la natura elettrica del
fulmine e aveva inventato il parafulmine. Scusa se è poco. E fu con
questi leader straordinari, questi uomini di gran qualità, che nel 1776 i
contadini spesso analfabeti e comunque ineducati si ribellarono
all'Inghilterra. Fecero la guerra d'indipendenza, la Rivoluzione
Americana. Bè...
Nonostante i fucili e la polvere da sparo, nonostante i morti che ogni
guerra costa, non la fecero coi fiumi di sangue della futura Rivoluzione
Francese. Non la fecero con la ghigliottina e coi massacri della Vandea.
La fecero con un foglio che insieme al bisogno dell'anima, il bisogno
d'avere una patria, concretizzava la sublime idea della libertà anzi
della libertà sposata all'uguaglianza. La Dichiarazione d'Indipendenza. «We
hold these Truths to be self-evident... Noi
riteniamo evidenti queste verità. Che tutti gli Uomini sono creati
uguali. Che sono dotati dal Creatore di certi inalienabili Diritti. Che
tra questi Diritti v'è il diritto alla Vita, alla Libertà, alla Ricerca
della Felicità. Che per assicurare questi Diritti gli Uomini devono
istituire i governi...». E quel foglio che dalla Rivoluzione Francese in
poi tutti gli abbiamo bene o male copiato, o al quale ci siamo ispirati,
costituisce ancora la spina dorsale dell'America. La linfa vitale di
questa nazione. Sai perché? Perché trasforma i sudditi in cittadini.
Perché trasforma la plebe in Popolo. Perché la invita anzi le ordina di
governarsi, d'esprimere le proprie individualità, di cercare la propria
felicità. Tutto il contrario di ciò che il comunismo faceva proibendo
alla gente di ribellarsi, governarsi, esprimersi, arricchirsi, e mettendo
Sua Maestà lo Stato al posto dei soliti re. «Il comunismo è un regime
monarchico, una monarchia di vecchio stampo. In quanto tale taglia le
palle agli uomini. E quando a un uomo gli tagli le palle non è più un
uomo» diceva mio padre. Diceva anche che invece di riscattare la plebe il
comunismo trasformava tutti in plebe. Rendeva tutti morti di fame. Bè,
secondo me l'America riscatta la plebe. Sono tutti plebei, in America.
Bianchi, neri, gialli, marroni, viola, stupidi, intelligenti, poveri,
ricchi. Anzi i più plebei sono proprio i ricchi. Nella maggioranza dei
casi, certi piercoli! Rozzi, maleducati. Lo vedi subito che non hanno mai
letto Monsignor della Casa, che non hanno mai avuto nulla a che fare con
la raffinatezza e il buon gusto e la sophistication. Nonostante i soldi
che sprecano nel vestirsi, ad esempio, son così ineleganti che in
paragone la regina d'Inghilterra sembra chic. Però sono riscattati,
perdio. E a questo mondo non c'è nulla di più forte, di più potente,
della plebe riscattata. Ti rompi sempre le corna con la Plebe Riscattata.
E con l'America le corna se le sono sempre rotte tutti. Inglesi, tedeschi,
messicani, russi, nazisti, fascisti, comunisti. Da ultimo se le son rotte
perfino i vietnamiti che dopo la vittoria son dovuti scendere a patti con
loro sicché quando un ex presidente degli Stati Uniti va a fargli una
visitina toccano il cielo con un dito. «Bienvenu,
Monsieur le President, bienvenu!». Il
guaio è che i vietnamiti non pregano Allah. E con i figli di Allah la
faccenda sarà dura. Molto lunga e molto dura. Ammenoché il resto
dell'Occidente non smetta di farsela addosso. E ragioni un po' e gli dia
una mano. Non
sto parlando, ovvio, alle iene che se la godono a veder le immagini delle
macerie e ridacchiano bene-agli-americani-gli-sta-bene. Sto parlando alle
persone che pur non essendo stupide o cattive, si cullano ancora nella
prudenza e nel dubbio. E a loro dico: sveglia, gente, sveglia! Intimiditi
come siete dalla paura d'andar contro corrente cioè d'apparire razzisti
(parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è
su una religione), non capite o non volete capire che qui è in atto una
Crociata alla rovescia. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come
siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una
guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella
religione, forse, comunque una guerra di religione. Una guerra che essi
chiamano Jihad. Guerra Santa. Una guerra che non mira alla conquista del
nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle
nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà.
All'annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo
di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e
divertirci e informarci… Non capite o non volete capire che se non ci si
oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E
distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a
cambiare, a migliorare, a rendere un po' più intelligente cioè meno
bigotto o addirittura non bigotto. E con quello distruggerà la nostra
cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri
valori, i nostri piaceri... Cristo! Non vi rendete conto che gli Usama Bin
Laden si ritengono autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché
bevete il vino o la birra, perché non portate la barba lunga o il chador,
perché andate al teatro e al cinema, perché ascoltate la musica e
cantate le canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa vostra,
perché guardate la televisione, perché portate la minigonna o i
calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi o quasi
ignudi, perché scopate quando vi pare e dove vi pare e con chi vi pare?
Non v'importa neanche di questo, scemi? Io sono atea, graziaddio. E non ho
alcuna intenzione di lasciarmi ammazzare perché lo sono. Da
vent'anni lo dico, da vent'anni. Con una certa mitezza, non con questa
passione, vent'anni fa su questa roba scrissi un articolo di fondo per il
«Corriere». Era l'articolo di una persona abituata a stare con tutte le
razze e tutti i credi, d'una cittadina abituata a combattere tutti i
fascismi e tutte le intolleranze, d'una laica senza tabù. Ma era anche
l'articolo di una persona indignata con chi non sentiva il puzzo di una
Guerra Santa a venire, e ai figli di Allah gliene perdonava un po' troppe.
Feci un ragionamento che suonava press'appoco così, vent'anni fa. «Che
senso ha rispettare chi non rispetta noi? Che senso ha difendere la loro
cultura o presunta cultura quando loro disprezzano la nostra? Io voglio
difendere la nostra, e v'informo che Dante Alighieri mi piace più di Omar
Khayan». Apriti cielo. Mi crocifissero. «Razzista, razzista!». Eh,
furono gli stessi progressisti (a quel tempo si chiamavano comunisti) a
crocifiggermi. Del resto quell'insulto me lo presi anche quando i
sovietici invasero l'Afghanistan. Li ricordi quei barbuti con la sottana e
il turbante che prima di sparare il mortaio, anzi a ciascun colpo di
mortaio, berciavano le lodi del Signore? «Allah
akbar! Allah akbar!». Io
li ricordo bene. E a veder accoppiare la parola Dio al colpo di mortaio,
mi venivano i brividi. Mi pareva d'essere nel Medioevo, e dicevo: «I
sovietici sono quello che sono. Però bisogna ammettere che a far quella
guerra proteggono anche noi. E li ringrazio». Riapriti cielo. «Razzista,
razzista!». Nella loro cecàggine non volevan neanche sentirmi parlare
delle mostruosità che i figli di Allah commettevano sui militari fatti
prigionieri. (Gli segavano le braccia e le gambe, rammenti? Un vizietto a
cui s'erano già abbandonati in Libano coi prigionieri cristiani ed
ebrei). Non volevano che lo dicessi, no. E pur di fare i progressisti
applaudivano gli americani che rincretiniti dalla paura dell’Unione
Sovietica riempivan di armi l'eroico-popolo-afghano. Addestravano i
barbuti, e coi barbuti un barbutissimo Usama Bin Laden. Via-i-russi-dall'Afghanistaaaan!
I-russi- devono-andarsene-dall'Afghanistaaaan! Bè, i russi se ne sono
andati dall'Afghanistan: contenti? E dall'Afghanistan i barbuti del
barbutissimo Usama Bin Laden sono arrivati a New York con gli sbarbati
siriani egiziani iracheni libanesi palestinesi sauditi che componevano la
banda dei diciannove kamikaze identificati: contenti? Peggio: ora qui si
discute sul prossimo attacco che ci colpirà con le armi chimiche,
biologiche, radioattive, nucleari. Si dice che la nuova strage è
inevitabile perché l’Iraq gli fornisce il materiale. Si parla di
vaccinazioni, di maschere a gas, di peste. Ci si chiede quando avverrà...
Contenti? Alcuni
non sono né contenti né scontenti. Se ne fregano e basta. Tanto
l'America è lontana, tra l'Europa e l'America c'è un oceano... Eh, no,
cari miei. No. C'è un filo d'acqua. Perché quando è in ballo il destino
dell'Occidente, la sopravvivenza della nostra civiltà, New York siamo
noi. L'America siamo noi. Noi italiani, noi francesi, noi inglesi, noi
tedeschi, noi austriaci, noi ungheresi, noi slovacchi, noi polacchi, noi
scandinavi, noi belgi, noi spagnoli, noi greci, noi portoghesi. Se crolla
l'America, crolla l'Europa. Crolla l'Occidente, crolliamo noi. E non solo
in senso finanziario cioè nel senso che, mi pare, vi preoccupa di più.
(Una volta, ero giovane e ingenua, dissi ad Arthur Miller: «Gli americani
misurano tutto coi soldi, non pensano che ai soldi». E Arthur Miller mi
rispose: «Voi no?»). In tutti i sensi crolliamo, caro mio. E al posto
delle campane ci ritroviamo i muezzin, al posto delle minigonne ci
ritroviamo il chador, al posto del cognacchino il latte di cammella.
Neanche questo capite, neanche questo volete capire?!? Blair lo ha capito.
È venuto qui e ha portato anzi rinnovato a Bush la solidarietà degli
inglesi. Non una solidarietà espressa con le chiacchiere e i piagnistei:
una solidarietà basata sulla caccia ai terroristi e sull’alleanza
militare. Chirac, no. Come sai la scorsa settimana era qui in visita
ufficiale. Una
visita prevista da tempo, non una visita ad hoc. Ha visto le macerie delle
due torri, ha saputo che i morti sono un numero incalcolabile anzi
inconfessabile, ma non s'è sbilanciato. Durante l'intervista alla Cnn ben
quattro volte la ma amica Cristiana Amanpour gli ha chiesto in qual modo e
in qual misura intendesse schierarsi contro questa Jihad, e per quattro
volte Chirac ha evitato una risposta. È sgusciato via come un'anguilla.
Veniva voglia di gridargli: «Monsieur le President! Ricorda lo sbarco in
Normandia? Lo sa quanti americani sono crepati in Normandia per cacciare i
nazisti anche dalla Francia?». Escluso Blair, del resto, neanche fra gli
altri europei vedo Riccardi Cuor di Leone. E tantomeno ne vedo in Italia
dove il governo non ha individuato quindi arrestato alcun complice o
sospetto complice di Usama Bin Laden. Perdio, signor cavaliere, perdio!
Malgrado la paura della guerra, in ogni paese d'Europa è stato
individuato e arrestato qualche complice di Usama Bin Laden. In Francia,
in Germania, in Inghilterra, in Spagna... Ma in Italia dove le moschee di
Milano e di Torino e di Roma traboccano di mascalzoni che inneggiano a
Usama Bin Laden, di terroristi in attesa di far saltare in aria la Cupola
di San Pietro, nessuno. Zero. Nulla. Nessuno. Mi spieghi, signor
cavaliere: son così incapaci i Suoi poliziotti e carabinieri? Son così
coglioni i Suoi servizi segreti? Son così scemi i Suoi funzionari? E son
tutti stinchi di santo, tutti estranei a ciò che è successo e succede, i
figli di Allah che ospitiamo? Oppure a fare le indagini giuste, a
individuare e arrestare chi finoggi non avete individuato e arrestato, Lei
teme di subire il solito ricatto razzista-razzista? Io, vede, no. Cristo!
Io non nego a nessuno il diritto di avere paura. Chi non ha paura della
guerra è un cretino. E chi vuol far credere di non avere paura alla
guerra, l’ho scritto mille volte, è insieme un cretino e un bugiardo.
Ma nella Vita e nella Storia vi sono casi in cui non è lecito aver paura.
Casi in cui aver paura è immorale e incivile. E quelli che, per debolezza
o mancanza di coraggio o abitudine a tenere il piede in due staffe si
sottraggono a questa tragedia, a me sembrano masochisti. Masochisti,
sì, masochisti. Perché vogliamo farlo questo discorso su ciò che tu
chiami Contrasto-fra-le-Due-Culture? Bè, se vuoi proprio saperlo, a me dà
fastidio perfino parlare di due culture: metterle sullo stesso piano come
se fossero due realtà parallele, di uguale peso e di uguale misura. Perché
dietro la nostra civiltà c'è Omero, c'è Socrate, c'è Platone, c'è
Aristotele, c'è Fidia, perdio. C'è l'antica Grecia col suo Partenone e
la sua scoperta della Democrazia. C'è l'antica Roma con la sua grandezza,
le sue leggi, il suo concetto della Legge. Le sue sculture, la sua
letteratura, la sua architettura. I suoi palazzi e i suoi anfiteatri, i
suoi acquedotti, i suoi ponti, le sue strade. C'è un rivoluzionario, quel
Cristo morto in croce, che ci ha insegnato (e pazienza se non lo abbiamo
imparato) il concetto dell'amore e della giustizia. C'è anche una Chiesa
che mi ha dato l'Inquisizione, d'accordo. Che mi ha torturato e bruciato
mille volte sul rogo, d'accordo. Che mi ha oppresso per secoli, che per
secoli mi ha costretto a scolpire e dipingere solo Cristi e Madonne, che
mi ha quasi ammazzato Galileo Galilei. Me lo ha umiliato, me lo ha
zittito. Però ha dato anche un gran contributo alla Storia del Pensiero:
sì o no? E poi dietro la nostra civiltà c'è il Rinascimento. C'è
Leonardo da Vinci, c'è Michelangelo, c'è Raffaello, c’è la musica di
Bach e di Mozart e di Beethoven. Su su fino a Rossini e Donizetti e Verdi
and Company. Quella musica senza la quale noi non sappiamo vivere e che
nella loro cultura o supposta cultura è proibita. Guai se fischi una
canzonetta o mugoli il coro del Nabucco. E infine c'è la Scienza, perdio.
Una scienza che ha capito parecchie malattie e le cura. Io sono ancora
viva, per ora, grazie alla nostra scienza: non quella di Maometto. Una
scienza che ha inventato macchine meravigliose. Il treno, l'automobile,
l'aereo, le astronavi con cui siamo andati sulla Luna e su Marte e presto
andremo chissàddove. Una scienza che ha cambiato la faccia di questo
pianeta con l'elettricità, la radio, il telefono, la televisione, e a
proposito: è vero che i santoni della sinistra non vogliono dire ciò che
ho appena detto?!? Dio, che bischeri! Non cambieranno mai. Ed ora ecco la
fatale domanda: dietro all’altra cultura che c’è? Boh!
Cerca cerca, io non ci trovo che Maometto col suo Corano e Averroè coi
suoi meriti di studioso. (I Commentari su Aristotele eccetera), Arafat ci
trova anche i numeri e la matematica. Di nuovo berciandomi addosso, di
nuovo coprendomi di saliva, nel 1972 mi disse che la sua cultura era
superiore alla mia, molto superiore alla mia, perché i suoi nonni avevano
inventato i numeri e la matematica. Ma Arafat ha la memoria corta. Per
questo cambia idea e si smentisce ogni cinque minuti. I suoi nonni non
hanno inventato i numeri e la matematica. Hanno inventato la grafia dei
numeri che anche noi infedeli adopriamo, e la matematica è stata
concepita quasi contemporaneamente da tutte le antiche civiltà. In
Mesopotamia, in Grecia, in India, in Cina, in Egitto, tra i Maya... I suoi
nonni, Illustre Signor Arafat, non ci hanno lasciato che qualche bella
moschea e un libro col quale da millequattrocento anni mi rompono le
scatole più di quanto i cristiani me le rompano con la Bibbia e gli ebrei
con la Torah. E ora vediamo quali sono i pregi che distinguono questo
Corano. Davvero pregi? Dacché i figli di Allah hanno semidistrutto New
York, gli esperti dell'Islam non fanno che cantarmi le lodi di Maometto:
spiegarmi che il Corano predica la pace e la fratellanza e la giustizia.
(Del resto lo dice anche Bush, povero Bush. E va da sé che Bush deve
tenersi buoni i ventiquattro milioni di americani-musulmani, convincerli a
spifferare quel che sanno sugli eventuali parenti o amici o conoscenti
devoti a Usama Bin Laden). Ma allora come la mettiamo con la storia dell'Occhio-per-Occhio-Dente-per-Dente?
Come la mettiamo con la faccenda del chador anzi del velo che copre il
volto delle musulmane, sicché per dare una sbirciata al prossimo quelle
infelici devon guardare attraverso una fitta rete posta all'altezza degli
occhi? Come la mettiamo con la poligamia e col principio che le donne
debbano contare meno dei cammelli, che non debbano andare a scuola, non
debbano andare dal dottore, non debbano farsi fotografare eccetera? Come
la mettiamo col veto degli alcolici e la pena di morte per chi li beve?
Anche questo sta nel Corano. E non mi sembra mica tanto giusto, tanto
fraterno, tanto pacifico. Ecco
dunque la mia risposta alla tua domanda sul Contrasto-delle-Due-Culture.
Al mondo c'è posto per tutti, dico io. A casa propria tutti fanno quel
che gli pare. E se in alcuni paesi le donne sono così stupide da
accettare il chador anzi il velo da cui si guarda attraverso una fitta
rete posta all'altezza degli occhi, peggio per loro. Se son così
scimunite da accettar di non andare a scuola, non andar dal dottore, non
farsi fotografare eccetera, peggio per loro. Se son così minchione da
sposare uno stronzo che vuole quattro mogli, peggio per loro. Se i loro
uomini sono così grulli da non bere la birra e il vino, idem. Non sarò
io a impedirglielo. Ci mancherebbe altro. Sono stata educata nel concetto
di libertà, io, e la mia mamma diceva: «Il mondo è bello perché è
vario». Ma se pretendono d'imporre le stesse cose a me, a casa mia... Lo
pretendono. Usama Bin Laden afferma che l'intero pianeta Terra deve
diventar musulmano, che dobbiamo convertirci all'Islam, che con le buone o
con le cattive lui ci convertirà, che a tal scopo ci massacra e continuerà
a massacrarci. E questo non può piacerci, no. Deve metterci addosso una
gran voglia di rovesciar le carte, ammazzare lui. Però la cosa non si
risolve, non si esaurisce, con la morte di Usama Bin Laden. Perché gli
Usama Bin Laden sono decine di migliaia, ormai, e non stanno soltanto in
Afghanistan o negli altri paesi arabi. Stanno dappertutto, e i più
agguerriti stanno proprio in Occidente. Nelle nostre città, nelle nostre
strade, nelle nostre università, nei gangli della tecnologia. Quella
tecnologia che qualsiasi ottuso può maneggiare. La Crociata è in atto da
tempo. E funziona come un orologio svizzero, sostenuta da una fede e da
una perfidia paragonabile soltanto alla fede e alla perfidia di Torquemada
quando gestiva l'Inquisizione. Infatti trattare con loro è impossibile.
Ragionarci, impensabile. Trattarli con indulgenza o tolleranza o speranza,
un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso. Te
lo dice una che quel tipo di fanatismo lo ha conosciuto abbastanza bene in
Iran, in Pakistan, in Bangladesh, in Arabia Saudita, in Kuwait, in Libia,
in Giordania, in Libano, e a casa sua. Cioè in Italia. Lo ha conosciuto,
ed anche attraverso episodi triviali, anzi grotteschi, ne ha avuto
raggelanti conferme. Io non dimentico mai quel che mi accadde
all'ambasciata iraniana di Roma quando chiesi il visto per recarmi a
Teheran, per intervistare Khomeini, e mi presentai con le unghie smaltate
di rosso. Per loro, segno di immoralità. Mi trattarono come una
prostituta da bruciare sul rogo. Mi ingiunsero di levarlo immediatamente
quel rosso. E se non gli avessi detto anzi urlato che cosa gradivo levare,
anzi tagliare a loro... Non dimentico nemmeno quel che mi accadde a Qom,
la città santa di Khomeini, dove in quanto donna venni respinta da tutti
gli alberghi. Per intervistare Khomeini dovevo mettermi il chador, per
mettermi il chador dovevo togliermi i blue jeans, per togliermi i blue
jeans dovevo appartarmi, e naturalmente avrei potuto effettuare
l'operazione nell'automobile con la quale ero giunta da Teheran. Ma
l'interprete me lo impedì. Lei-è-pazza, lei-è-pazza,
a-fare-una-cosa-simile-a-Qom-si-finisce-fucilati. Preferì portarmi all'ex
Palazzo Reale dove un custode pietoso ci ospitò, ci prestò l'ex Sala del
Trono. Infatti io mi sentivo come la Madonna che per dare alla luce il
Bambin Gesù si rifugia insieme a Giuseppe nella stalla scaldata
dall'asino e dal bue. Ma a un uomo e a una donna non sposati fra loro il
Corano vieta di appartarsi dietro una porta chiusa, ahimé, e d'un tratto
la porta si aprì. Il mullah addetto al Controllo della Moralità irruppe
strillando vergogna-vergogna, peccato-peccato, e v'era solo un modo per
non finire fucilati: sposarsi. Firmare l'atto di matrimonio a scadenza
(quattro mesi) che il mullah ci sventolava sulla faccia. Il guaio è che
l'interprete aveva una moglie spagnola, una certa Consuelo per nulla
disposta ad accettare la poligamia, e io non volevo sposare nessuno.
Tantomeno un iraniano con la moglie spagnola e nient'affatto disposta ad
accettare la poligamia. Nel medesimo tempo non volevo finir fucilata ossia
perdere l'intervista con Khomeini. In tal dilemma mi dibattevo e... Ridi,
ne son certa. Ti sembrano barzellette. Bè, allora il seguito di questo
episodio non te lo racconto. Per farti piangere ti racconto quello dei
dodici giovanotti impuri che finita la guerra del Bangladesh vidi
giustiziare a Dacca. Li giustiziarono sul campo dello stadio di Dacca, a
colpi di baionetta nel torace o nel ventre, e alla presenza di ventimila
fedeli che dalle tribune applaudivano in nome di Dio. Tuonavano «Allah
akbar, Allah akbar». Lo so, lo so: nel Colosseo gli antichi romani,
quegli antichi romani di cui la mia cultura va fiera, si divertivano a
veder morire i cristiani dati in pasto ai leoni. Lo so, lo so: in tutti i
paesi d'Europa i cristiani, quei cristiani ai quali malgrado il mio
ateismo riconosco il contributo che hanno dato alla Storia del Pensiero,
si divertivano a veder bruciare gli eretici. Però è trascorso parecchio
tempo, siamo diventati un pochino più civili, e anche i figli di Allah
dovrebbero aver compreso che certe cose non si fanno. Dopo i dodici
giovanotti impuri ammazzarono un bambino che per salvare il fratello
condannato a morte s'era buttato sui giustizieri. A lui schiacciarono la
testa con gli scarponi da militare. E se non ci credi, bè: rileggi la mia
cronaca o la cronaca dei giornalisti francesi e tedeschi che inorriditi
quanto me erano lì con me. Meglio: guardati le fotografie che uno di essi
scattò. Comunque il punto che mi preme sottolineare non è questo. È
che, concluso lo scempio, i ventimila fedeli (molte donne) lasciarono le
tribune e scesero nel campo. Non in maniera scomposta, cialtrona, no. In
maniera ordinata, solenne. Lentamente composero un corteo e, sempre in
nome di Dio, passarono sopra i cadaveri. Sempre tuonando Allah-akbar,
Allah-akbar. Li distrussero come le due Torri di New York. Li ridussero a
un tappeto sanguinolento di ossa spiaccicate. Oh,
potrei continuare all'infinito. Dirti cose mai dette, cose da farti
rizzare i capelli in testa. Su quel rimbambito di Khomeini, ad esempio,
che dopo l'intervista tenne un comizio a Qom per dichiarare che io lo
accusavo di tagliare i seni alle donne. Da tale comizio ricavò un video
che per mesi venne trasmesso alla televisione di Teheran sicché, quando
l'anno successivo tornai a Teheran, venni arrestata appena scesa
dall'aereo. E la vidi brutta, sai, proprio brutta. Era il periodo degli
ostaggi americani... potrei parlarti di quel Mujib Rahman che, sempre a
Dacca, aveva ordinato ai suoi guerriglieri di eliminarmi in quanto europea
pericolosa, e meno male che a rischio della propria vita un colonnello
inglese mi salvò. O di quel palestinese di nome Habash che per venti
minuti mi fece tenere un mitragliatore puntato alla testa. Dio, che gente!
I soli coi quali abbia avuto un rapporto civile restano il povero Alì
Bhutto cioè il primo ministro del Pakistan, morto impiccato perché
troppo amico dell’Occidente, e il bravissimo re di Giordania: re Hussein.
Ma quei due erano musulmani quanto io son cattolica. Comunque voglio darti
la conclusione del mio ragionamento. Una conclusione che non piacerà a
molti, visto che difendere la propria cultura, in Italia, sta diventando
peccato mortale. E visto che intimiditi dall’impropria parola «razzista»,
tutti tacciono come conigli. Io
non vado a rizzare tende alla Mecca. Io non vado a cantar Paternostri e
Avemarie dinanzi alla tomba di Maometto. Io non vado a fare pipì sui
marmi delle loro moschee, non vado a fare la cacca ai piedi dei loro
minareti. Quando mi trovo nei loro paesi (cosa dalla quale non traggo mai
diletto) non dimentico mai d'essere un'ospite e una straniera. Sto attenta
a non offenderli con abiti o gesti o comportamenti che per noi sono
normali e per loro inammissibili. Li tratto con doveroso rispetto,
doverosa cortesia, mi scuso se per sbadatezza o ignoranza infrango qualche
loro regola o superstizione. E questo urlo di dolore e di sdegno io te
l'ho scritto avendo dinanzi agli occhi immagini che non sempre mi davano
le apocalittiche scene con le quali ho incominciato il discorso. A volte
invece di quelle vedevo l'immagine per me simbolica (quindi infuriante)
della gran tenda con cui un'estate fa i mussulmani somali sfregiarono e
smerdarono e oltraggiarono per tre mesi piazza del Duomo a Firenze. La mia
città. Una
tenda rizzata per biasimare condannare insultare il governo italiano che
li ospitava ma non gli concedeva le carte necessarie a scorrazzare per
l’Europa e non gli lasciava portare in Italia le orde dei loro parenti.
Mamme, babbi, fratelli, sorelle, zii, zie, cugini, cognate incinte, e
magari i parenti dei parenti. Una tenda situata accanto al bel palazzo
dell'Arcivescovado sul cui marciapiede tenevano le scarpe o le ciabatte
che nei loro paesi allineano fuori dalle moschee. E insieme alle scarpe o
le ciabatte, le bottiglie vuote dell'acqua con cui si lavavano i piedi
prima della preghiera. Una tenda posta di fronte alla cattedrale con la
cupola del Brunelleschi, e a lato del Battistero con le porte d'oro del
Ghiberti. Una tenda, infine, arredata come un rozzo appartamentino: sedie,
tavolini, chaise-longues, materassi per dormire e per scopare, fornelli
per cuocere il cibo e appestare la piazza col fumo e col puzzo. E, grazie
alla consueta incoscienza dell'Enel che alle nostre opere d'arte tiene
quanto tiene al nostro paesaggio, fornita di luce elettrica. Grazie a un
radio-registratore, arricchita dalla vociaccia sguaiata d'un muezzin che
puntualmente esortava i fedeli, assordava gli infedeli, e soffocava il
suono delle campane. Insieme a tutto ciò, le gialle strisciate di urina
che profanavano i marmi del Battistero. (Perbacco! Hanno la gettata lunga,
questi figli di Allah! Ma come facevano a colpire l'obiettivo separato
dalla ringhiera di protezione e quindi distante quasi due metri dal loro
apparato urinario?) Con le gialle strisciate di urina, il fetore dello
sterco che bloccava il portone di San Salvatore al Vescovo: la squisita
chiesa romanica (anno Mille) che sta alle spalle di piazza del Duomo e che
i figli di Allah avevano trasformato in cacatoio. Lo sai bene. Lo
sai bene perché fui io a chiamarti, pregarti di parlarne sul «Corriere»,
ricordi? Chiamai anche il sindaco che, glielo concedo, venne gentilmente a
casa mia. Mi ascoltò, mi dette ragione. «Ha ragione, ha proprio
ragione...». Ma la tenda non la tolse. Se ne dimenticò o non gli riuscì.
Chiamai anche il ministro degli Esteri che era un fiorentino, anzi uno di
quei fiorentini che parlano con l'accento molto fiorentino, nonché
coinvolto nella faccenda. E pure lui, glielo concedo, mi ascoltò. Mi
dette ragione: «Eh, sì. Ha ragione, sì». Ma per toglier la tenda non
mosse un dito e, quanto ai figli di Allah che urinavano sul Battistero e
smerdavano San Salvatore al Vescovo, presto li accontentò. (Mi risulta
che i babbi e le mamme e i fratelli e le sorelle e gli zii e le zie e i
cugini e le cognate incinte ora stiano dove volevano stare). Cioè a
Firenze e in altre città d’Europa. Allora cambiai sistema. Chiamai un
simpatico poliziotto che dirige l'ufficio-sicurezza e gli dissi: «Caro
poliziotto, io non sono un politico. Quando dico di fare una cosa, la
faccio. Inoltre conosco la guerra e di certe cose me ne intendo. Se entro
domani non levate la fottuta tenda, io la brucio. Giuro sul mio onore che
la brucio, che neanche un reggimento di carabinieri riuscirebbe a
impedirmelo, e per questo voglio essere arrestata. Portata in galera con
le manette. Così finisco su tutti i giornali». Bè, essendo più
intelligente degli altri, nel giro di poche ore lui la levò. Al posto
della tenda rimase soltanto un'immensa e disgustosa macchia di sudiciume.
Però fu una vittoria di Pirro. Lo fu in quanto non influì per niente
sugli altri scempi che da anni feriscono e umiliano quella che era la
capitale dell'arte e della cultura e della bellezza, non scoraggiò per
niente gli altri arrogantissimi ospiti della città: gli albanesi, i
sudanesi, i bengalesi, i tunisini, gli algerini, i pakistani, i nigeriani
che con tanto fervore contribuiscono al commercio della droga e della
prostituzione a quanto pare non proibito dal Corano. Eh, sì: sono tutti
dov'erano prima che il mio poliziotto togliesse la tenda. Dentro il
piazzale degli Uffizi, ai piedi della Torre di Giotto. Dinanzi alla Loggia
dell'Orcagna, intorno alle Logge del Porcellino. Di faccia alla Biblioteca
Nazionale, all'entrata dei musei. Sul Ponte Vecchio dove ogni tanto si
pigliano a coltellate o a revolverate. Sui Lungarni dove hanno preteso e
ottenuto che il Municipio li finanziasse (Sissignori, li finanziasse). Sul
sagrato della Chiesa di San Lorenzo dove si ubriacano col vino e la birra
e i liquori, razza di ipocriti, e dove dicono oscenità alle donne. (La
scorsa estate, su quel sagrato, le dissero perfino a me che ormai sono
un'antica signora. E va da sé che mal gliene incolse. Oooh, se mal gliene
incolse! Uno sta ancora lì a mugulare sui suoi genitali). Nelle storiche
strade dove bivaccano col pretesto di vender-la-merce. Per merce intendi
borse e valige copiate dai modelli protetti da brevetto, quindi illegali,
gigantografie, matite, statuette africane che i turisti ignoranti credono
sculture del Bernini, roba-da-annusare. («Je connais mes droits, conosco
i miei diritti» mi sibilò, sul Ponte Vecchio, uno a cui avevo visto
vendere la roba-da-annusare). E guai se il cittadino protesta, guai se gli
risponde quei-diritti-vai-ad-esercitarli-a-casa-tua. «Razzista, razzista!».
Guai se camminando tra la merce che blocca il passaggio un pedone gli
sfiora la presunta scultura del Bernini. «Razzista, razzista!». Guai se
un Vigile Urbano gli si avvicina, azzarda: «Signor figlio di Allah,
Eccellenza, le dispiacerebbe spostarsi un capellino e lasciar passare la
gente?». Se lo mangiano vivo. Lo aggrediscono col coltello. Come minimo,
gli insultano la mamma e la progenie. «Razzista, razzista!». E la gente
sopporta, rassegnata. Non reagisce nemmeno se gli gridi ciò che il mio
babbo urlava durante il fascismo: «Ma non ve ne importa nulla della
dignità? Non ce l'avete un po' d'orgoglio, pecoroni?». Succede
anche nelle altre città, lo so. A Torino, per esempio. Quella Torino che
fece l'Italia e che ormai non sembra nemmeno una città italiana. Sembra
Algeri, Dacca, Nairobi, Damasco, Beirut. A Venezia. Quella Venezia dove i
piccioni di piazza San Marco sono stati sostituiti dai tappetini con la «merce»
e perfino Otello si sentirebbe a disagio. A Genova. Quella Genova dove i
meravigliosi palazzi che Rubens ammirava tanto sono stati sequestrati da
loro e deperiscono come belle donne stuprate. A Roma. Quella Roma dove il
cinismo della politica d'ogni menzogna e d'ogni colore li corteggia nella
speranza d'ottenerne il futuro voto, e dove a proteggerli c'è lo stesso
Papa. (Santità, perché in nome del Dio Unico non se li prende in
Vaticano? A condizione che non smerdino anche la Cappella Sistina e le
statue di Michelangelo e i dipinti di Raffaello: sia chiaro). Mah! Ora son
io che non capisco. Anziché figli-di-Allah in Italia li chiamano «lavoratori
stranieri». Oppure «mano-d'opera-di-cui-v'è-bisogno». E sul fatto che
alcuni di loro lavorino, non ho alcun dubbio. Gli italiani son diventati
talmente signorini. Vanno in vacanza alle Seychelles, vengon a New York
per comprare i lenzuoli da Bloomingdale's. Si vergognano a fare gli operai
e i contadini, e non puoi più associarli col proletariato. Ma quelli di
cui parlo, che lavoratori sono? Che lavoro fanno? In che modo suppliscono
al bisogno della mano d'opera che l'ex proletariato italiano non fornisce
più? Bivaccando nella città col pretesto della merce-da-vendere?
Bighellonando e deturpando i nostri monumenti? Pregando cinque volte al
giorno? E poi c'è un'altra cosa che non capisco. Se davvero son tanto
poveri, chi glieli dà i soldi per il viaggio sulla nave o sul gommone che
li porta in Italia? Chi glieli dà i dieci milioni a testa (come minimo
dieci milioni) necessari a comprarsi il biglietto? Non glieli darà mica
Usama Bin Laden allo scopo d’avviare una conquista che non è solo una
conquista di anime, è anche una conquista di territorio? Bè,
anche se non glieli dà, questa faccenda non mi convince. Anche se i
nostri ospiti sono assolutamente innocenti, anche se fra loro non c'è
nessuno che vuole distruggermi la Torre di Pisa o la Torre di Giotto,
nessuno che vuol mettermi il chador, nessuno che vuol bruciarmi sul rogo
di una nuova Inquisizione, la loro presenza mi allarma. Mi incute disagio.
E sbaglia chi questa faccenda la prende alla leggera o con ottimismo.
Sbaglia, soprattutto, chi paragona l'ondata migratoria che s'è abbattuta
sull'Italia e sull'Europa con l'ondata migratoria che si rovesciò
sull'America nella seconda metà dell'Ottocento anzi verso la fine
dell'Ottocento e all'inizio del Novecento. Ora ti dico perché. *** Non
molto tempo fa mi capitò di captare una frase pronunciata da uno dei
mille presidenti del Consiglio di cui l'Italia s'è onorata in pochi
decenni. «Eh, anche mio zio era un emigrante! Io lo ricordo mio zio che
con la valigetta di fibra partiva per l'America!». O qualcosa del genere.
Eh, no, caro mio. No. Non è affatto la stessa cosa. E non lo è per due
motivi abbastanza semplici. Il
primo è che nella seconda metà dell'Ottocento l'ondata migratoria in
America non avvenne in maniera clandestina e per prepotenza di chi la
effettuava. Furono gli americani stessi a volerla, sollecitarla. E per un
preciso atto del Congresso. «Venite, venite, ché abbiamo bisogno di voi.
Se venite, vi si regala un bel pezzo di terra». Ci hanno fatto anche un
film, gli americani. Quello con Tom Cruise e Nicole Kidman, e del quale
m'ha colpito il finale. La scena dei disgraziati che corrono per piantare
la bandierina bianca sul terreno che diventerà loro, sicché solo i più
giovani e i più forti ce la fanno. Gli altri restano con un palmo di naso
e alcuni nella corsa muoiono. Ch’io sappia, in Italia non c'è mai stato
un atto del Parlamento che invitasse anzi sollecitasse i nostri ospiti a
lasciare i loro paesi. Venite-venite-ché-abbiamo-tanto-bisogno-di-voi,
se-venite-vi-regaliamo-il-poderino-nel-Chianti. Da noi ci sono venuti di
propria iniziativa, coi maledetti gommoni e in barba ai finanzieri che
cercavano di rimandarli indietro. Più che d’una emigrazione s’è
trattato dunque d’una invasione condotta all’insegna della
clandestinità. Una clandestinità che disturba perché non è mite e
dolorosa. È arrogante e protetta dal cinismo dei politici che chiudono un
occhio e magari tutti e due. Io non dimenticherò mai i comizi con cui
l’anno scorso i clandestini riempiron le piazze d’Italia per ottenere
i permessi di soggiorno. Quei volti distorti, cattivi. Quei pugni alzati,
minacciosi. Quelle voci irose che mi riportavano alla Teheran di Khomeini.
Non li dimenticherò mai perché mi sentivo offesa dalla loro prepotenza
in casa mia, e perché mi sentivo beffata dai ministri che ci dicevano: «Vorremmo
rimpatriarli ma non sappiamo dove si nascondono». Stronzi! In quelle
piazze ve n’erano migliaia, e non si nascondevano affatto. Per
rimpatriarli sarebbe bastato metterli in fila, prego-gentile-signore-s’accomodi,
e accompagnarli ad un porto od aeroporto. Il
secondo motivo, caro nipote dello zio con la valigetta di fibra, lo
capirebbe anche uno scolaro delle elementari. Per esporlo bastano un paio
di elementi. Uno: l’America è un continente. E nella seconda metà
dell’Ottocento cioè quando il Congresso Americano dette il via
all’immigrazione, questo continente era quasi spopolato. Il grosso della
popolazione si condensava negli stati dell’Est ossia gli stati dalla
parte dell’Atlantico, e nel Mid-West c’era ancora meno gente. La
California era quasi vuota. Beh, l’Italia non è un continente. È un
paese molto piccolo e tutt’altro che spopolato. Due: l’America è un
paese assai giovane. Se pensi che la Guerra d’Indipendenza si svolse
alla fine del 1700, ne deduci che ha appena duecento anni e capisci perché
la sua identità culturale non è ancora ben definita. L’Italia, al
contrario, è un paese molto vecchio. La sua storia dura da almeno tremila
anni. La sua identità culturale è quindi molto precisa e bando alle
chiacchiere: non prescinde da una religione che si chiama religione
cristiana e da una chiesa che si chiama Chiesa Cattolica. La gente come me
ha un bel dire: io-con-la-chiesa-cattolica-non-c'entro. C'entro, ahimé
c'entro. Che mi piaccia o no, c'entro. E come farei a non entrarci? Sono
nata in un paesaggio di chiese, conventi, Cristi, Madonne, Santi. La prima
musica che ho udito venendo al mondo è stata la musica della campane. Le
campane di Santa Maria del Fiore che all'Epoca della Tenda la vociaccia
sguaiata del muezzin soffocava. È in quella musica, in quel paesaggio,
che sono cresciuta. È attraverso quella musica e quel paesaggio che ho
imparato cos'è l'architettura, cos'è la scultura, cos'è la pittura,
cos'è l'arte. È attraverso quella chiesa (poi rifiutata) che ho
incominciato a chiedermi cos'è il Bene, cos'è il Male, e perdio... Ecco:
vedi? Ho scritto un'altra volta «perdio». Con tutto il mio laicismo,
tutto il mio ateismo, son così intrisa di cultura cattolica che essa fa
addirittura parte del mio modo d'esprimermi. Oddio, mioddio, graziaddio,
perdio, Gesù mio, Dio mio, Madonna mia, Cristo qui, Cristo là. Mi vengon
così spontanee, queste parole, che non m'accorgo nemmeno di pronunciarle
o di scriverle. E vuoi che te la dica tutta? Sebbene al cattolicesimo non
abbia mai perdonato le infamie che m'ha imposto per secoli incominciando
dall'Inquisizione che m'ha pure bruciato la nonna, povera nonna, sebbene
coi preti io non ci vada proprio d'accordo e delle loro preghiere non
sappia proprio che farne, la musica delle campane mi piace tanto. Mi
accarezza il cuore. Mi piacciono pure quei Cristi e quelle Madonne e quei
Santi dipinti o scolpiti. Infatti ho la mania delle icone. Mi piacciono
pure i monasteri e i conventi. Mi danno un senso di pace, a volte invidio
chi ci sta. E poi ammettiamolo: le nostre cattedrali son più belle delle
moschee e delle sinagoghe. Si o no? Sono più belle anche delle chiese
protestanti. Guarda, il cimitero della mia famiglia è un cimitero
protestante. Accoglie i morti di tutte le religioni ma è protestante. E
una mia bisnonna era valdese. Una mia prozia, evangelica. La bisnonna
valdese non l'ho conosciuta. La prozia evangelica, invece, sì. Quand'ero
bambina mi portava sempre alle funzioni della sua chiesa in via de' Benci
a Firenze, e... Dio, quanto m'annoiavo! Mi sentivo talmente sola con quei
fedeli che cantavano i salmi e basta, quel prete che non era un prete e
leggeva la Bibbia e basta, quella chiesa che non mi sembrava una chiesa e
che a parte un piccolo pulpito aveva un gran crocifisso e basta. Niente
angeli, niente Madonne, niente incenso... Mi mancava perfino il puzzo
dell'incenso, e avrei voluto trovarmi nella vicina basilica di Santa Croce
dove queste cose c'erano. Le cose cui ero abituata. E aggiungo: nella mia
casa di campagna, in Toscana, v'è una minuscola cappella. Sta sempre
chiusa. Dacché la mamma è morta non ci va nessuno. Però a volte ci
vado, a spolverare, a controllare che i topi non ci abbiano fatto il nido,
e nonostante la mia educazione laica mi ci trovo a mio agio. Nonostante il
mio mangiapretismo, mi ci muovo con disinvoltura. E credo che la
stragrande maggioranza degli italiani ti confesserebbe la medesima cosa.
(A me la confessò Berlinguer). Santiddio!
(Ci risiamo). Sto dicendoti che noi italiani non siamo nelle condizioni
degli americani: mosaico di gruppi etnici e religiosi, guazzabuglio di
mille culture, nel medesimo tempo aperti ad ogni invasione e capaci di
respingerla. Sto dicendoti che, proprio perché è definita da molti
secoli e molto precisa, la nostra identità culturale non può sopportare
un' ondata migratoria composta da persone che in un modo o nell'altro
vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri valori. Sto
dicendoti che da noi non c'è posto per i muezzin, per i minareti, per i
falsi astemi, per il loro fottuto Medioevo, per il loro fottuto chador. E
se ci fosse, non glielo darei. Perché equivarrebbe a buttar via Dante
Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, il Rinascimento, il
Risorgimento, la libertà che ci siamo bene o male conquistati, la nostra
Patria. Significherebbe regalargli l'Italia. E io l'Italia non gliela
regalo. Io
sono italiana. Sbagliano gli sciocchi che mi credono ormai americana. Io
la cittadinanza americana non l'ho mai chiesta. Anni fa un ambasciatore
americano me la offrì sul Celebrity Status, e dopo averlo ringraziato gli
risposi: «Sir, io all'America sono assai legata. Ci litigo sempre, la
rimprovero sempre, eppure le sono profondamente legata. L'America è per
me un amante anzi un marito al quale resterò sempre fedele. Ammesso che
non mi faccia le corna. Voglio bene a questo marito. E non dimentico mai
che se non si fosse scomodato a fare la guerra a Hitler e Mussolini, oggi
parlerei tedesco. Non dimentico mai che se non avesse tenuto testa all'
Unione Sovietica, oggi parlerei russo. Gli voglio bene e m'è simpatico.
Mi piace ad esempio il fatto che quando arrivo a New York e porgo il
passaporto col Certificato di Residenza, il doganiere mi dica con un gran
sorriso: Welcome home. Benvenuta a casa. Mi sembra un gesto così
generoso, così affettuoso. Inoltre mi ricorda che l'America è sempre
stata il Refugium Peccatorum della gente senza patria. Ma io la patria ce
l'ho già, Sir. La mia Patria è l'Italia, e l'Italia è la mia mamma. Sir,
io amo l'Italia. E mi sembrerebbe di rinnegare la mia mamma a prendere la
cittadinanza americana». Gli risposi anche che la mia lingua è
l'italiano, che in italiano scrivo, che in inglese mi traduco e basta.
Nello stesso spirito in cui mi traduco in francese, cioè sentendolo una
lingua straniera. E poi gli risposi che quando ascolto l'Inno di Mameli mi
commuovo. Che a udire quel Fratelli-d'Italia, l'Italia-s'è-desta, parapà-parapà-parapà,
mi viene il nodo alla gola. Non mi accorgo nemmeno che come inno è
bruttino. Penso solo: è l'inno della mia Patria. Del resto il nodo alla
gola mi vien pure a guardare la bandiera bianca rossa e verde che
sventola. Teppisti degli stadi a parte, s'intende. Io ho una bandiera
bianca rossa e verde dell'Ottocento. Tutta piena di macchie, macchie di
sangue, tutta rosa dai topi. E sebbene al centro vi sia lo stemma sabaudo
(ma senza Cavour e senza Vittorio Emanuele II e senza Garibaldi che a
quello stemma si inchinò noi l'Unità d'Italia non l'avremmo fatta), me
la tengo come l'oro. La custodisco come un gioiello. Siamo morti per quel
tricolore, Cristo! Impiccati, fucilati, decapitati. Ammazzati dagli
austriaci, dal Papa, dal Duca di Modena, dai Borboni. Ci abbiamo fatto il
Risorgimento, col quel tricolore. E l'Unità d'Italia, e la guerra sul
Carso, e la Resistenza. Per quel tricolore il mio trisnonno materno
Giobatta combatté a Curtatone e Montanara, rimase orrendamente sfregiato
da un razzo austriaco. Per quel tricolore i miei zii paterni sopportarono
ogni pena dentro le trincee del Carso. Per quel tricolore mio padre venne
arrestato e torturato a Villa Triste dai nazi-fascisti. Per quel tricolore
la mia intera famiglia fece la Resistenza e l'ho fatta anch'io. Nelle file
di Giustizia e Libertà, col nome di battaglia Emilia. Avevo quattordici
anni. Quando l'anno dopo mi congedarono dall'Esercito Italiano-Corpo
Volontari della Libertà, mi sentii così fiera. Gesummaria, ero stata un
soldato italiano! E quando venni informata che col congedo mi spettavano
14.540 lire, non sapevo se accettarle o no. Mi pareva ingiusto accettarle
per aver fatto il mio dovere verso la Patria. Poi le accettai. In casa
eravamo tutti senza scarpe. E con quei soldi ci comprai le scarpe per me e
per le mie sorelline. Naturalmente
la mia patria, la mia Italia, non è l'Italia d'oggi. L'Italia godereccia,
furbetta, volgare degli italiani che pensano solo ad andare in pensione
prima dei cinquant'anni e che si appassionano solo per le vacanze
all'estero o le partite di calcio. L'Italia cattiva, stupida, vigliacca,
delle piccole iene che pur di stringere la mano a un divo o una diva di
Hollywood venderebbero la figlia a un bordello di Beirut ma se i kamikaze
di Usama Bin Laden riducono migliaia di newyorchesi a una montagna di
cenere che sembra caffè macinato sghignazzan contenti
bene-agli-americani-gli-sta-bene. L'Italia squallida, imbelle, senz'anima,
dei partiti presuntuosi e incapaci che non sanno né vincere né perdere
però sanno come incollare i grassi posteriori dei loro rappresentanti
alla poltroncina di deputato o di ministro o di sindaco. L'Italia ancora
mussolinesca dei fascisti neri e rossi che ti inducono a ricordare la
terribile battuta di Ennio Flaiano: «In Italia i fascisti si dividono in
due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Non è nemmeno l'Italia
dei magistrati e dei politici che ignorando la consecutio-temporum
pontificano dagli schermi televisivi con mostruosi errori di sintassi.
(Non si dice «Credo che è»: animali! Si dice «Credo che sia»). Non è
nemmeno l'Italia dei giovani che avendo simili maestri affogano
nell'ignoranza più scandalosa, nella superficialità più straziante, nel
vuoto. Sicché agli errori di sintassi loro aggiungono gli errori di
ortografia e se gli domandi chi erano i Carbonari, chi erano i liberali,
chi era Silvio Pellico, chi era Mazzini, chi era Massimo D'Azeglio, chi
era Cavour, chi era Vittorio Emanuele II, ti guardano con la pupilla
spenta e la lingua pendula. Non sanno nulla al massimo sanno recitare la
comoda parte degli aspiranti terroristi in tempo di pace e di democrazia,
sventolare le bandiere nere, nasconder la faccia dietro i passamontagna, i
piccoli sciocchi. Gli inetti. E tantomeno è l’Italia delle cicale che
dopo aver letto questi appunti mi odieranno per aver scritto la verità.
Tra una spaghettata e l’altra mi malediranno, mi augureranno d’essere
uccisa dai loro protetti cioè da Usama Bin Laden. No, no: la mia Italia
è un'Italia ideale. È l'Italia che sognavo da ragazzina, quando fui
congedata dall'Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, ed ero
piena di illusioni. Un'Italia seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa,
quindi meritevole di rispetto. E quest'Italia, un'Italia che c’è anche
se viene zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la tocca. Guai a chi
me la ruba, guai a chi me la invade. Perché, che a invaderla siano i
francesi di Napoleone o gli austriaci di Francesco Giuseppe o i tedeschi
di Hitler o i compari di Usama Bin Laden, per me è lo stesso. Che per
invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem. Col che ti saluto affettuosamente, caro il mio Ferruccio, e t'avverto: non chiedermi più nulla. Meno che mai, di partecipare a risse o a polemiche vane. Quello che avevo da dire l'ho detto. La rabbia e l'orgoglio me l'hanno ordinato. La coscienza pulita e l'età me l'hanno consentito. Ma ora devo rimettermi a lavorare, non voglio essere disturbata. Punto e basta.
|
![]() |
MA
IL DOLORE NON HA UNA BANDIERA di
Dacia Maraini Cara
Oriana, ho sempre ammirato la tua sincerità, il tuo coraggio. Sono stata
contenta di vedere di nuovo la tua firma sul Corriere
: finalmente Oriana Fallaci torna a battagliare come è nel suo carattere,
mi sono detta. Bentornata in Italia! Leggendo il tuo lungo e appassionato
articolo però devo dirti che l’ammirazione per il tuo coraggio si è
trasformata presto in allarme per la tua incoscienza. Proprio nel momento
in cui tutti, dal Papa al presidente degli Stati Uniti, cercano di
distinguere fra cultura islamica e terrorismo, proprio in questa
circostanza così delicata e grave per il futuro del mondo, tu te la
prendi con chi non è pronto a buttarsi in una guerra di religione. Per te
chi distingue fra terrorismo e Islam è un ipocrita, un «fottuto»
intellettuale, meschino e spocchioso. Con questo criterio anche il Papa
sarebbe un ipocrita e che dire del presidente Bush, che altrove esalti con
tanta commozione? Subito dopo l’eccidio Bush è andato a visitare una
moschea, l’avrai visto anche tu. Cos’è, anche lui un politico che tu
metti fra i farisei e gli impostori? «Abituati
come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite e
non volete capire che qui è in atto una guerra di religione»... tu
scrivi con invidiabile piglio militaresco. «Una guerra che non mira alla
conquista del nostro territorio ma alla conquista delle nostre anime. Alla
scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà.
All’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo
di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e
divertirci e informarci. Non capite o non volete capire che se non ci si
oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà...». E
distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a
cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente, cioè meno
bigotto o addirittura non bigotto. E con quello distruggerà la nostra
cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri
valori, i nostri piaceri...». Oriana,
lo so, non ti si può chiedere di ragionare con calma, ma santo iddio,
ferma un momento la tua furia e guardati intorno. Proprio New York in cui
hai scelto di vivere, è la città più multietnica che esista al mondo.
Nei grattacieli, lo sai, sono morti 400 musulmani. Schiacciati, soffocati
o bruciati vivi, per mano di alcuni criminali. I
primi a fare le spese del fanatismo religioso sono stati proprio loro, i
figli di Allah: le tante ragazze sgozzate in Algeria per la semplice
ragione che frequentavano una scuola, i tanti contadini che avevano la
sola colpa di coltivare la terra e pretendere di vendere i loro prodotti
in un mercato misto; le tante donne che in Afghanistan sono state lapidate
perché scoperte a camminare con un burqa non abbastanza lungo o non
abbastanza fitto davanti agli occhi. Non
sono stati gli islamici in generale a fare l’eccidio, come non sono
stati gli italiani in generale a buttare la bomba alla Banca
dell’Agricoltura di Milano o alla stazione di Bologna, ma persone con
nome e cognome. E sono queste persone che vanno scoperte e processate e
condannate, come si è fatto dopo il nazismo con il processo di
Norimberga. La guerra non è una risposta congrua contro il terrorismo, ma
quello che servirebbe semmai è una grande operazione di polizia
internazionale. Certamente
molti hanno risposto alle tue veementi parole, perché con la tua passione
hai toccato un punto nevralgico, una memoria dolorosa: la paura
dell’Islam ha radici lontane. C’è ancora un’eco in noi che suona
con voce infantile: mamma li turchi! «Quando
è in ballo il destino dell’Occidente» tu scrivi, «la sopravvivenza
della nostra civiltà va salvaguardata»! Non ti sembra di esagerare? «Se
crolla l’America crolla l’Europa, crolla l’Occidente, crolliamo noi.
... E al posto delle campane, ci troviamo il muezzin, al posto delle
minigonne ci ritroviamo il chador, al posto del cognacchino il latte di
cammella». È un allarmismo il tuo che capisco provenga da dolorose
esperienze di inviata di guerra, ma finisce per resuscitare antichi odii e
ancora più antiche paure assolutamente fuorvianti per riconoscere e
colpire i reali colpevoli di questa strage. Non
puoi dire che in Italia «le moschee di Milano e di Torino e di Roma
traboccano di mascalzoni che inneggiano a Usama Bin Laden, di terroristi
in attesa di fare saltare in aria la Cupola di San Pietro», perché non
è vero. Proprio in questi giorni a Palermo, a Napoli ci sono state delle
manifestazioni di arabi e di italiani per ricordare i morti uccisi dal
terrorismo a Manhattan. Non puoi criminalizzare tante persone che
lavorano, pregano e portano avanti con dignità una difficile vita di
esilio. «Mi spieghi signor cavaliere, sono così incapaci i suoi
poliziotti e carabinieri? Sono così coglioni i suoi servizi segreti? Sono
così scemi i suoi funzionari?» insisti tu con aria da inquisitrice. «Oppure
a fare le indagini giuste, a individuare e arrestare chi finoggi non avete
individuato e arrestato, lei teme di subire il solito ricatto
razzista-razzista?». Ma
Oriana, se proprio il Paese che tu porti ad esempio non è stato capace di
prevenire quell’orrore, perché pensi che avrebbe dovuto farlo il
nostro? Il terrorismo è vile, vive di finzioni, si mimetizza, finge,
inganna, si insinua, approfitta della buona fede e della libertà, che
come giustamente dici, sono le grandi conquiste dei Paesi non dominati da
una teocrazia. A me sembra che proprio l’enormità del progetto abbia
impedito di vederlo e prevenirlo. L’idea di trasformare dei pacifici
aerei di linea in micidiali ordigni di morte per migliaia di innocenti era
difficile da immaginare. Gli anarchici che uccidevano un re o un capo di
Stato sembrano, a guardarli oggi, dei bambini intenti a giocare coi
soldatini. Eppure anche loro hanno cambiato il corso della storia. Ma gli
anarchici si rivolgevano ad una persona precisa, che ritenevano colpevole
di qualcosa di grave (assassini, torture, abusi di potere, ecc.) mentre
qui, in pieno periodo di pace, con l’inganno più sfrontato e
imprevedibile, si è infierito contro degli innocenti assolutamente ignari
del pericolo che incombeva su di loro. Uno sterminio di massa portato a
termine con tanta sfrontatezza e tanta mostruosa gelata insensibilità è
fuori da ogni previsione. Masochisti
tu dici «siamo masochisti perché, vogliamo farlo questo discorso sul
contrasto fra le due culture?». E qui con foga impaziente sostieni che
non vuoi nemmeno sentire parlare di due culture, perché le si
metterebbero sullo stesso piano «come fossero due realtà parallele». E
parti come un ciclone a fare quello che chiunque abbia una briciola di
buon senso ti direbbe non si può fare: una comparazione fra civiltà. Non
c’è bisogno di avere studiato antropologia (un’arte squisitamente
europea, figlia di una cultura illuminista, attenta verso l’altro, il
diverso), per sapere che ogni confronto fra culture è insensato. In
quanto la civiltà è in movimento, non ha niente di monolitico, sfugge al
concetto di bene e di male. Ogni cultura, anche la più apparentemente
primitiva, vive di valori, di regole, con una sua cosmogonia e una sua
rete di relazioni e di beni affettivi che non possono essere disprezzate
mai, per nessuna ragione. Non è inferiore un congolese perché va scalzo
a pescare i pesci con la lancia e muore di Aids a trent’anni. Qualcuno
potrebbe raccontarci che una terra ricchissima, la sua, piena di diamanti
e di rame, è stata devastata, sequestrata e rapinata da chi aveva soldi e
fucili, lasciando quell’uomo all’età della pietra. Ogni essere umano
fa parte di un sistema di conoscenze e di opinioni più o meno sfortunato,
più o meno vincente, ma sempre degno di vivere dignitosamente nel
rispetto altrui. C’è stato un periodo in cui la civiltà africana
contava più di Roma e di Atene. Per non parlare dell’Islam, fra
l’altro molto vicino a noi. «Siamo figli dello stesso Dio» ha detto
umilmente papa Wojtyla. Per molti secoli l’Islam ha insegnato
all’Europa come contare le stelle, come calcolare la distanza dei
pianeti, come pensare e scrivere le operazioni matematiche. Le
civiltà salgono e scendono, hanno momenti di prosperità e momenti di
stasi e di povertà. Ma certamente è folle attribuire ai poveri la colpa
di essere tali. Anche perché spesso, in nome della superiorità di razza
e di un Dio severo, proprio chi si sentiva dalla parte del Bene e della
Verità ha derubato, confiscato, schiavizzato chi considerava «ignorante
e selvaggio». Lasciamo
stare il discorso sulle civiltà. Dopo millenni di odii e di guerre per lo
meno dovremmo avere imparato questo: che il dolore non ha bandiera. Che ciò
a cui aspira la maggioranza delle persone è una convivenza pacifica fra
individui di diversa cultura e diversa fede. Proprio
le torri di Manhattan visibilmente ci dicono una cosa sacrosanta: che la
civiltà oggi è fatta di un crogiolo di culture diverse. In quelle torri
ferite a morte convivevano civilmente persone di quaranta nazionalità.
L’America non sarebbe quella che è se non avesse accolto nel suo seno i
neri d’Africa, i musulmani d’oriente, i cinesi, i giapponesi, gli
irlandesi, eccetera. L’America che tu ami non ha avuto paura di perdere
la sua identità (eppure qualcuno che non voleva riconoscere dignità ai
lavoratori stranieri c’era anche allora, erano i Sudisti, e per
conquistare la libertà di pensiero e di tolleranza è stata fatta una
guerra civile sanguinosissima). È la migliore America quella che ha
vinto, l’America dell’accoglienza e della solidarietà. Io stessa in
questi giorni lo sto provando sulla mia pelle cosa vuol dire multietnicità.
Mia nipote, figlia di mia sorella e di un conosciuto pittore marocchino,
ha sposato un irlandese americano da cui ha avuto un bambino che in questi
giorni è stato battezzato nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma.
Il bambino, Fosco Gabriele, porta in sé il seme di civiltà diverse: da
grande parlerà l’inglese, l’arabo, l’italiano e il francese. Non
per questo la civiltà occidentale sarà messa in pericolo. Il
fatto è che i Paesi ricchi e potenti possono permettersi delle libertà a
cui i Paesi poveri spesso non hanno accesso: la libertà di parola, la
libertà di pensiero, la libertà di istruzione, la libertà della
democrazia e della ricerca scientifica e artistica. Sapere accogliere il
diverso è una conquista, una forza, non una debolezza. Sono le nazioni
che si sentono ai margini della storia, che hanno difficoltà di
sopravvivenza, che affrontano il futuro con dolore e frustrazione a
trovarsi impelagate nell’odio. Così come si odiano delle persone
costrette a condividere una casa di trenta metri quadrati, che dispongono
di una sola pagnotta per dieci bocche, che vedono morire i figli per
malattie che altrove vengono curate e guarite. Essere ricchi e potenti non
vuol dire automaticamente essere migliori. Ma certamente vuol dire avere
più responsabilità. E mi sembra che in questo momento il Presidente Bush
e i suoi consiglieri stiano dimostrando molta sensatezza nel distinguere,
chiarire, prendere le distanze dall’odio appunto e dalla vendetta. Mi è
sembrata anche ottima l’idea di andare a frugare nei conti di questi
terroristi miliardari. È lì che si annidano le prove dell’orribile
delitto pensato a freddo e commesso in nome di un Dio pazzo e crudele. Tu
parli degli emigrati che approdano sulle nostre coste con sommo disprezzo
quasi fossero loro i responsabili dell’eccidio: «Più che di una
emigrazione si è trattato di una invasione condotta all’insegna della
clandestinità. Io non dimenticherò mai i comizi in cui l’anno scorso i
clandestini riempirono le piazze d’Italia per ottenere i permessi di
soggiorno. Quei volti distorti, cattivi. Quei pugni alzati, minacciosi.
Quelle voci irose che mi riportavano alla Teheran di Khomeini»... Strano,
come ognuno veda quello che vuole vedere. Non so se guardando meglio,
senza prevenzioni, avresti scorto quello che ho scorto io e tanti altri
con me: la disperazione di chi aveva lasciato la casa e il paese per
sfuggire ad una guerra feroce o per cercare un lavoro, anche il più
umile, purché gli permettesse di sopravvivere. Certo in mezzo a loro sono
scesi anche dei delinquenti, tali e quali a quelli di casa nostra. Ma guai
a non distinguere i giusti dagli ingiusti! Si fa una grave offesa alla
verità. Non
puoi non vedere che la maggioranza degli emigrati sono povera gente che
non sa dove sbattere la testa. E scappano, come scappano gli afghani in
questi giorni, dalle loro case, per paura delle bombe e della miseria. Non
riesco proprio a capire come tu possa dire, con tanta baldanza: «peggio
per loro»! «Se in alcuni Paesi le donne sono così stupide da accettare
il chador, peggio per loro. Se sono così scimunite da accettar di non
andare a scuola, non andare dal dottore, non farsi fotografare eccetera,
peggio per loro. Se sono così minchione da sposare uno stronzo che vuole
quattro mogli, peggio per loro»! Eppure tu sai benissimo che quelle donne
rischiano la vita solo nel mostrare una mano nuda. Non è una scelta la
loro ma una orribile imposizione da dittatura militare... Io sono stata in
Afghanistan molto prima dei talebani e ho conosciuto donne che facevano
l’avvocato, l’insegnante e non erano nascoste e infagottate come
fantasmi. Ma tu non distingui: «Usama Bin Laden afferma che l’intero
pianeta Terra deve diventar musulmano, che dobbiamo convertirci
all’Islam, che con le buone o le cattive lui ci convertirà che a tal
scopo ci massacra e continuerà a massacrarci». Perché non chiamarlo
invece per quello che è: un atto di terrorismo fondamentalista che come
tale va giudicato e combattuto? Se lo trasformi nella prima mossa di una
guerra santa, fai solo il loro gioco. È una trappola, Oriana, in cui mi
sembra che tu sia caduta con tutti e due i piedi, spinta dall’impetuosità
travolgente e il coraggio - se mi permetti in questo caso un poco
donchisciottesco - che ti sono propri. In
quanto ai kamikaze, tu dici di non avere pietà per loro. Ma non pensi che
sia molto più spregevole e indegno di pietà chi li indottrina, chi li
manda a morire, chi arriva a fargli credere che il loro corpo vale meno di
una mina, meno di un fucile? Ho sentito una donna araba dire: però non
mandano i propri figli a uccidere e morire: mandano i figli degli altri.
Ecco chi è degno di disprezzo e di esecrazione: un gruppo di fanatici che
trasforma degli esseri umani, dei ragazzini spesso adolescenti, in oggetti
di morte e tutto per dimostrare il loro potere, la loro ideologia, la loro
fede, il loro fanatismo. Ma quale Dio può essere tanto sanguinario e
nemico dell’essere umano da chiedere tali sacrifici? Tu
dici che la tua ira è esplosa quando hai saputo che in Italia, come in
Palestina la gente ha gioito per l’attentato terroristico alle due torri
di Manhattan. Sei stata male informata: posso garantirti che nessuno in
Italia si è rallegrato per l’orribile scempio. Non si è vista una sola
immagine di festa o di compiacimento, né in televisione né per strada né
altrove. Quello che si è visto è stato solo stupore, paura,
indignazione, orrore. Tutti abbiamo fissato lo sguardo su
quell’obbrobrio, tutti abbiamo osservato impotenti, con le lagrime agli
occhi, quei corpi che si sporgevano disperati lungo le pareti dei
grattacieli, incerti se gettarsi di sotto o affrontare una morte per
fuoco: bruciati vivi, innocenti e giovani. Una morte di massa che ha
sconvolto le nostre immaginazioni e le nostre aspettative per il futuro.
Ti ripeto che nessuno in Italia ha esultato. D’altronde in quelle torri
c’erano centinaia di italiani. Che sono stati ridotti a pezzi e possiamo
chiamare fortunati quelli che sono morti subito, perché alcuni hanno
languito sotto le macerie provando disperatamente a telefonare a casa, -
come dimenticare quelle voci che nell’orrore dello strazio mandavano
coraggiosamente messaggi di amore ai propri cari? - ma come individuarli?
come tirarli fuori? A volte noi cerchiamo di scrollarci di dosso il peso
intollerabile delle sofferenze altrui. E chiudiamo gli occhi. Ma quando la
morte diventa una rappresentazione in diretta, non puoi serrare le
palpebre, non puoi voltare le spalle: sei coinvolto fino in fondo, muori
un poco anche tu. E noi siamo tutti un poco morti, lanciandoci nel vuoto
come quei poveri infelici che abbiamo visto agitarsi per tanti lunghissimi
momenti, prima di sfracellarsi al suolo. «Il
terrorismo è l’assassinio dell’innocente», scrive Salman Rushdie.
Questa volta si è trattato di un assassinio di massa. «Giustificare una
simile atrocità biasimando la politica degli Stati Uniti significa
ricusare l’idea stessa della moralità: che gli individui siano
responsabili delle loro azioni!». Il fondamentalista terrorista è contro
la libertà di parola, contro il voto universale, contro gli stati
democratici, contro i diritti delle donne, contro il pluralismo... «Ma
questi sono tiranni non musulmani!». Non ti sembrano parole sagge? Fra
l’altro l’Islam ha sempre avuto parole dure contro il suicidio, ci
ricorda sempre Rushdie, «un gesto che il suicida è condannato a ripetere
per tutta l’eternità». Bisognerebbe fare una analisi, suggerisce lo
scrittore per capire come mai tanti fedeli siano attirati da questa forma
di disobbedienza alle parole di Maometto. «Così come l’Occidente deve
fare i conti con i suoi Unabomber, (con i suoi terroristi irlandesi o
baschi), l’Islam dovrebbe fare i conti con i suoi Bin Laden», conclude
Rushdie e mi sembrano parole precise e acute. La schizofrenia, il delirio
di onnipotenza, l’uso perverso della tecnologia, l’accumulo maniacale
del denaro, non sono indicativi né della religione cattolica né della
religione musulmana, anche se alcuni individui affamati di successo e di
potere hanno adoperato le due fedi per imporre le proprie ragioni di morte
e di terrore. Trattiamoli come tali, processiamoli pubblicamente, ma
evitiamo le guerre che colpiscono sempre e soprattutto gli innocenti.
|
![]() |
UDITI
I CRITICI HA RAGIONE ORIANA
di
Giovanni Sartori Oriana
Fallaci è fiorentina. Lo è anche Tiziano Terzani. E Dacia Maraini lo è
a metà (per parte di padre, Fosco Maraini). Se nella querelle entro anche
io - visto che anche io sono fiorentino - tutti insieme facciamo quasi un
en plein . I fiorentini sono anche contrariosi e litigiosi. E quindi lite
sia / per poter dire la mia. Dacia Maraini esordisce ( Corriere del 29/9)
con «Cara Oriana». Si vede che per metà fiorentina non è. Perché
quell’esordio è semmai torinese: falso e cortese. «Cara» un fico
secco. Nel capoverso che segue la cara Maraini dichiara alla cara Fallaci
che «l’ammirazione per il tuo coraggio si è trasformata presto in un
allarme per la tua incoscienza». Per una donna di gentile aspetto e di
modi garbati, questa è secca davvero. Almeno Tiziano Terzani ( Corriere
dell’8/10) esordisce con «Oriana» e basta, senza «carinità», senza
falsa cortesia. Giusto. Visto che il Nostro scrive così: «Nelle tue
parole sembra morire il meglio della testa umana, la ragione; il meglio
del cuore, la compassione». Con questo supplemento: «La tua brillante
lezione di intolleranza ora influenza tanti giovani e questo mi inquieta».
Per una persona dalla faccia orientalizzata (e, si suppone, di religione
contemplativa) queste uscite sono di rarissima pesantezza. Deve essere un
richiamo della foresta, un ritorno di fiamma fiorentino. Non
è una grande scoperta che tutti noi leggiamo selettivamente e con dei
paraocchi. Ma
questa volta la distanza selettiva delle letture è stata davvero
straordinaria. Come risulterà dalla discussione. Dalla quale si ricava -
ne anticipo la conclusione - che Oriana Fallaci deve aver ragione, visto
che i suoi assaltanti hanno abbondantemente torto. All’inizio mi sono
lasciato un po’ incantare dal flauto di Terzani, dal suo dire che «dubitare
è una funzione essenziale del pensiero, il dubbio è il fondo della
nostra cultura». Oddio, questo è il fondo della cultura di Amleto.
Cartesio non scriveva «dubito quindi sono», ma cogito ergo sum . Il
dubbio deve dunque essere inserito nel cogito , nel pensare. E il dubitare
di Terzani - come vedremo - non lo è. Umberto
Eco dice su Repubblica che lui si preoccupa «dei giovani perché tanto ai
vecchi la testa non cambia più». Sarei curioso di sapere qual è la
categoria nella quale Eco colloca se stesso, se tra i vecchi o no.
Comunque sia, io di me stesso lo so: per i giovani sono uno stravecchio.
Il che non toglie - sorpresa, sorpresa - che la mia testa sia tutta un
frullo di cambiamenti. Nel
’68 scrivevo - proprio sul Corriere - che la cosiddetta rivoluzione
studentesca preparava l’avvento della asinocrazia, del trionfo degli
asini. Il che mi costringeva, nella mia testa, a vedere con diminuitissimo
ottimismo il progredire della democrazia. Subito dopo la caduta del Muro
di Berlino notavo che la «democrazia senza nemico» era molto più
difficile da gestire della democrazia minacciata da un nemico. Il che mi
induceva a riorientare la mia testa su questo nuovo problema. E siccome già
scrivevo della altissima vulnerabilità della società tecnologica negli
anni Settanta, l’11 settembre non mi ha preso del tutto alla sprovvista.
Mi sono subito detto: questa è Hiroshima Due; ancora un inedito, e un
inedito ancora più terrorizzante di Hiroshima Uno. Nel 1945 c’era la
guerra e si sapeva con certezza che la resa (del Giappone) fermava anche
il bombardamento atomico americano. Oggi i confini tra guerra e pace si
sono annebbiati, e oggi nulla ferma più niente. La polverizzazione delle
due torri di Manhattan prefigura un orripilante scenario di «atomiche di
pace» (per così riassumere) che ci possono colpire ogni giorno e che
massacrano alla cieca. Dunque,
da un mese io mi sto rifacendo - bene o male - una testa nuova che cerca
di capire e di fronteggiare una nuovissima (nonché orribilissima) realtà.
Invece per la Maraini e Terzani è quasi come se non fosse successo niente
di nuovo. In entrambi ripassa il déjà vu di sempre, ripassano i
ritornelli di sempre. Saranno anche giovani, certo più giovani in anni di
me; ma per il criterio di Umberto Eco la loro testa è già vecchia assai. Dacia
Maraini è una bravissima scrittrice di romanzi che leggo sempre con
piacere; ma nel suo discettare etico-politico ritrovo soltanto gli stanchi
luoghi comuni del terzomondismo politicamente corretto. Tiziano Terzani ci
ha raccontato con finezza e bravura dell’Asia; ma quando cita - come
ricette di salvezza - San Francesco d’Assisi, Gandhi e poi, scendendo di
parecchi chilometri, padre Balducci e il mio collega (alla Columbia
University) Edward Said, allora cita a sproposito. Personalmente
io preferisco i Domenicani ai Francescani. Concedo che Il Cantico di Frate
Sole è un testo di un candore commovente. Ma quel candore non può essere
trasferito da una età davvero primitiva all’età ultracomplicata del
terzo millennio. Quanto a Gandhi, lui aveva a che fare con gli inglesi, e
noi non abbiamo a che fare con dei Gandhi. E padre Balducci? Pochi sanno
chi fosse. Ma a Firenze negli anni nei quali padre Balducci affascinava il
colto e l’inclita (e anche, a quanto pare, Terzani) c’ero anch’io; e
ricordo un dibattito nel quale lui attaccò così smodatamente il Papa da
costringere il sottoscritto, laico abbastanza catafratto, a fare il
papalino, il papofilo. Bel personaggio quel padre Balducci! Ma sempre più
bello del cupissimo Edward Said, che scrive bene ma razzola malissimo. Il
fatto che Said sia palestinese lo legittima nel suo essere pro
palestinesi. Ma non mi risulta che Said abbia mai condannato i suoi
uomini-bomba, ed esiste una fotografia che lo coglie, in zona Gaza, che
lancia un sasso «intifadico» contro gli israeliani. Lui sarebbe un
fautore di «campi di comprensione invece di campi di battaglia»? On aura
tout vu , se ne vedono (e sentono) proprio di tutte. Terzani
scrive: «A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto, invece».
Dopodiché cita i giapponesi che hanno dato origine al nome, le tigri
Tamil, i palestinesi di Hamas. Fine lì. Terzani è troppo vecchio,
direbbe Eco, per afferrare che i kamikaze di New York sono animali del
tutto diversi da quelli che lui sta ancora studiando. I kamikaze
all’antica - diciamo - si immolano per una loro patria, sono «locali».
La loro causa è concreta e circoscritta. I suicidi di New York e del
Pentagono, e quelli che verranno nella loro scia, sono «globali» e la
loro patria è il Corano, è una fede religiosa. Non si battono per una
loro madrepatria, per la patria nella quale sono nati, ma per un mondo
islamizzato che combatte e punisce gli infedeli. Fa una bella differenza.
Che però a Terzani sfugge. Il
Nostro prosegue così: «Non si tratta di giustificare, di condonare, ma
di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo
non si risolve uccidendo i terroristi ma eliminando le ragioni che li
rendono tali». Sante parole, ma soltanto parole. Asserire che il problema
del terrorismo non si risolve uccidendo i terroristi è come asserire che
il problema della criminalità non si risolve arrestando e condannando i
criminali. Vero; ma quale sarebbe l’alternativa? Eliminare le prigioni e
rinviare i criminali a uno «studio Terzani» nel quale possono essere
studiati e compresi? Se Terzani ci sta, io ci sto. Mi fornisca
l’indirizzo e io proporrò (alla Basaglia) che le prigioni vengano
abolite e che i loro inquilini lo vadano a trovare nella sua baita nell’Himalaya.
Poi veda lui. Il
punto serio è, comunque, che il problema del terrorismo deve essere
spiegato dalle ragioni che lo motivano. Ma Terzani lo spiega asserendo che
l’attacco alle Torri Gemelle «certo non è l’atto di una guerra di
religione degli estremisti musulmani». Per una persona che esordisce
dichiarando di non avere certezze e che per lui la nostra civiltà è la
civiltà del dubbio, questa asserzione è stonata. Ed è anche infondata.
Perché Terzani la sostiene citando un collega americano di nessuna
particolare eminenza (uno tra centomila) per il quale gli «assassini
suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America ma la politica
estera americana», colpevole, tra l’altro, di aver mantenuto,
nonostante la fine della guerra fredda, «circa 800 installazioni militari
nel mondo». Davvero formidabili questi fondamentalisti addestrati da Bin
Laden. Sapevano, sanno, cose che non sapevo nemmeno io. Faccio ammenda.
Dopodiché passo lo stesso a dichiarare che questa è una spiegazione
risibile. Come ho già spiegato su questo giornale, chi capisce così non
capisce nulla. Terzani
osserva che «se alla violenza dell’attacco alle Torri Gemelle noi
rispondiamo con ancora più terribile violenza... alla nostra ne seguirà
una loro ancora più orribile e così via». Certo, la violenza chiama
violenza. Ma, intanto, non è lecito equiparare la violenza di chi inizia
con la violenza di chi si difende. Uno mi spara addosso. Io, dopo, gli
rispondo contro-sparando. È la stessa cosa? Ovviamente no. Ciò
fermato, qual è l’alternativa? Subire la violenza, farsi violentare
senza reagire, fermare la violenza? Non è mai successo. Né succederà,
questo è sicuro, con il terrorismo islamico. A
proposito, i terroristi chi sono? Cosa li caratterizza? E, quindi, come li
dobbiamo definire? Dopo aver menzionato i kamikaze giapponesi, i Tamil e i
palestinesi di Hamas, Terzani scopre le sue carte: dobbiamo accettare -
dichiara - che anche il presidente della Union Carbide (il richiamo è
alla esplosione della fabbrica chimica di Bhopal, in India, nel 1984) sia
percepito come un terrorista. Perché dobbiamo accettare che «per altri»
(il Nostro non si scopre e non lascia capire se lui si includa nei
suddetti altri; ma sospetto di sì) il terrorista «possa essere l’uomo
di affari che arriva in un Paese povero del Terzo Mondo» per fare, come
fa, soltanto i suoi sporchi affari. Terzani si rende conto di averla
sparata grossa, e mette le mani avanti. Questo - avverte - «non è
relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo come modo di usare la
violenza può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche».
Difatti questo non è relativismo; è pasticciare tutto, è incapacità di
distinguere, incapacità di usare (come prescritto da Cartesio) idee
chiare e distinte. E fa specie che Terzani si lanci all’attacco di
Oriana Fallaci accusando lei di attentare «al meglio della testa umana,
alla ragione». Perché qui è lui che va in clamoroso autogol. L’Union
Carbide come (quasi come) Al Qaeda? Gianni Agnelli come (quasi come) Bin
Laden? Alla stregua di questa logica anche Terzani sarebbe un terrorista,
perché «usa violenza» alla logica. Il punto è che il terrorismo non può
essere definito soltanto come «modo di usare violenza». A metterla così
tutto è terrorismo, e perciò stesso (nota Mario Pirani) nulla è
terrorismo. Ma per chi ragiona e sa ragionare queste sono soltanto
sciocchezze. Vengo
a Dacia Maraini. Che addirittura si appella al Papa: «Nel momento in cui
tutti, dal Papa al presidente degli Stati Uniti cercano di distinguere tra
Islam e terrorismo, tu te la prendi con chi non è pronto a buttarsi in
una guerra di religione. Per te chi distingue tra terrorismo e Islam è un
ipocrita, un fottuto intellettuale. Con questo criterio anche il Papa
sarebbe un ipocrita». Ma occorre davvero arrivare a un combattimento a
colpi bassi, a colpi di Papa? Rileggiamo assieme il testo incriminato, che
dice: «Qui è in atto una guerra di religione, forse voluta e dichiarata
soltanto da una frangia di quella religione, ma comunque una guerra di
religione». D’accordo, a livello diplomatico dobbiamo essere prudenti,
dobbiamo sottacere. Ma Galli della Loggia ( Corriere del 4/10) ha
benissimo spiegato che le prudenze diplomatiche sono una cosa e la verità
dei fatti un’altra. E il fatto è che l’ostilità dei cosiddetti Stati
arabi «moderati» verso il terrorismo «non nasce da un loro supposto
moderatismo, nasce dalla paura del radicalismo militante». Difatti
i governi in questione non sono in grado di «tradurre la loro paura
dell’estremismo in una qualunque battaglia ideologico-culturale a favore
di una versione moderata dell’Islam... Dalle società del fronte
cosiddetto moderato non è mai venuta una condanna esplicita contro la
sentenza di morte dei mullah iraniani a carico di Salman Rushdie, contro
le pene degradanti e inumane... contro la bestiale persecuzione di
cristiani in Sudan...». Il fatto è, allora, che il fanatismo
fondamentalista non può essere messo in discussione in nessuno Stato
musulmano «perché ciò equivarrebbe a mettere in discussione in modo
pubblico il Corano». Il che è tutto esatto. Allora,
quale sarebbe il terribile, vergognoso sbaglio di Oriana Fallaci? Forse
sta nell’aver detto «forse». Invece avrebbe dovuto dire: qui è in
atto una guerra di religione «anche se» voluta e dichiarata soltanto da
una frangia di quella religione. Ma l’ira di Dacia Maraini non può
essere stata scatenata da così poco. Potrebbe essere stata innescata
dall’attacco di Oriana Fallaci a una Italia «stupida, vigliacca...
imbelle, senza anima»? Non vorrei mai che la Maraini si sia sentita in
qualche modo inclusa in quel ritratto. Sarebbe peccato. Sia
come sia, qui mi interessa la Maraini che ci leziona su come le culture
e/o le civiltà siano o non siano da paragonare. L’attacco è questo: Tu
(Oriana) «con foga impaziente sostieni che non vuoi nemmeno sentire
parlare di due culture, perché le si metterebbero sullo stesso piano... E
parti come un ciclone a fare quel che chiunque abbia un briciolo di buon
senso ti direbbe che non si può fare: una comparazione fra civiltà».
Fermi: qui stiamo parlando di culture o di civiltà? Dacia Maraini
evidentemente confonde le due cose. Il che, vedremo, è una grave «fallacia». Ma
prima continuiamo a citare: «Non c’è bisogno di aver studiato
antropologia per sapere che ogni confronto tra culture è insensato. In
quanto la civiltà è in movimento... sfugge al concetto di bene e di
male. Ogni cultura... vive di valori, di regole... che non possono essere
disprezzate mai, per nessuna ragione». E dunque, conclude la Nostra, «lasciamo
stare il discorso sulla civiltà. Dopo millenni di odi e di guerre
dovremmo perlomeno avere imparato che il dolore non ha bandiera». Sì,
certo, il dolore non ha bandiere. Come ugualmente le lacrime sono tutte
eguali. Ma cosa c’entra, in questo bel dire, la civiltà? C’entra se
osserviamo che queste sono massime di alta civiltà (che non sono
condivise, vedi caso, dalla «bassa civiltà» di chi esulta per il
massacro di Manhattan). Però perché dobbiamo abbandonare il discorso
sulle civiltà per scoprire che il dolore non ha bandiere? Il nesso mi
sfugge. E mi sfugge perché proprio non c’è. E temo che tutto il
succitato argomentare di Dacia Maraini sia del tutto sconnesso. Il
guaio è - già notavo - che la Nostra non distingue, non sa distinguere,
tra cultura e civiltà. Tra l’altro la sua sola pezza d’appoggio è
l’antropologia culturale (l’antropologia senza aggettivi è un’altra
cosa); e l’antropologia culturale non ha, come suo concetto portante, il
concetto di civiltà. Lévy-Bruhl e gli altri padri fondatori della
disciplina hanno esplorato la «mentalità primitiva» e la sua
distanza-differenza dalla nostra (e dalla nostra logica). E se io mi
travestissi da antropologo culturale sarei prontissimo a sostenere che gli
antropofaghi che mangiano i nemici che uccidono sono molto più «razionali»
di chi non lo fa. Se non lo sostengo è perché la mia sensibilità etica
si ascrive ad un’altra civiltà. Appunto, civiltà. Ma anche a questo
proposito ci dobbiamo intendere. Se io difendo, come difendo, la civiltà
occidentale non lo faccio in sede estetica e nemmeno religiosa.
L’architettura, la letteratura e l’arte di molte civiltà
non-occidentali sono, a mio giudizio, di straordinaria bellezza. E se mi
venisse chiesto di scegliere una religione, io passerei al buddismo (anche
se sono attratto dal nitore e dalla compostezza dello shintoismo). Dunque,
e venendo al nocciolo, qual è la civiltà che io difendo, e della quale
la Maraini e Terzani non danno mostra di accorgersi? È la civiltà
nell’accezione etico-politica del concetto. È la civiltà che ha
conseguito più di ogni altra - sì, al paragone con ogni altra - la «buona
città», la città politica più umana, più vivibile, più libera, più
aperta di ogni altra. È, questo, un paragone «insensato»? È una tesi
che lascio agli insensati che la sostengono. Terzani scrive che
l’intolleranza di Oriana lo inquieta. A me inquieta molto di più,
confesso, la cecità di chi fruisce di una «buona vita» (etico-politica)
che non vede perché non sa vedere in contrasto. Per Oriana Fallaci, «se
crolla l’America crolla l’Europa. Crolla l’Occidente, crolliamo noi.
Blair l’ha capito...». Evidentemente Terzani e la Maraini no. Perciò
sono davvero spaventato. |
![]() |
I
COLTIVATORI DI DUBBI E LA SPADA DI ORIANA di
Giuliano Zincone Oriana
Fallaci non voleva convincere nessuno, ma la sua passione selvatica è
sembrata necessaria a molti, e ha sbalordito anche gli avversari.
L’eremita di Manhattan non ha messo soltanto il cuore a nudo, ma ha
buttato il fegato, lo stomaco e la bile sulle nostre scrivanie. Ha
sbriciolato il pigolio politicamente corretto del buonsenso, dei giudizi
bipartisan, delle cautele ecumeniche, afferrando immediatamente il nuovo
Spirito del Tempo. Un nostro fratello prepotente, a lungo invidiato e
disprezzato, ha subito l’estremo affronto, l’estrema umiliazione. Al
lutto atroce e simbolico delle Twin Towers, s’è aggiunto l’insulto
che ha dissacrato la fierezza del Pentagono. Il fratello americano aveva
tanti meriti, ma anche tante colpe antiche e recenti, dall’eccidio dei
pellerossa alle stragi di Hiroshima e Nagasaki, dagli arroganti embarghi
alla crudele sbadataggine del Cermis. Una
sola volta, a Sigonella, siamo riusciti a contrastarlo, e non ce ne
pentiamo. Ma adesso che l’hanno ferito, scopriamo che è pur sempre un
fratello e, come s’usa in famiglia, stiamo accanto a lui. La pena per le
vittime civili afghane non c’ impedisce di ammettere che la rabbia
americana appartiene anche a noi, e che il dolore di New York fa parte
della nostra vita. Con
il suo inaudito pamphlet, Oriana Fallaci ha resuscitato una funzione
fondamentale della scrittura che, nella marea delle informazioni che ci
assediano, è utile soprattutto quando sollecita emozioni. Io, per
esempio, non condivido affatto l’orgoglio culturale di Oriana, né
approvo le sue contumelie contro gli immigrati musulmani. Ma reagisco,
protesto, mi sento chiamato in causa. E alla fine mi accorgo che non conta
la correttezza dei suoi argomenti, ma la forza con la quale mi costringe a
riflettere e a schierarmi. Sulla
superiorità del nostro mondo, per esempio, c’è molto da discutere: non
tanto per negarla, ma per tentare di comprendere in che cosa consista e
fino a che punto ci riguardi. Bisogna constatare, innanzitutto, che le
civiltà e le culture non sbocciano (né appassiscono) negli stessi tempi
e negli stessi luoghi, e che, al loro interno, non producono risultati
accessibili a tutti. Se (al bar) si domanda: «In quale epoca ti
piacerebbe vivere?», pochi rispondono «adesso». Le aspirazioni variano
dall’antica Roma al Rinascimento, al Settecento, dove tutti pensano che,
come minimo, sarebbero stati consoli, artisti, marchesi. Nessuno immagina
che, con ogni probabilità, avrebbe fatto parte della stragrande
maggioranza bastonata, famelica, schiava. È difficile, dunque,
rivendicare una qualsiasi superiorità a causa dei lasciti di signori che
non ci sono contemporanei. Né sarebbe facile vantare una supremazia
culturale sull’Egitto dei faraoni, sull’India e sulla Cina antiche,
sui fasti dell’Impero Ottomano. Sarebbe buffo se le plebi mesopotamiche
continuassero a vantarsi dei trionfi di Nabucco, e sarebbe ridicolo se noi
italiani ci pavoneggiassimo con le penne vetuste di Raffaello. Ogni civiltà,
del resto, esprime una vocazione speciale, in un periodo più o meno
circoscritto. Scriveva Virgilio che molti Paesi eccellevano nelle
discipline artistiche o filosofiche, ma che soltanto ai Romani spettava il
compito di governare i popoli con l’imperio, e di castigare gli
indocili. Ho l’impressione che quest’eredità non ci riguardi. Noi
veneriamo i monumenti, i quadri, i libri, le musiche degli antenati. Ma
non misuriamo su questi beni la nostra supremazia. Possiamo e dobbiamo
vantarci di ben altro: spendendo patrimoni incalcolabili di sacrifici, di
intelligenze, di battaglie anche micidiali, abbiamo conquistato per le
moltitudini livelli notevoli di giustizia e di benessere. Queste sono le
nostre cattedrali laiche: qualità e durata della vita, assistenza medica,
cibo, case, eguale rispetto e pari opportunità per tutti, libertà (anche
di culto), democrazia. Sappiamo bene che questi tesori sono mal
distribuiti, recenti, fragili. Ma proprio per questo dobbiamo estenderli e
custodirli: senza superbia, ma con legittimo orgoglio, specialmente quando
sono esplicitamente minacciati da avversari superstiziosi e prolifici. La
democrazia, per definizione, non si può imporre con la forza a chi non la
desidera. Però è necessario comprendere quanto sia preziosa, e
difenderla contro le insidie esterne e le tentazioni autoritarie interne. La
superiorità della religione, poi, è un paradosso. Nessun credente
tradizionale si pone il problema in questi termini. Il confronto occupa un
livello alto e drastico: «La mia fede è vera, la tua è falsa». I
comportamenti, poi, dipendono dall’educazione dei singoli, dalle
opportunità politiche o storiche, dalla generosità dei prelati, dai
tentativi (in corso) di riconoscersi reciprocamente dignità o comunanza
di radici. Ma questo (eventuale e neonato) rispetto non prevede che la
fede estranea diventi «vera». Una religione, diceva Freud, o è
intollerante o non è. Certo, Freud non era un teologo, ma questo suo
(sbrigativo?) giudizio ci aiuta, forse, a discernere qualche seme del
fondamentalismo. Le
religioni storiche alludono all’eterno, ma i loro linguaggi sono
incardinati alle epoche delle Rivelazioni, cioè a società agricole,
gerarchiche, presumibilmente immutabili. Le rivoluzioni borghesi, moderne
e postmoderne, i cambiamenti radicali di modelli di vita, di distribuzione
dei redditi, di accesso alle informazioni, seminano impazienze e
scetticismi, tendono trasferire all’«oggi e qui» le speranze di
beatitudine delle masse. La predicazione religiosa può reagire cercando
adepti nelle plaghe del mondo in cui le condizioni di vita siano simili a
quelle contemplate nei Libri, oppure deve aggiornare il messaggio,
adeguandolo alle mutazioni della società contemporanea. Ciò comporta una
progressiva secolarizzazione delle Chiese, che suscita perplessità e
ribellioni nei credenti classici. È il caso di don Gianni Baget Bozzo,
che osa accusare il Papa di apostasia, senza considerare che, per questo,
i pontefici che egli rimpiange lo avrebbero scomunicato (altro che Milingo!)
e dannato al rogo. Chiaro: ogni Libro si presta a diverse interpretazioni,
che possono variare con i tempi ed essere usate come strumenti di potere,
anche a costo di generare scismi, conflitti, persecuzioni. Ma i
fondamentalisti sunniti o sciiti detestano soprattutto la secolarizzazione
della loro fede, l’abbandono della purezza teocratica da parte dei
governi musulmani. I fanatici non ammetteranno mai che la vera religione
(così come loro la leggono) è inadeguata al mondo: urleranno che è
inadeguato alla loro fede il mondo d’oggi, corrotto e blasfemo. Questa
visione è una minaccia micidiale per i Paesi islamici «moderati», perché
in molti di loro il terreno è fertile per la propaganda estrema, perché
lì sono disponibili masse di manovra fameliche e disperate, tra le quali
si possono reclutare «uomini che amano la morte come gli americani amano
la vita», garantendo loro un premio che non è di questo mondo. Questa è
la forza nera dell’estremismo religioso: contrariamente alla politica,
esso non ha bisogno di promettere vantaggi materiali, né teme di subire
verifiche a breve scadenza. Qualcuno
s’è scandalizzato, davanti all’aggressività rovente di Oriana
Fallaci: l’hanno perfino chiamata razzista. Ma non si può rispondere
sottovoce a chi stermina i tuoi amici e sfregia la tua città. Molti
intellettuali del nostro tempo sono abituati a guardare il mondo
dall’alto di freschi palmizi, distribuendo imparzialmente torti e
ragioni, come se nulla li riguardasse. Però, quando la casa brucia, è
necessario chiamare i pompieri, è giusto detestare l’incendiario, ed è
sano, nei momenti critici, recuperare le emozioni basilari. Il
razzismo non c’entra. Parlerei, semmai, di un’esplosione di sincerità,
e tento di spiegarmi con un esempio scolastico. È istintiva la diffidenza
verso chiunque sia «diverso». I bambini scherniscono o isolano chi parla
un dialetto esotico, chi è troppo grasso, chi è troppo alto o
balbuziente. La maestra, con fermezza e pazienza, dovrà spiegare che ciò
non è giusto e, a poco a poco, convincerà gli alunni a reprimere i loro
impulsi cattivi. Ma l’ostilità rinasce, violenta, quando in classe (nel
paese o nel mondo) un «diverso» minaccia la comunità: a questo punto
lui e tutti i suoi simili precipitano nel ghetto del disprezzo. Lo
scriveva anche Antonin Artaud: di fronte alla catastrofe cadono i castelli
culturali, l’istinto cancella l’educazione. E questo ha fatto Oriana
Fallaci, una che ha visto tanti Paesi e tante battaglie: ha scovato dalle
sue viscere una vitalità elementare e ce l’ha gettata in faccia. Dopodiché
si può discutere di tutto. Noi giornalisti siamo piuttosto disorientati,
specialmente se abbiamo girato un po’ di mondo. Arriviamo in mezzo ai
disastri con le valigie piene di convinzioni ferree, che poi vanno in
frantumi quando guardiamo i conflitti da vicino. Abbiamo paura, ma
facciamo a cazzotti per saltare sull’ultimo elicottero: vediamo molto,
impariamo poco. Siamo abituati a confrontarci con le differenze, e anche a
rispettarle. Nel Laos, per esempio, possono servirti una salsa bruna. Che
cos’è? «Cacca di uccelli». Ah, benissimo. L’ambiguità è sempre in
agguato. I più vecchi ricordano Saigon. Loro facevano il tifo per i
nordisti, ma quando le cannonate dei «liberatori» s’avvicinavano
all’albergo, gesummaria, speravano che gli imperialisti le zittissero. E
in Pakistan? Sembrava giusto, nei tempi andati, parteggiare per il «laico»
Alì Bhutto, si capiva benissimo che le sue tentazioni «neutraliste»
dispiacevano agli occidentali, che gli aizzavano contro turbe islamiche, e
che si preparavano a farlo impiccare, dopo un solenne processo gestito da
magistrati scuri travestiti da inglesi, con le parrucche in coppa. Però,
se ti trovavi a Lahore, in mezzo a una sparatoria, non dico che cambiassi
idea, ma te ne fregavi del torto e della ragione: volevi soltanto che la
piantassero. Noi
eravamo mosche cocchiere, e siamo diventati coltivatori di dubbi. Né ci
aiutano i discorsi che ascoltiamo, stupefatti, nei talk show
radiotelevisivi. Prendiamo appunti: «Con gli aiuti alle vittime di
Manhattan, l’America s’è convertita al socialismo delle
partecipazioni statali». «Il riassetto geopolitico postbellico? Vediamo
un po’: il nord dell’Afghanistan sotto controllo tagiko, il sud lo
affidiamo ai pakistani, il re garantisce la federazione e l’India si
consola in pace con il Kashmir». «Ma è tutta una roba di soldi! Oppio,
banche, gasdotti!». Taleban Petrol, insomma. Che tristezza. Quasi tutte
le nostre vecchie passioni sono state tradite. I sudvietnamiti stanno
peggio di prima. Gli iraniani non hanno guadagnato granché, passando
dallo scià agli ayatollah. Le donne afghane, poi, soffrivano meno di
adesso, sotto il regime dei fantocci filosovietici. E ormai, a quanto
pare, il crudele Gheddafi, è diventato amico, l’ondivago Arafat oggi
assomiglia a una garanzia, e domani (mai dire mai) qualche perfido
dittatore laico potrebbe essere rivalutato... Oriana Fallaci non coltiva queste nausee. Lei impugna la spada e taglia il mondo in due. La sua fede è brutale, ma nutriente, soprattutto perché ci obbliga a inforcare occhiali più lucidi. Sono tutte vere, le cose che scrive? Non è questo il punto. Anche le lucciole di Pasolini non erano affatto scomparse. Ma, in fondo, aveva ragione lui. |
![]() |
AFGHANISTAN
dossier
narcomafie Ma
quel giorno non riporterà in vita le cose che abbiamo amato: le immense
giornate limpide e le azzurre calotte di ghiaccio sui monti, i filari di
pioppi bianchi che tremolano al vento, e le lunghe e candide bandiere da
preghiere; i campi di asfodeli che venivano dopo quelli di tulipani, o le
pecore dalla grossa coda che chiazzavano le colline sopra Chakcharan, e
l’ariete con una coda tanto grande, che bisognava fissarla a un carro.
Non ci sdraieremo più davanti al Castello Rosso a guardare gli avvoltoi
roteanti sopra la valle in cui fu ucciso il nipote di Genghiz. Non
leggeremo le memorie di Babur nel suo giardino di Istalif, né vedremo il
cieco avanzare tra i cespugli di rose facendosi guidare dall'olfatto. Non
andremo a sederci nella Pace dell'Islam con i mendicanti di Gazar Gagh.
Non saliremo sulla testa del Buddha di Bamiyan, dritto nella sua nicchia
come una balena in un bacino di carenaggio. Non dormiremo nella tenda dei
nomadi, né daremo la scalata al minareto di Jam. E avremo perduto i
sapori: il pane rustico, caldo e amaro; il tè verde speziato col
cardamonio; l'uva che facevamo raffreddare nella neve; e le noci e le more
secche che masticavamo per difenderci dal mal di montagna. Né ritroveremo
l’aroma dei campi di fagioli, il dolce resinoso profumo del legno di
deodara, o l'afrore di un leopardo delle nevi a quattromila metri. Bruce
Chatwin, Che ci faccio qui? AdeIphi 1990
A
un mese dall'attacco terroristico alle torri gemelle di New York è
scattata, ancora una volta, la risposta della guerra. Ad essa, di nuovo,
cerchiamo di opporre la forza della ragione. Non è in discussione il
punto di partenza. L’orrore e la barbarie che hanno devastato New York e
Washington non hanno giustificazioni. Di più, essi non hanno colore
(politico, religioso o nazionalistico, che sia); sono semplicemente orrore
e barbarie. Non c'è dio, non c'è politica, non c'è progetto di
emancipazione senza rispetto e pietà per l'uomo. Non vale dire che la
violenza ha avuto nella storia (ed ha oggi) un ruolo di primo piano, sia
nel mantenimento dello status quo sia nei progetti di cambiamento. Lo
sappiamo bene. Ma il secolo appena concluso ha infine, tra strappi e
contraddizioni, convogliato gli sforzi della parte migliore dell'umanità
verso almeno la minimizzazione della violenza. Ed è,
contemporaneamente, cresciuta, anche nei settori politici più radicali,
la consapevolezza indotta dalle dure lezioni della storia che il domani è scritto nell'oggi e che il futuro sarà a immagine e
somiglianza del metodo e delle pratiche seguite per costruirlo. In ogni
caso, rispetto alla pur diffusa violenza, il terrorismo soprattutto quando raggiunge le vette di ferocia e di casualità cui
abbiamo assistito rappresenta un che di qualitativamente diverso. Ma
anche di fronte all'orrore e alla barbarie occorre ragionare, capire,
intervenire con lungimiranza. I terroristi sperfluo dirlo vanno identificati e puniti. Ma non sono indifferenti la natura e le
modalità della risposta al terrore. Se migliaia di uomini (e persino di
bambini) sono pronti a trasformarsi in proiettili (imbottendosi di tritolo
o lanciandosi contro un grattacielo alla guida di un aereo) e se intere
comunità celebrano la strage di New York come una festa, esiste un
problema che nessuna guerra può risolvere o rimuovere (e che, anzi, ogni
guerra aggrava). Occultarlo o ignorarlo promettendo risposte militari
risolutive realizza solo nuove tragedie. La guerra è di per sé ingiusta
e nessuna moderna favola sulle "bombe intelligenti" può
nascondere il fatto che la stragrande maggioranza delle vittime, dirette e
indirette, delle guerre moderne, è fatta di popolazioni civili, di donne,
vecchi, bambini (cui certo non reca sollievo essere "effetti
indesiderati"). La guerra e, con essa, la distruzione di un paese già
colpito a morte da risalenti conflitti nazionali e internazionali, potrà,
forse, portare all'arresto o alla eliminazione di Bin Laden e dei suoi
collaboratori, ma non fermerà (ed anzi moltiplicherà) il terrore: le
stragi nei campi di Sabra e Chatyla crocevia del terrorismo
contemporaneo sono li a dimostrarlo. Il terrorismo non è figlio
della povertà e dell'ingiustizia, ma si alimenta, della disperazione da
esse prodotta: intervenire politicamente su tali situazioni è non solo un
gesto di equità ma anche il più efficace strumento per vincerlo. Ma
che fare, ora? Rassegnarsi alla barbarie in attesa di un mondo migliore
incerto e lontano? E, intanto, lasciare che sia impunemente ucciso un
numero crescente di innocenti? Certamente nò. Una risposta al terrorismo
è necessaria e urgente non solo sul piano politico, ma anche su quello
repressivo. Essa però deve avere in sé i germi della giustizia e della
pacificazione anziché quelli dell'antico "occhio per occhio, dente
per dente". In alternativa alla guerra o, forse, per renderla
più accettabile molti hanno parlato, in questi giorni, di
operazione di "polizia internazionale". Il termine ha, anche per
l'uso incongruo che ne è stato fatto nel recente passato, rilevanti
margini di ambiguità ma, nella parte in cui è accettabile, indica la
sola risposta possibile. Un'operazione di polizia, diretta ad accertare e
punire i responsabili di crimini internazionali, non può essere affidata
ad una delle parti (e, a maggior ragione, a chi è vittima del delitto):
essa compete all'Onu, in questa crisi ancora una volta emarginato e
indebolito. Non è un fatto formale ma una questione sostanziale, gravida
di conseguenze anche sui modi dell'operazione, sulle forze in essa
coinvolte, sulla possibilità di ottenere un consenso internazionale reale
e non contingente. Può sembrare utopia, ma è l'unica strada realistica
e, a lungo termine, efficace. Altrimenti, quale che sia l'esito della
guerra (non è certo questo il punto in dubbio. ..) si invereranno, ancora
una volta, le dolenti parole di Arthur Rimbaud: «Questo veleno ci resterà
in ogni vena anche quando, dopo che la fanfara avrà girato, saremo
restituiti all'antica disarmonia».
Isolamento,
distruzione, altissima incidenza di morte e malattia, quattro milioni di
profughi. L’offensiva dell'Occidente contro il terrorismo islamista è
cominciata da un paese già stremato Qualcuno
ha avuto il tempo di telefonare alle famiglie per un estremo, straziante
addio. Qualcuno non si è accorto di nulla. Qualcuno è riuscito a
scappare. Molti, troppi, no. Impiegati, brokers, turisti, ragazzi al primo
lavoro, bambini in braccio ai genitori, camerieri, uomini e donne delle
pulizie che avevano appena tirato a lucido vetrate e pavimenti che da li a
poco sarebbero andati in briciole. E poi tanti pompieri, corsi al
sacrificio. Una babele di razze e di popoli erano insieme nelle Torri
Gemelle ed hanno i loro missing da piangere: americani, italiani, cinesi,
giapponesi, indiani, pakistani, russi, tedeschi e inglesi. Implacabili e
precisi come missili intelligenti", gli aerei sono piovuti dal cielo,
nella pancia altri innocenti immolati alla follia umana. Ed è stata
l'apocalisse. E così ora New York ha le sue cicatrici profonde e le sue
macerie. Come Mostar, come Sarajevo. O come Kabul. Un atto di guerra o di terrorismo, una rivolta dei poveri contro l'Occidente? E chi è il nemico, chi sono i buoni e chi i cattivi? «II nostro nemico»
ha precisato Bush, «è una rete estremista di terroristi e sono nostri
nemici tutti gli Stati che li appoggiano». Ha
detto una ragazza in lacrime, intervistata dalla CNN mentre attaccava la
foto della sorella scomparsa nel "muro del pianto" di Union
Square: «Io non ne sapevo niente, non sapevo nulla di Afghanistan e di
Bin Laden. Forse avrei dovuto informarmi. Ma tutto quello che succedeva
fuori dagli Stati Uniti mi sembrava poco importante». E Saul Bellow,
premio Nobel per la letteratura, ha commentato in un'intervista al «Corriere
della Sera»: «Credo che gli americani debbano iniziare a pensare più
seriamente alla propria posizione e al proprio ruolo nel mondo. Gli Stati
Uniti sono un enorme paese dei balocchi abitato da viziati che si illudono
di poter continuare a giocare per sempre. L’americano oggi vive per
comprare, usare e gettare via perché questo è l'obbiettivo esistenziale
fissato per lui dalla società. Ma una società non può prosperare su
fondamenta del genere. Spero che il tono generale nel Paese si faccia più
serio, dopo questa catastrofe, inducendo la gente a interessarsi dei
problemi reali». Il
presidente Bush, durante la sua campagna elettorale, aveva promesso agli
americani che si sarebbe occupato più dei problemi della sua America che
di quelli del resto del mondo. Ora, come Kennedy durante la crisi di Cuba,
ha di nuovo in pugno le sorti del mondo, un mondo che forse, ma speriamo
che non sia così, comincia a conoscere solo adesso. Nove
giorni dopo la strage delle Twin Towers, ha annunciato la nuova guerra,
(in un primo tempo battezzata "Giustizia infinita", una vera
gaffe perché così gli islamici definiscono Allah). Non «una corsa a
scatto», come fu la guerra nel Golfo, ma «una maratona» che, come
promette il ministro della difesa americano Donald Rumsfeld, impegnerà
per un periodo lungo e imprecisabile centinaia di mezzi e di armi (senza
l'esclusione pregiudiziale di quelle atomiche) e decine di migliaia di
soldati. La
"maratona" è partita il 7 ottobre dall'Afghanistan. Qui si è
nascosto Osama bin Laden, il principale indiziato della strage. Il
Pakistan li vicino è una polveriera. Il Pakistan dai due volti, che da
cinque anni sostiene, arma e protegge il regime talebano di Kabul, ma che
ora si è schierato al fianco degli Stati Uniti. E poi ancora, li intorno,
altri Stati pronti ad esplodere: il Tajikistan, l'Uzbekistan. E un po' più
in là la Cecenia, da sempre solidale con gli integralIsti afghani. Il
primo atto, scena prima, dell' operazione "Libertà duratura" così è stata ribattezzata
si apre in quest'intricato
scenario. UNA
CITTA' RASA AL SUOLO
Dall'Afghanistan
se ne sono dovuti andare i membri stranieri di tutte le ONG e i
giornalisti della CNN. Se ne è andato, e questo è stato senz'altro un
segnale più significativo degli altri, anche Alberto Cairo,
fisioterapista della Croce Rossa Internazionale, a Kabul da tredici anni,
padre del centro ortopedico che ha "ridato" le gambe e gli arti
a migliaia di afghani che le avevano perse a causa della guerra, ma anche
di tutte le altre sventure che per vari motivi in Afghanistan hanno
un'incidenza maggiore che altrove: incidenti sul lavoro o stradali,
malformazioni congenite, malattie. Gli unici stranieri rimasti sono i
volontari di Shelter Now International, l'organizzazione cristiana tedesca
di cui fanno parte gli otto operatori arrestati dai talebani con l'accusa
di fare proselitismo. Già
prima che cominciassero i lanci di missili e i raid aerei l'Afghanistan
era un Paese isolato. A Kabul e in altre città molti abitanti erano
fuggiti o avevano mandato verso i confini pakistani moglie e figli. Si
dice che anche i talebani lo abbiano fatto. D'altro canto chi ha soldi e
conti in banca non ha difficoltà ad essere accolto ovunque. Kabul
ha assunto da anni la fisionomia di uno straziato presepe natalizio, con i
pastori che spingono le capre nei recinti, bambini in groppa agli
asinelli. La parte del commercio e del potere si sviluppa a 1800 metri, ai
piedi delle colline da cui, per oltre vent'anni, artiglierie di vari
eserciti, bande o ribelli hanno tenuto sotto tiro la città, ucciso e
mutilato i suoi abitanti. Lungo i diversi fronti che si aprivano per la
conquista della capitale, non c'è una casa, di quelle miracolosamente
rimaste in piedi, che non rechi le cicatrici profonde di quegli scontri.
Sembra impossibile che la gente abiti ancora qui, in mezzo a queste rovine
in cui mancano luce e acqua potabile ma in compenso abbondano, nascoste
tra le macerie, le mine anti-uomo. I
ministeri e la residenza di Mulah Omar, leader supremo dei talebani, sono
nel centro di Kabul. Obiettivi strategici nel mezzo dell'area più
popolata della città, con i suoi bazar, il suo brulicare di gente che
fino a due mesi fa cercava in qualche modo di sopravvivere. «In
questi anni di guerra è stato distrutto tutto. In Afghanistan non è
rimasto più nulla da colpire. Non acquedotti, non ponti, non industrie»
ci ha detto Abdul Qadeer, che ha un mini market nella Chicken Street, un
tempo, prima dell'occupazione sovietica, la via preferita da turisti e
hippies occidentali. «La ricchezza del nostro paese è nella sua
posizione geografica, il più facile accesso dall'Europa al Pakistan e
all'India. Da qui interessi internazionali vogliono che passino gasdotti e
oleodotti. La storia si ripete: nei secoli scorsi, gli afghani morivano
nelle guerre per il controllo della via della seta e delle spezie, ora in
quelle per il controllo del passaggio del petrolio dall'est all'ovest». I BUDDHA E IL MASSACROCon
la jeep della Halo Trust, un'organizzazione umanitaria scozzese che si
occupa di liberare i campi dalle mine, nel luglio scorso avevamo guadato
torrenti per raggiungere le aree da sminare, sulla linea dei fronte di
Bamyan, a circa 80 chilometri da Kabul, dove sono stati distrutti i Buddha
scolpiti nella roccia. In questa provincia abitano gli hazara, una
popolazione di religione sciita, perseguitata dai talebani, musulmani
sanniti di etnia pashtu. «Mentre
il mondo inorridiva per la distruzione delle statue, circa 300 hazara
venivano massacrati dai talebani nel silenzio della stampa internazionale»
accusa Mariani di Rawa, l'Associazione rivoluzionaria delle donne afghane. La
nostra jeep si ferma su un altopiano spazzato dal vento. Poco più a nord
c'è il fronte, demarcato da colline raggiungibili solo a piedi o a
cavallo di asini e muli. «Ogni monte dell'Hindu Kush ha un suo "shah",
un suo re, che parla un suo dialetto, controlla e conosce ogni pietra del
suo territorio. Lui e la sua gente sanno dove ci si può nascondere e da
dove si può colpire. Sono questi gruppi tríbali, oltre duecento, che
hanno sempre decretato la sconfitta di tutti gli eserciti. Le loro rivalità
hanno reso difficile il governo di questa nazione» spiega Akthar Dawan,
afghano, ufficiale capo dell'Halo Trust. Mentre torniamo verso Kabul, ci
insegna a riconoscere dai volti e dai vestiti l'etnia dei mercanti dei
bazaar: turkmeni, uzbeki, nomadi kuci, beluci, cafiri. E poi i tagild del
mitico Alimed Shah Massud, il ribelle nemico numero uno dei talebani,
assassinato in un attentato, forse organizzato da Osama bin Laden, due
giorni prima dell'attacco alle Torri di New York. «Per
secoli il nostro paese è stato come il greto di un fiume entro il quale
affluivano come torrenti popoli e genti da tutte le parti d'Europa e
dell'Asia» dice Akthar. «Gli hazara discendono dai soldati mongoli di
Gengis Khan, i pashtu erano ebrei che si stabilirono nel sud
dell'Afghanistan ai tempi di Babilonia. Fu un loro capo spirituale a
convertirli all'Islam dopo il suo incontro con Maometto. Si chiamava
huraul Qais, ma il profeta gli diede
il nome di Abdur Rashid e lo nominò "malik", re. Alcuni di noi
hanno sangue ariano, altri greco o arabo. UMghanistan non è un paese, è
una Babele di razze». Nella jeep, Akthar ha diversi tipi di mine
disarmate. «Le mostro ai bambini per metterli in guardia. Il paese ne è
pieno e ora lo sarà ancora di più». Mine,
un territorio ostile, tribù locali. 19 in questo scenario, torrido
d'estate e gelido d'inverno, che dovranno muoversi i marines e i loro
alleati per stanare bin Laden. Intanto un milione di afghani sta cercando
di scappare verso il Pakistan, dove si aggiungeranno agli altri tre
milioni di profughi. Forse andranno nel campo Jalozai, vicino a Peshawar.
E nato un anno fa. Ora conta oltre duecentomila rifugiati. Ci sono poche
latrine, non c'è elettricità, l'acqua è distribuita da Medici Senza
Frontiere, manca cibo. E’ un inferno. Ma è meglio della guerra. Perché
un editto ha proibito in Afghanistan la coltivazione della droga, fonte di
ricchezza dei terrorismo islarnista? Resoconto di una vicenda che
coinvolge l'Onu e i talebani, ma anche contadini, misteriosi acquirenti e
ingenti scorte di oppio... Era
fine di luglio quando percorriamo la strada non asfaltata che da Kabul ci
porta a Jalalabad, 146 chilometri ad est, verso i confini con il Pakistan.
Il tracciato si snoda lungo il greto del fiume Kabul, affluente dell'Indo.
La nostra jeep, messa a disposizione con due talebani di scorta dall'Afghan
Tour Department «per facilitare il nostro lavoro di giornalisti»,
impiega circa cinque ore per giungere a destinazione. Il sole ha reso dura
la terra di Jalalabad. Da mesi non piove e i canaletti per l'irrigazione
sono asciutti. Ma i contadini sono comunque al lavoro. spaccano le zolle e
le smuovono perché la terra sia pronta ad accogliere i semi. Semi di
grano. Se tutto andrà bene, se Allah vorrà e manderà un po' di pioggia,
forse sarà esaudita la preghiera di Malek Abdullah Kudus, sessant'anni,
capo del villaggio Sultan Pur. «Ogni sera da mesi, mi inginocchio e
chiedo che la gente di Jalalabad e delle aree rurali come quella in cui
vivo io smetta di andarsene : Finché coltivavamo i papaveri da oppio si
poteva vivere bene e, con quello che si riusciva a mettere da parte,
sopravvivere perfino alla siccità. Ma ora che la coltivazione del
papavero è stata proibita dai talebani non c'è abbastanza per tirare
avanti. Oltre il dieci per cento della popolazione ha già lasciato queste
terre. Molti sono andati in Pakistan o in Iran. Fra un po' non rimarrà
nessuno. Io prego Allah. Ma credo che sia la comunità internazionale a
doversi occupare del nostro problema. far si che la terra possa tornare a
darci da vivere. Abbiamo bisogno di semi di qualità, forti e resistenti,
pompe per tirar su l'acqua dal sottosuolo e farla correre nei canali». Aprile
è sempre stato un mese gioioso per i contadini afghani, il mese
dell'abbondanza in cui si raccolgono i frutti del lavoro di un anno. Anche
nell'aprile del 2000 tutto era pronto per la grande festa. I campi erano
coloratissimi, pieni di papaveri da oppio. Da Kabul sono arrivati i
trattori con il compito di distruggere tutte le coltivazioni di droga del
paese. Sotto gli occhi di Bernard Frahi, responsabile per l'Afghanistan e
il Pakistan dell'UNDCP, l'organismo delle Nazioni Unite preposto alla
lotta contro la droga, i mezzi meccanici sono passati avanti e indietro
sopra i papaveri e hanno sradicato i fiori della morte destinati
all'Occidente. «Dai
controlli che abbiamo ultimato lo scorso luglio» dice Bernard Frahi, «possiamo
dire con assoluta certezza che non vi sono più coltivazioni di oppio
nell'Afghanistan talebano. Il 27 luglio del 2000 Mullah Mohammed Omar,
leader supremo dei talebani, aveva emanato un decreto che imponeva il
divieto di coltivare papavero da oppio in tutto il paese. In un anno il
lavoro è stato portato a termine. Dobbiamo ammettere che, nonostante un
iniziale scetticismo da parte della comunità internazionale, il divieto
è stato rispettato, senza per altro che vi siano stati episodi di
violenza nei riguardi dei contadini. In tutto il paese solo una trentina
di loro sono stati arrestati, a fronte di circa 600mila persone che
lavoravano nei campi di oppio. Gli arrestati sono stati per altro
rilasciati quasi subito. Devo anche dire che Abdul Hamid Akhundzada, capo
dell'Alto Commissariato talebano per il controllo della droga, è stato
molto disponibile ed ha agevolato i nostri controlli sul territorio
afghano». Alla
fine degli anni Novanta e fino al decreto del leader talebano, in
Afghanistan veniva raccolto il 70% dell'oppio distribuito poi in tutto il
mondo. Fino al 90% dell'eroina smerciata in Europa proveniva dai campi
afghani attraverso la rotta balcanica (Afghanistan, Iran, Turchia, Stati
balcanici) o, più recentemente, attraverso la rotta alternativa Asia
Centrale Russia. Nel 1999 il valore stimato della produzione di oppio per
i contadini afghani era di circa 600 miliardi di lire, che facevano
entrare nelle casse talebane, solo sotto forma di tasse, circa 200
miliardi. Nel settembre 1999 un decreto emanato dal leader talebano aveva
già imposto una prima graduale riduzione, e gli ettari coltivati erano
diventati da 92mila a 30mila. Alla luce di questi dati, bisogna
riconoscere che il governo talebano ha raggiunto un obbiettivo che in
altre parti del mondo è stato fallito o raggiunto in tempi più lunghi e
con investimenti molto più cospicui. In
luglio, il capo villaggio Malek Abdullah Kudus ci invitava a portare la
sua richiesta d'aiuto fuori dall'Afghanistan isolato, E cosi facevano
anche gli altri contadini. «Noi abbiamo fatto il nostro dovere. Abbiamo
ubbidito alla nostra legge per il bene di tutti, soprattutto di voi
occidentali» ci ha detto il nipote Mokhtar, ventidue anni. «Ma sapete
quello che sta succedendo ora, senza aiuti da parte di nessuno? I
contadini non riescono a pagare il mutuo con il quale avevano comprato la
terra. Come avrete visto, da queste parti girano persone a bordo di jeep
molto costose. Si fermano davanti alle nostre case e ci fanno offerte per
comprare la nostra terra. Mio padre non vuole vendere e nemmeno mio nonno.
Ma io guardo al futuro e a quello del mio bambino. Con il grano si
guadagna meno di un terzo che con l'oppio. E c'è sempre la minaccia della
siccità. Per sfamare un bambino che piange non si possono aspettare i
tempi migliori. Se fosse per me venderci subito e me ne andrei in
Pakistan. Solo i ricchi possono fare le speculazioni. Comprano adesso la
terra che è secca e non vale niente. E aspettano. Aspettano lal me,
l'irrigazione che piove dal cielo. E aspettano che si riprenda la
coltivazione dei papaveri. Se non arriveranno in fretta gli aiuti
internazionali è solo questione di tempo, inevitabile come il levar del
sole: nei campi torneranno a crescere i fiori. Ma per i contadini sarà
troppo tardi. Saranno quelli che ora girano con le jeep da decine di
milioni a mietere l'oro». Quando
abbiamo incontrato i contadini di Jalalabad nessuno avrebbe potuto
prevedere quello che di li a poco sarebbe successo a New York. Con quale
chiave di lettura possiamo ora rileggere e interpretare lo sradicamento
dei papaveri da oppio in Afghanistan? Vi
sono alcuni lati oscuri circa l'operazione messa a punto dai talebani. La
prima domanda riguarda la fine che hanno fatto i magazzini con le scorte
di oppio. I talebani dicono che tutto l'oppio è stato bruciato, ma la
cosa sembra poco credibile. Per molti la droga è nelle mani di bin Laden,
dei talebani o di loro sostenitori. Il valore dell'oppio dopo lo
sradicamento dei papaveri era notevolmente aumentato (solo nel vicino
Pakistan il costo di oppio ed eroina in luglio era già triplicato). Ora,
con una nuova guerra da combattere e con la fuga dei profughi, il prezzo
dell'oppio sul mercato pakistano è sceso nuovamente. 1 contadini afghani
usavano l'oppio come forma di risparmio, sotterrandolo per tirarlo fuori
in momenti d'emergenza. Il momento è arrivato: per entrare in Pakistan i
nuovi profughi lo svendono al primo offerente. Ma non è stato certo
questo a far calare il prezzo dell'oppio. La causa è piuttosto nello
stretto legame tra i "signori della droga" e quelli della
guerra: in questo momento in Afghanistan servono soldi per comprare armi.
E quale migliore moneta sonante dei quintali di oppio contenuti nei
magazzini? ma chi è l'aquirente?Un'altra
questione riguarda il traffico di droga attraverso il paese. Non vi sono
dati e i talebani si sono dichiarati impotenti a combattere da soli il
traffico internazionale di droga. La grave crisi in corso nel paese può
comunque indurre i trafficanti a scegliere rotte meno pericolose: quella
sud, dal Pakistan all'Iran o quella nord, attraverso le repubbliche
dell'Asia Centrale. Ma forse la questione più inquietante riguarda le
terre svendute dai contadini afghani. Chi le ha acquistate? Da che parte
stanno questi nuovi latifondisti? Dalla parte dei talebani o da quella
dell'opposizione, nella speranza che i nuovi governanti siano più
tolleranti nei riguardi dei coltivatori di oppio? Che legami hanno con bin
Laden, con le mafie internazionali, con i terroristi? E ancora: lo
sradicamento delle coltivazioni ha aVuto una qualche attinenza con quello
che è successo a New York? Potrebbero terroristi legati al traffico di
droga aver organizzato la strage delle Torri Gemelle per decretare la fine
del governo ‑ talebano e di chiunque si opponga ad un commercio
tanto redditizio o per spingere i talebani, come peraltro ora hanno già
dichiarato, a consentire nuovamente la coltivazione del papavero? D'altro
canto, fanno notare a Kabul, nella parte settentrionale del paese
controllata dall'Alleanza del Nord i campi non sono mai stati sradicati e
l'oppio ha continuato a finanziare la rivolta dei mujaheddin. P,
fuor di dubbio ‑ tornando alla guerra ‑ che la forza militare
afghana non sarà in grado di competere con gli americani. A livello di
armamenti i talebani possono contare su 200 carri T55, altrettanti
blindati, circa 600 pezzi d'artiglieria, un imprecisato ma limitato numero
di Mig 21, Sv 22 e L39, 350 cannoni e alcuni missili contraerei leggeri.
Si dice che Saddam Hussein li abbia riforniti di Scud con testate
chimiche, ma, anche fosse vero, non è certo questo che può fare la
differenza. A livello di esercito dispongono di circa 50mila militari. Tra
questi vi sono anche due brigate regolari dell'esercito pakistano
impegnate nel fronte nord a combattere contro i mujaheddin (si dice circa
8.000 uomini, ma c'è chi sostiene che in realtà siano molti di più).
Con loro anche una brigata di Al Qaeda, di cui è leader supremo Osama bin
Laden, Sulla
carta, insomma, la vittoria degli americani dovrebbe essere facilissima.
Ma quella che si può combattere in Afghanistan non è una guerra, è una
guerriglia. E in questo caso i mezzi e le tecnologie a disposizione
contano poco, mentre conta molto la conoscenza del territorio e le
alleanze con i movimenti e i gruppi tribali che lo abitano. IL
"VOLGARE" MUSHARAFF
«Provate
a fare questo ragionamento. Taleban significa studenti. Le madrassah, le
università coraniche in cui hanno studiato, si trovano in Pakistan. Ma
nelle scuole religiose non s'insegna a guidare i carri armati o i caccia,
non si insegna a sparare» dice Sanai, afghano tagiko come Massud, che
ammirava molto. «L'esercito talebano è in buona parte composto da
pakistani. Fino a qualche tempo fa, a capo dei servizi segreti pakistani (ISI)
c'era il generale Hamid Gul. Per anni ha fatto la spola tra Islamabad e
Kabul. 2 stato lui ad organizzare i loro servizi, lui era il collegamento
diretto tra il governo del Pakistan e quello di Kabul. Molti lo hanno
detto: dietro la strage di New York deve esserci almeno un paese con i
suoi servizi segreti. Io non ho dubbi: si tratta del Pakistan. Nei giorni
scorsi, nelle strade di Peshawar, Islamabad e Karachi, erano all'ordine
del giorno le manifestazione in appoggio dei talebani, contro l'intervento
americano. A guidare le proteste erano spesso i mullah, i capi spirituali
delle moschee. Tutti pakistani pashtu, come i talebani. Guardando la
televisione sembrava che tutti gli afghani in Pakistan appoggiassero i
talebani. In realtà i rifugiati hanno appoggiano i mujaheddin di Massud,
ma soprattutto, come faccio anch'io, auspicano il ritorno del re Zahir,
dal 1973 in esilio a Roma. Nei campi profughi i pakistani hanno messo i
talebani a controllare la gente, ad imporre alle donne il burqa. La
ragione ufficiale è che si vuole facilitare il loro ritorno in
Afghanistan. Ma la ragione vera è il controllo politico». Sanai
esprime il pensiero di molti afghani rifugiati in Pakistan. Forse, come
spesso capita a chi si sente discriminato, tende ad identificare il male
con chi gli impedisce di integrarsi. Ma è vero che il governo del
generale Musharaff («significa "nobile", ma noi lo chiamiamo
Bisharaff, che vuol dire "volgare"» dice Sanai) ha sempre
represso tutte le manifestazioni contrarie ai talebani, anche quelle della
Rawa, l'Associazione rivoluzionaria delle donne afghane. LIBRI, NON ARMIPer
incontrare Mariam, responsabile delle relazioni esterne di Rawa, abbiamo
dovuto prendere un appuntamento nella hall del nostro albergo a Islamabad.
L’organizzazione non ha una sede fissa e le relazione esterne vengono
tenute attraverso un cellulare. E’
innegabile la responsabilità che il Pakistan ha avuto in questi cinque
anni di regime talebano. Non ci è stato facile lavorare in questo paese
anche se il nostro è un movimento pacifista. Noi vogliamo che
l'Afghanistan si liberi da tutti i fondamentalismi, sia quello del regime
talebano, ma anche quello dei mujaheddín. Temo che invece ora i
mujaheddin riceveranno molti finanziamenti e armi. Il mondo guarda a loro
come alleati indispensabili per liberare l'Afghanistan dagli integralisti
e il mondo dai terroristi. Massud era un personaggio molto intelligente,
aveva un grande appeal sugli intellettuali europei. Ma noi afghani non
possiamo dimenticare quello che ha fatto a Kabul e nel paese. Si è saputo
vendere bene, si è presentato come un democratico, ma in realtà era un
fondamentalista e così è ora il suo successore. Purtroppo in Afghanistan
non vi sono movimenti di opposizione ben organizzati, anche perché non
riescono a trovare finanziamenti. Ci sono gruppi pacifisti che però hanno
molta difficoltà a mettersi in contatto tra loro. E i gruppi tribali
combattono ognuno per propri interessi. Rawa è un gruppo pacifista. Siamo
sempre state vicine al nostro popolo portando aiuti umanitari e libri.
Molti ci chiedevano armi, noi abbiamo sempre risposto che non era quello
il nostro metodo di lotta». «An
eye for an eye leaves the whole world blind» (occhio per occhio rende il
mondo intero cieco), diceva il mahatma Gandhi. Ma in tempi in cui rullano
i tamburi di guerra i soldi non si fanno con la vendita di occhiali, ma di
mitra. Il mondo si riarma. E qualche titolo in borsa avrà un rialzo. E'
mostruoso pensarlo, ma forse anche i dannati della terra che hanno
distratto le vite di migliaia di persone una tiepida mattina di settembre
si stanno sfregando le mani. Noi abbiamo fatto il nostro dovere Intervista
ad Abdull Hamid Akhundzodo Non
riesce a nascondere l'orgoglio per il lavoro svolto dal suo dipartimento,
Abul Hamid Akhundzada, responsabile dell'Alto commissariato dell'Emirato
dell'Afghanistan per il controllo della droga. Alle pareti dei suo ufficio
sono appese le foto che raccontano le varie fasi dei successo: i trattori
che calpestano i papaveri, i contadini che seminano il grano, i talebaní
che proteggono i nuovi raccolti, la mietitura. Prove inconfutabili dei
completo sradicamento di tutte le coltivazioni di papavero da oppio
nell'Afghanistan sotto il controllo talebano (il 90 per cento dei paese). «Vi
erano circa 8.000 villaggi coinvolti nella coltivazione di droga» dice
Akhundzada. «Ora, come le Nazioni Unite hanno avuto modo di verificare,
in Afghanistan non vi è più un solo campo di oppio. Noi abbiamo fatto
bene il nostro dovere. La legge coranica proibisce la coltivazione e l'uso
delle droghe. Ora tocca alla comunità internazionale fare il resto, come
vuole l'articolo 14 della convenzione internazionale sulle droghe, dove si
dice che i paesi che lottano contro la droga devono essere aiutati,
tecnicamente ed economicamente, dalla comunità internazionale. Per ora
nessuno ci ha dato una mano per aiutare i contadini e per combattere il
traffico di droga che ancora passa dal nostro territorio, lungo i confini.
Non abbiamo personale preparato per scoprire la droga, non abbiamo radio,
né elicotteri. Se le Nazioni Unite davvero vogliono mettere fine al
traffico dì stupefacenti devono collaborare. Noi siamo riusciti a
catturare alcuni trafficanti. Nella provincia di Kanclahar abbiamo appena
sequestrato un carico di 2.000 chili di oppio. Ma la lotta al crimine
organizzato non può essere fatta senza un coordinamento internazionale».
Abdul Hamid Akhundzada è reticente circa la sorte dei trafficanti
arrestati. «E la corte suprema a stabilire le pene in base alla sbaria,
la legge islamica. Ma catturare i capi dell'organizzazione non è facile.
Hanno i soldi, il potere e le coperture internazionali. Come potete vedere
nelle foto, la droga sequestrata viene immediatamente bruciata, sul luogo
stesso dove è stata trovato. Il problema dei magazzini pieni di oppio è
reale. La maggior parte si trovano lungo i confini, soprattutto vicino
alle aree controllate dall'opposizione. L'opposizione continua a coltivare
il papavero. Con i proventi della droga compra le armi per combattere
contro di noi. lo sono d'accordo ad avviare una collaborazione con l'Interpol,
in accordo con il nostro ministero degli Interni, così come abbiamo fatto
con VUNDCP. Ma deve essere chiara una cosa: il nemico comune deve essere
la droga, non il governo talebano. L’Interpol deve intervenire anche nei
territori controllati dall'opposizione. Per quello che riguarda gli stock
di oppio vi sono solo tre possibili soluzioni. la prima è trovare i
magazziní, prenderli con la forza e bruciare la droga. ~ una buona
soluzione, ma richiede un grande dispendio di soldi, di uomini. E poi,
vista la collocazione degli stockpile, spesso sulle linee dei fronte, si
rischiano scontri armati. La seconda è comprare la droga con i soldi
della comunità internazionale e poi bruciarla. Ma Bernard Frahi ha già
dichiarato che non accetta questa soluzione. La terza è permettere alle
industrie farmaceutiche di comprarne una quota per uso medicinale. Di
certo l'Afghanistan da solo non può sostenere la lotta al traffico
internazionale di stupefacenti». ... ma l'ONU non può comprare la droga Intervista
a Bernard Frahi Cerniera
tra Europa e Cina, il Taglkistan occupa una posizione strategica nella
polveriera centroasiatica. Ma i colossali investimenti dell'Occidente
rischiano di finire in mano alle mafie. Parte
di quell'Asia dove, in un costante ridefinirsi di assetti
politico-economici, ci si contende il controllo delle vie che da Oriente
portano in Europa droga, armi e clandestini, il Tagikistan è un paese
martoriato da decenni da una guerra civile. Un conflitto di cui in Europa
arrivano echi lontani solo quando accadono eventi clamorosi, come
l'uccisione, l'11 aprile scorso, di Habib Sanginov, vice ministro degli
Interni, o gli assassini, le sparizioni, i rapimenti di cittadini
stranieri appartenenti ad organizzazioni umanitarie (nel 1998 quattro
inviati dell'ONU perirono in un attentato). Ma questa guerra silenziosa è
già costata oltre 50mila morti in un paese che non raggiunge i 6 milioni
di abitanti. Una vera e propria decimazione che continua nonostante la
guerra civile scoppiata nel 1992 si sia ufficialmente conclusa nel 1997
con un accordo tra il presidente lmomali Rakhmanov e il leader
dell'opposizione islamica Sayd Abdullo Nuri. egemonia in pericoloIl
paese è un reticolato di confini invalicabili: vi sono quelli geografici
con gli Stati limitrofi, ma vi sono anche zone off-limits in mano a clan
locali o a mafie che gestiscono i traffici illegali. La linea M-41 che
dovrebbe unire la capitale Dushanbe con i monti del Pamir e che corre
parallela ai confini afghani è in realtà impraticabile già pochi
chilometri a est della capitale. Ai cheek point, i militari non lasciano
passare quasi mai i civili: regolarmente la strada viene minata per
scoraggiare gli attacchi dei fondamentalisti islamici filotalebani,
esclusi dal governo. Proprio
per queste sue caratteristiche il Tagikistan è diventato il territorio
privilegiato per i campi di addestramento delle milizie paramilitari e dei
terroristi che agiscono in Asia Centrale e nel Caucaso. Paradossalmente si
addestrano qui sia i talebani afghani, sia i loro nemici giurati,
l'esercito dei mujaheddin, guidato fino al 9 settembre dal tagiko Ahmed
Shah Massoud ed ora da Mukhammad Fakhim. Per
l'Europa e gli Stati Uniti il Tagikistan ha un'importanza strategica
fondamentale. Nel maggio 1993 a Bruxelles fu proposta la realizzazione,
sulle tracce dell'antica via della seta, del TRACECA (corrìdoio per i
trasporti Europa-Caucaso-Asia), prolungamento in Asia Centrale dei
corridoi transeuropei già all'origine di scontri, diplomatici e non,
nell'area balcanica. La "Nuova via della seta" avrebbe dovuto
unire l'Europa a Pechino. Gli Stati dell'Asia Centrale coinvolti nella
costruzione di questo corridoio di comunicazioni (gasdotti, autostrade,
reti ferroviarie, metanodotti, cavi per fibre ottiche, terminal per
container) coprono infatti un'area immensa, tra l'Armenia e la Mongolia,
l'Ucraina e il Tagikistan. Sia
la UE che gli Stati Uniti hanno dato via ai primi investimenti per
trasformare il progetto in realtà. Attraverso il Caspian Sea Energy
Development Project, l'Europa ha già investito 170 miliardi di lire nella
regione, procurato investimenti per 700 miliardi per la costruzione di
strade e destinato oltre 25 mila miliardi per lo sfruttamento di risorse
energetiche. Il
progetto, però, infastidisce i russi, che non vedono di buon occhio la
creazione di una via alternativa alla Transiberiana e alla Transmongolica
per il trasporto di materiali e persone dalla Cina all'Europa. Ai tempi
dell'impero sovietico, tutte le strade principali delle ex-repubbliche
portavano a Mosca. Non era raro che per parlare telefonicamente da due
capitali si dovesse utilizzare il centralino della capitale. Un progetto
di questo genere rischia di compromettere l'egemonia russa sulla regione. CASPIO, IL MARE CONTESO E’
in ballo anche la proprietà dei pozzi di petrolio che si trovano proprio
nel mezzo del mare, rivendicati dai cinque Stati costieri: Russia,
Azerbaijan, Kazakistan, Turkmenistan e Iran. La
proposta russa prevede che le acque del mare siano gestite in modo
comunitario (Mosca pensa ovviamente che il suo controllo sulle tre ex
repubbliche sovietiche non sia un problema). E se questa tesi è sostenuta
da Kazakistan e Azerbaijan, l'Iran preferisce una divisione condominiale
sia della costa che delle acque e assegna a se stessa una quota dei 20 per
cento. Gli altri Stati obbiettano che la costa iraniana corrisponde
soltanto al 13 per cento dei perimetro del Caspio. Ma gli iraniani
controbattono che in realtà a loro spetterebbe il controllo dei 50 per
cento dei mare, in base ad accordi presi nel passato con l'Unione
Sovietica: se si accontentano di meno è per evitare tensioni. Quando si
arriverà a un accordo, sul territorio afghano passeranno milioni di litri
di petrolio. Un motivo in più per scatenare guerre che sotto insegne
etnico-religiose spesso nascondono evidenti interessi economici. Ma
se la TRACECA potrebbe costituire per il Tagikistan e per gli altri Stati
dell'Asia Centrale un'occasione di sviluppo, alto è il rischio che il
crimine organizzato si appropri dell'appetitoso business. In un paese in
cui gli stipendi non vengono pagati per mesi, questo flusso improvviso di
commercio e investimenti sta già facendo aumentare il livello della
corruzione nell'amministrazione. Inoltre, come sottolineano sia il
rapporto del Dipartimento di Stato americano, sia quello francese dell'Observatoire
géopolitiques des drogues, il Tagikistan è coinvolto nel traffico e nel
passaggio di oppio e di canapa indiana. Le mafie che controllano i
traffici hanno già dimostrato di apprezzare il progetto, consapevoli che
ogni piano di sviluppo dell'area impone di scendere a patti con loro. L’Europa
sembra fiduciosa sul fatto che portare soldi e benessere aiuti lo
sviluppo di una democrazia. Ma la storia insegna che anche il miglior
progetto studiato a tavolino può produrre effetti di tutt'altro ordine,
quando è calato nella vita reale. Ora, dopo l’11 settembre, i russi
hanno dichiarato che proprio dal Tagikistan aiuteranno gli americani
impegnati nella loro guerra in Afghanistan, Da qui faranno arrivare i
finanziamenti ai mujaheddin dell'Alleanza del Nord. Paradossalmente i
nemici di un tempo, quelli che li buttarono fuori dal paese e li
umiliarono, diventano ora loro alleati. Tutti insieme per dare la caccia a
Osama bin Laden, l'uomo che la Cia utilizzò per far arrivare ai
mujaheddin gli Stinger e i finanziamenti da usare contro i russi. In
questa grave crisi mondiale, la Russia di Putin sta giocando la sua carta:
il suo esercito ritorna in modo massiccio nelle ex repubbliche sovietiche.
L’egemonia di Mosca riprende quota. Anche nella Cecenia musulmana,
colpevole di aver da sempre appoggiato il regime dei talebani. cecenia l'irriducibileCon
l'indipendenza dei 1991, la Russia perse il controllo della Cecenia,
regione di enorme importanza strategica, ricca di giacimenti di petrolio e
di gas naturali, attraversata da oleodotti e gasdotti . Nel 1994 i russi
decisero di invaderla, ma le milizie di Basayet, dopo due anni di lotta
nella quale persero la vita 100 mila ceceni e diverse migliaio di soldati
russi, respinsero gli attacchi costringendo i russi alla resa. Nel
1999 Putin ritorna in Cecenia con il suo esercito, usando a pretesto
l'appoggio dato dai ceceni agli indipendentisti del Daghestan. Anche in
questa occasione gli attacchi dei russi sono violentissimi e la capitale
Grozny viene quasi rasa al suolo. L’aviazione russa utilizza armi
chimiche, mentre le truppe di terra commettono atrocità anche contro la
popolazione civile. Si scoprono fosse comuni nelle campagne nei dintorni
di Grozny. Dopo
l'attentato di New York, i russi non hanno esitato a ipotizzare un
collegamento tra i ribelli ceceni e il terrorismo fondamentalista. «Anche
noi, da anni, siamo vittime dei terroristi» ha detto Putin, con chiaro
riferimento alla situazione cecena. Di
lotta armata gli afghani sanno qualcosa. Durante i primi decenni
dell'ottocento l'Afghanistan, in conflitto costante con i paesi vicini, fu
straziato da una guerra civile tra bande rivali. L'Inghilterra, temendo
una minaccia al suo prezioso commercio con il India, intervenne con una
serie di azioni sia diplomatiche sia militari che portarono
all'occupazione del paese nel 1840 e ancora nel 1878. In entrambe le
occasioni gli inglesi furono costretti a ritirarsi, in seguito a una lunga
serie di vendette e rappresaglie sanguinose condotte da una feroce
guerriglia. Un secolo dopo, neanche la superpotenza militare dell'Unione
Sovietica riuscì a domare la tenacia della popolazione afghana durante
gli anni di occupazione dal 1979 al 1989, come testimoniano i circa 15mila
soldati sovietici rimasti uccisi sul terreno ostile. Nessuno
dubita che la "guerra al terrorismo" degli USA e dei suoi
alleati nelle valli e le montagne dell'Afghanistan contro le forze
militari dei talebani sarà facile o di breve durata. Se il principale
bersaglio, Osama bin Laden, rimane in uno dei suoi rifugi e richiama alle
armi i suoi arabi afghani per difendere il suo paese di adozione, sarà
battaglia dura. ridateci gli stingerLa
storia di Osama bin Laden è ormai nota: rampollo di una famiglia
miliardaria saudita, guadagna il suo status di guerrigliero quando
organizza il reclutamento delle truppe di resistenza isIamica per
combattere al fianco dei mujaheddin afghani contro l'occupazione
sovietica. Durante gli anni 80, in piena guerra fredda, due sono i nemicì
principali dell'Occidente: l'Unione Sovietica e l'Iran, entrambi
sospettati di aver finanziato gruppi e atti terroristici. Insieme al
Pakistan, paese con una larga maggioranza sunnita (84%), e l'Arabia
Saudita, anch'essa sunnita, gli americani vedono con favore una resistenza
che si oppone non soltanto al comunismo, ma che funge anche da polo
alternativo all'Islam sciita dell'Iran I servizi di sicurezza di tutti i
tre i paesi collaborano per appoggiare i mujaheddin. Allora, lontano dal
rappresentare il nernico numero uno degli americani, bin Laden e le sue
forze ricevettero finanziamenti, armi e anche missili Stinger. Secondo una
stima affidabile, l'appoggio americano alla resistenza afghana nel 1989
avrebbe raggiunto i 600 milioni di dollari. Le truppe reclutate da bin
Laden e di cui probabilmente dispone tuttora provenivano da tutto il Medio
Oriente: Algeria, Egitto, Libia, Marocco, Sudan, Tunisia, Arabia Saudita e
Yemen. Con
il ritiro dell'Armata Rossa nel 1989, dopo la fine della guerra fredda e
la caduta dell'Unione Sovietica e, soprattutto, dopo la guerra del Golfo,
i guerriglieri afghani non servono più agli americani, che rivorrebbero
indietro le scorte di missili Stinger. Ma è troppo tardi: i missili sono
già impegnati nella guerra civile che segue il ritiro sovietico. Bin
Laden ritorna nel suo paese d'origíne, l'Arabia Saudita, ma viene espulso
nel 1992 per aver criticato il regime, in particolare la decisione del
governo di accettare la presenza di truppe americane in pianta stabile sul
suolo arabo. Dal 1993 al 1996 si trova in Sudan dove, rafforzando il
proselitismo antiamericano, si prepara ad una nuova jihad, diventando
tessitore di nuovi network di fedeli pronti a qualsiasi sacrificio.
Ripristina i suoi contatti con gruppi islamici in Egitto, Algeria e nello
stesso Sudan, e offre aiuto ai signori della guerra in Somalia per
combattere le truppe prevalentamente americane dell'ONU. a scuola di JiadNel
febbraio del 1993 si verifica il primo attentato terroristico
significativo sul territorio americano: un camion-bomba parcheggiato nel
garage del World Trade Center uccide 6 persone e ne ferisce 1000.
L’attacco, non è riconducibile a bin Laden, ma gli imputati principali
il pakistano Rainzi Youssef e i suoi due complici palestinesi erano stati
addestrati nei campi afghani, mentre i figli dello sceicco cieco Omar
Abdel Rahman, ritenuto l'ispiratore religioso dell'attacco, combattevano
al fianco dei talebani. Appoggiati dal Pakistan e senza alcuna opposizione
da parte degli americani, i talebani arrivano al potere nel 1996. Gli
Stati Uniti puntano su nuove opportunità economiche, dando il vi alla
costruzione di un maxi oleodotto che, attraversando l'Afghanistan, unirà
l'Asia centrale al Pakistan. Nel
1997, sotto forte pressione americana, bin Laden viene espulso dal Sudan e
si trasferisce di nuovo in Afghanistan proprio nel momento in cui i
taleban rafforzano il loro potere e la natura repressiva del regime,
calpestando soprattutto i diritti civili delle donne. Bin Laden diventa
amico personale del capo religioso di Kabul, Mulla Moliammed Omar, il
quale sposa una figlia del miliardario. I campi di addestramento creati
negli anni dell'occupazione sovietica e sparsi nel paese funzionano negli
anni 90 coni scuole di guerriglia e di preparazione psicologica per la
jihad. Qui vengono addestrati i movimenti islamici sunniti che si
oppongono ai governi delle repubbliche asiatiche islamiche dell'Asia
centrale come Tagikistan e Uzbekistan, i militanti provenienti dal
Kashmir, dalla Cecenia e dal Daghestan, e i fondamentalisti del mondo
arabo e sudestasiatico. Oltre al «grande Satana" americano, gli
avversari sono Israele, la Russia, l'Iran e il movimento di opposizione
afghana, l'Alleanza del Nord, guidato da Alimed Shah Massud, ferito da due
finti giornalisti il 9 settembre e morto qualche giorno dopo. dall'Africa alle Twin TowersDurante
la seconda metà degli anni 90 si concretizza l'opposizione degli Stati
Uniti all'Afghanistan, in seguito all'aumento delle coltivazioni di oppio,
al trattamento sempre più repressivo delle donne e, dal 1997 in poi,
all'accoglienza offerta a Osama bin Laden. Nel
febbraio del 1998 bin Laden preannuncia la sua campagna di terrore
attraverso una fatwa (direttiva religiosa, ndr.) che viene pubblicata a
Londra sul giornale «al Quds-al-Arabi». Nonostante egli non abbia lo
status formale di un vero leader spirituale, la fatwa è controfirmata da
quattro leader fondamentalisti, due dei quali sono rappresentanti della
jihad islamica in Egitto, uno in Pakistan e uno in Bangladesh, La fatwa
pronunciata dal cosiddetto "Fronte Mondiale Islamico" dichiara
la guerra agli Stati Uniti e chiama i fedeli a «confrontare, combattere e
uccidere gli americani e suoi alleati militari e civili» come atto di
autodifesa contro l'aggressione delle forze ostili all'Islam. La guerra
santa sarebbe giustificata dal complotto cristiano-ebraico che mirerebbe
alla totale de-islamizzazione della penisola arabica e dall'occupazione
dei luoghi sacri islamici, come la moschea al Aqsa di Gerusalemme. Dalle
parole si passa ai fatti: il 7 agosto del 1998 due attacchi contro le
ambasciate americane in Tanzania e in Kenia provocano 257 morti e migliaia
di feriti, ma la maggior parte delle vittime sono africani molti dei quali
di fede islamica. Le azioni, anche se non rivendicate, vengono attribuite
all'organizzazione di bin Laden, al Qaeda (la base). La risposta
statunitense non tarda ad arrivare: il 20 agosto gli USA bombardano una
presunta fabbrica per le armi chimiche in Sudan che poi si rivela essere
un'ordinaria fabbrica di medicinali e una base di bin Laden in territorio
afghano. Gli americani premono affinché l'Afghanistan consegni bin Laden,
e, quando il regime talebano rifiuta, riescono a promuovere una
risoluzione dell'ONU che impone strette sanzioni per il paese, isolandolo
e creando difficoltà per la sopravvivenza di gran parte della
popolazione. Nell'ottobre del 2000 un attacco suicida contro la nave da
guerra USS Cole, ad Aden nello Yemen, provoca la morte di 17 marinai e il
ferimento di altri 39. Da questo momento bin Laden è il nemico numero uno
dell'America. il boom dell'oppioLa
coltivazione del papavero da oppio costituisce un filo conduttore che
attraversa tutta la tormentata storia afghana da oltre un secolo. Quando
la Gran Bretagna intervenne per la prima volta in Afghanistan, uno dei
prodotti più lucrosi della colonia indiana che gli inglesi volevano
proteggere era proprio l'oppio, che veniva trasportato in Cina e importato
(contro gli ordini del regime cinese) per controbilanciare l'esportazione
delle grandi quantità di tè dalla Cina all'Inghilterra. Tra le truppe di
occupazione sovietica, molti soldati cominciarono a fare uso di oppio, e
tornarono in patria tossicodipendenti un fenomeno simile a ciò che
avvenne con molti marines statunitensi durante la guerra del Vietnam. La
coltivazione del papavero resta nelle mani della popolazione indigena
durante l'occupazione, ma non sembra essere stato un pilastro
dell'economia militare dei mujaheddin nella lotta contro i sovietici,
perché i finanziamenti erano già assicurati dagli USA, dal Pakistan e
dall'Arabia saudita. Secondo uno studio condotto nel 1995 dall'UNDCP
(l'ufficio dell'ONU che si occupa di lotta alla droga), fino al 1978 l'85%
della popolazione afghana abitava la campagna, coltivando soprattutto il
grano con l'aiuto di sistemi di irrigazione. La guerra contro i sovietici
devasta l'intera economia e porta allo spopolamento rurale: la metà dei
villaggi viene bombardata, spingendo i contadini verso le città. La
popolazione urbana aumenta dal 15 al 24%, un terzo della popolazione
scappa oltre confine, il 9% viene ucciso: i profughi all'interno dello
stesso Afghanistan rappresentano l'11% della popolazione. Per i contadini
rimasti l'oppio diventa uno dei pochi mezzi di sostegno e di
sopravvivenza: rende tre volte di più del grano, resiste all'inflazione
ed è un prodotto molto duraturo e robusto un fattore importante, dopo che
il 60% delle strade è stato danneggiato e il trasporto dalla campagna ai
mercati è precario. Durante gli anni della guerra l'oppio viene coltivato
sul terreno migliore e con la migliore irrigazione. La coltivazione, che
non è in mano ad un singolo gruppo etnico ma ad afghani di diverse etnie,
aumenta di oltre il 1200% tra il 1978 e il 1994. Il boom della produzione
prosegue con l'arrivo dei talebani fino al 1999, quando da solo
l'Afghanistan produce il 79% dell'oppio illecito a livello mondiale, quasi
tutto sotto il controllo dei talebani che, secondo alcune stime, impongono
tasse per una rendita totale di 30 milioni di dollari all'anno. terrore globaleLa
comunità internazionale viene colta dì sorpresa quando, nel luglio del
2000, i talebani emettono un decreto che vieta totalmente la coltivazione
dell'oppio per ragione di stretta osservanza della legge islamica. Si
tratta ora di capire, come suggerisce Lucia Vastano dove sono finite le
scorte accumulate negli ultimi anni. Osama
bin Laden è forse uno dei primi protagonisti della lotta armata
post-comunista a rendersi conto delle possibilità aperte dalla
globalizzazione. I gruppi da lui appoggiati sono networks strutturati in
maniera fluida, con scarsa formalizzazione di ruoli, gerarchie e
procedure. Operano in strutture di composizione mista, comprendendo membri
"in sonno" persone insospettabili, munite di passaporto o di
regolare permesso di soggiorno, che agiscono dopo alcuni anni di vita
irreprensibile e agenti transitori, confluiti nel gruppo per un'azione
precisa e che spariscono subito dopo. Unico nel panorama terroristico, bin
Laden opera al di fuori di un contesto politico geografico nazionale e
senza distinzione di nazionalità. Gli esperti ritengono che egli non sia
necessariamente al corrente di ogni azione da lui ispirata o finanziata,
ma funge da facilitatore, responsabile per l'indirizzo e il bersaglio
generale delle azioni, lasciando ad ogni gruppo la scelta di dove e come
colpire. Se davvero la sua rete dispone di cellule nascoste in ben 60
paesi del mondo, compresi come ritiene la CIA 200/300 individui nei paesi
dell'Unione Europea, non sarà facile sradicarla. Una
generica dichiarazione di "guerra al terrorismo" non sembra
essere necessariamente una strategia vincente né saggia. E’ giusto,
certamente, identificare, processare e condannare i responsabili, ma
bisogna anche comprendere le vere radici del problema per poter estirpare
i moltissimi focolai di fondamentalismo estremista che esistono in tutto
il mondo. Se
non si comincia ad aiutare i musulmani moderati a isolare l'estremismo,
confrontandoci anche seriamente con i rapporti Israele-Palestina, si
rischia di fomentare nuovi martiri e nuove guerre facendo cosi esattamente
il gioco di Osama bin Laden. la guerra e le angosce dei bambini di
Rito Cristofori I
grattacieli erano stati distrutti tante volte, i nemici annientati in
massa poi, con la nuova partita, tutto riviveva come prima e non era
successo niente. L’11 settembre scorso, invece, le immagini drammatiche
provenienti dagli Stati Uniti sono rimaste le stesse, si sono ripetute
sugli schermi senza lasciare spazio alle incertezze. Non era un
videogioco, era la realtà. Le Torri trafitte dagli aerei, il crollo, la
paura e l'insicurezza nelle parole di tutti. Il bambino si ritrova
smarrito, spogliato della sua rassicurante realtà virtuale. Allora chiede
alla mamma, al papà, al maestro. Alcuni alzano la cornetta e digitano
l'19696 di Telefono Azzurro. Cosa sta succedendo? Cosa deve ancora
accadere?». I bambini sono sottoposti, e continueranno a esserlo dopo
l'inizio dei bombardamenti, a sovrastimolazioni su tematiche di
distruttività e di morte. «Occorre parlare con loro. Riformulare la
lettura della realtà. Ricollocare le angosce, adottando il nostro lingua
al loro livello di comprensione» ha sottolineato il Prof. Caffo,
presidente di Telefono Azzurro. «è opportuno tutelare i più piccoli da
immagini invasive e notizie fornite in modo ansiogeno. Con gli adolescenti
è bene condividere il problema della guerra, avviare una riflessione non
semplificata». Le linee telefoniche di Telefono Azzurro stanno ricevendo
molte chiamate prevalentemente da adolescenti in preda all'ansia. Ragazzi
e ragazze tra i 13 e i 16 anni ' che vogliono confrontarsi con esperti su
quanto è accaduto, su come loro e gli altri lo stanno vivendo. Entrambi i
sessi sono accomunati da vissuti emotivi forti, rispetto ai quali sentono
il bisogno di essere ascoltati e rassicurati. Cliccando
sul sito di Telefono Azzurro www.azzurro.it
sezione news si accede ad una pagina web che contiene il
dossier "Aiutiamo i bambini a capire la guerra". Un modo per
aiutare gli adulti a riconoscere i sintomi del trauma. Qualora i bambini
non parlassero, non bisogna fidarsi dei silenzio, non fermarsi sul ciglio
delle parole. il disagio, la paura, usano a volte un linguaggio
particolare che va interpretato. UN
MONDO SICURO PERCHÉ VERAMENTE UMANO di
Leoluca Orlando Attraverso
il fumo delle torri gemelle di Manhattan e oltre le lacrime per il dolore
di tante vittime di un'inaudita arcaica-moderna violenza, abbiamo visto
comparire la sagoma di una divinità pagana rassicurante e brutale,
arcaica modema essa stessa: la dea Sicurezza. E’
misurabile necessariamente in secoli il tempo che separa il giorno 11
settembre 2001 da altri (quali?) giorni vissuti dall'umanità parimenti
gravidi di complessità di analisi e potenzialità di effetti. Mai,
come in quelle ore, tanta parte dell'umanità si è sentita americana,
partecipe di un dolore e di un desiderio di verità e giustizia così
forte. Mai come in quelle ore il popolo e le istituzioni pubbliche e
private degli Stati Uniti d'America hanno avuto, in ragione del terribile
dolore patito, una così grande capacità di incidere su sorrisi, stili di
vita, valori dell'umanità: altro che Coca Cola, altro che New Deal,
altro che Piano Marshall, altro che imperialismo, altro che egemonia
economico culturale militare! Un
paese potente che conosce un così terribile dolore, che piange, diventa
umanamente più credibile, diventa ancora più forte. Tutti
noi, nessuno escluso, in quei giorni abbiamo ripetuto che l’11 settembre
era lo spartiacque tra un prima e un dopo; era la data dopo la quale nessuno
e nulla sarebbe stato come prima in una larghissima parte del mondo. E
il popolo americano (l'umanità tout court) si è trovato davanti al
progetto criminale del giorno 11 settembre nello stesso stato d'animo nel
quale ci siamo tante volte trovati davanti alle stragi di mafia. Chi
è responsabile? La mafia! E chi? Non si sa! Ma il capo della mafia è Totò
Riina! Allora chi è responsabile? Totò Riina!... e null'altro si
diceva (né interessava dire) su altri aspetti e su altre responsabilità
concorrenti. Chi
è responsabile dell'attacco aereo in terra americana? Il fondamentalismo
islamico! E chi? Non si sa! Ma il personaggio più significativo è Osama
bin Laden! Allora chi è responsabile? Osama
bin Laden!... e
null'altro si dice (né interessa dire) su altri aspetti e su altre
responsabilità concorrenti. A
Palermo è questo ciò che alla fine spero resterà e continuerà ad
esistere pur nel mutare delle stagioni e delle politiche abbiamo
dimostrato in questi anni che è stato possibile contrastare l'inciviltà
e la barbarie della mafia senza diventare incivili e barbari, senza
costruire divinità pagane, senza cedere alla tentazione, in nome della
Sicurezza, di rispondere alla violenza con la violenza. Abbiamo
costruito oltre la legalità (che è fredda applicazione della legge), la
cultura della legalità (che è rispetto per la persona umana). La
sepoltura a Palermo di un criminale americano condannato a morte può cosi
tornare ancora una volta carica di segni, come l'invocazione di un forte
bisogno di umanità. E
mille e mille sono gli atti, i piccoli grandi gesti che in questi anni
hanno costruito a Palermo un patrimonio di umanità che dovrebbe superare
le angustie delle stagioni e le contrapposizioni politiche. La
globalizzazione porta con sé la fine delle guerre tradizionali fra Stati;
la fine delle guerre tradizionali fra Stati promuove lo sviluppo della
globalizzazione. E’ certamente la fine delle guerre tradizionali. Ma non
è la fine della violenza, dell'uso di energie fisiche e tecniche per
sconfiggere, per vincere, per uccidere. Il
terrorismo, da sempre considerato figlio di un dio minore rispetto alla
guerra, assume una dimensione egemonica impensabile fino a poco tempo fa.
Mille e una implicazioni. Una
prima. Il
più potente Stato del mondo potè subito riconoscere, dai contrassegni
sulle fusoliere degli aerei, che l'attacco a Pearl Harbour era stato
sferrato dall'impero giapponese. Lo stesso più potente Stato del mondo
dopo parecchi giorni non era ancora in condizione di individuare con
chiarezza il responsabile di un attacco che ha colpito nel cuore del suo
stesso territorio persone umane, luoghi simbolici, beni economici
incommensurabilmente più grandi di quelli colpiti a Pearl Harbour. Una
seconda. Il
Pentagono, il luogo simbolo degli eserciti costruiti per guerre fra Stati,
è stato colpito da un aereo di linea dopo un'ora dal primo attacco alle
torri gemelle senza che vi fosse un solo atto di difesa, una sola reazione
militare da parte americana. Se si fosse verificato (come tante volte è
accaduto in passato) un attacco dieci volte meno dannoso nei riguardi di
una sede diplomatica o di un centro militare statunitense nel Golfo
Persico o nel Mediterraneo, nei Caraibi o nel Pacifico, vi sarebbe stata
certamente (come tante volte è stato in passato) una reazione immediata.
Aerei, missili, incrociatori ovunque nel mondo... Ma neanche una
mitraglietta a difesa del Pentagono che governa quegli aerei, quei
missili, quegli incrociatori. Una
terza. Non
è più la guerra il modello per le violenze criminali ma è il terrorismo
il modello per quanti fanno ricorso alla violenza per sconfiggere, per
vincere, per uccidere. Le bande criminali in passato si comportavano
imitando tecniche, gerarchie, modalità d'azione, strategie militari; da
qualche tempo ‑ e dal giorno 11 settembre con un riferimento
simbolicamente altissimo ‑ tecniche, gerarchie, modalità d'azione,
strategie terroristiche sono il nuovo modello delle bande criminali. Una
quarta. Stanno
insieme fondamentalismo "orientale" sino all'autodistruzione e
tecnica "occidentale" sino alla "umana perfezione".
Tecnica "occidentale" nei grattacieli distrutti, ma tecnica
"occidentale" anche nell'organizzazione e nella realizzazione
del progetto criminale. Un incontro-scontro tra civiltà, tra edifici
"occidentali" e aerei "occidentali", ma abitati gli
uni da uno stile di vita "occidentale" e gli altri guidati da
una concezione della vita emblematicamente "orientale". Cosi
si presenta la figura di un "orientale" terrorista suicida con
un bagaglio tecnico da sofisticato manager di una multinazionale
dell'informatica o dell'aeronautica. Occidente
e Oriente possono essere posti in contrasto soltanto per quanti inseguono
dissennate guerre sante tanto ad Est quanto ad Ovest; ma sono "guerre
sante" destinate a sfaldarsi perché evoluzione tecnica e stile di
vita tendono a contaminarsi, a fondersi: il meticciato tra tecnica
(ritenuta fredda) e stile di vita (ritenuto caldo) da sempre segna la
storia dell'umanità. Una
quinta... La
dea Sicurezza. Sull'altare di questa divinità pagana del terzo millennio
rischiano di esser portati in offerta sacrificale valori quali la
solidarietà e la vita, la coscienza civile e la tolleranza... In
nome della Sicurezza malamente intesa e distortamente utilizzata, pena di
morte e legge del taglione, aggressività e intolleranza, armamento
privato e ostilità pregiudiziali, rischiano di modificare la nostra
stessa vita, il modo di essere e di vivere dell'umanità. La
sicurezza è una condizione, non è un valore: valori sono l'umanità, la
solidarietà, la vita. Per realizzare una condizione di sicurezza non
bisogna disperdere il valore dei valori: il rispetto della persona umana. Il
nazismo riteneva che vi fosse un valore supremo (la coscienza collettiva
del popolo) e costituiva un sistema di diritti legati alla coscienza
collettiva del popolo (e tali diritti si esprimevano con la parola forse
più lunga della lingua tedesca: Volksgemeineschqftgebundenerechte). E Fúhrer
aveva il compito di individuare, interpretare e promuovere tali diritti.
Su tali basi, sul fondamento di un valore metastorico e metagiuridico
quale la coscienza collettiva del popolo tedesco, si è consumata la
vergogna dell'umanità nel XX secolo. Dio non voglia, il Dio dei cristiani
come Jahvé, Allah come ogni altra divinità, non voglia che il terzo
millennio possa vedere l'affermazione in chiave di valore egemone di una
divinità pagana: la Sicurezza. Che
ciò non accada dipende da noi, dipende dalle donne e dagli uomini del
pianeta. Qui e ora. Oggi dipende in larga misura dalle scelte del popolo
americano... Dalle scelte che faremo anche con il popolo americano, tutti
insieme se siamo convinti che il terribile attacco dell'11 settembre sia
stato subito dall'umanità intera e non solo dal popolo americano. Dividiamo insieme, amici americani, le lacrime del dolore e la costruzione di un mondo non più e non mai disumano perché sicuro, ma finalmente sicuro perché veramente umano. |
![]() |
IL SOLDATO DI VENTURA E IL MEDICO AFGHANO PESHAWAR
- Sono venuto in questa città di frontiera per essere più vicino alla
guerra, per cercare di vederla coi miei occhi, di farmene una ragione; ma,
come fossi saltato nella minestra per sapere se è salata o meno, ora ho
l’impressione di affogarci dentro. Mi sento andare a fondo nel mare di
follia umana che, con questa guerra, sembra non avere più limiti. Passano
i giorni, ma non mi scrollo di dosso l’angoscia: l’angoscia di
prevedere quel che succederà e di non poterlo evitare, l’angoscia di
essere un rappresentante della più moderna, più ricca, più sofisticata
civiltà del mondo ora impegnata a bombardare il Paese più primitivo e più
povero della Terra; l’angoscia di appartenere alla razza più grassa e
più sazia ora impegnata ad aggiungere nuovo dolore e miseria al già
stracarico fardello di disperazione della gente più magra e più affamata
del pianeta. C’è qualcosa di immorale, di sacrilego, ma anche di
stupido - mi pare - in tutto questo. A tre settimane dall’inizio dei
bombardamenti anglo-americani dell’Afghanistan la situazione mondiale è
molto più tesa ed esplosiva di quanto lo fosse prima. I rapporti fra
israeliani e palestinesi sono in fiamme, quelli fra Pakistan e India sono
sul punto di rottura; l’intero mondo islamico è in agitazione e ogni
regime moderato di quel mondo, dall’Egitto all’Uzbekistan, al Pakistan
stesso, subisce la montante pressione dei gruppi fondamentalisti. Nonostante
tutti i missili, le bombe e le operazioni segretissime dei commandos ,
mostrateci in piccoli spezzoni del Pentagono, come per farci credere che
la guerra è solo un videogame, i talebani sono ancora saldamente al
potere, la simpatia nei loro confronti cresce all’interno
dell’Afghanistan, mentre diminuisce invece in ogni angolo del mondo il
senso della nostra sicurezza. «Sei
musulmano?», mi chiede un giovane quando mi fermo al bazar a mangiare una
focaccia di pane azzimo. «No». «Allora che ci fai qui? Presto vi
ammazzeremo tutti». Attorno tutti ridono. Sorrido anch’io. Lo
chiamano Kissa Qani, il «bazar dei raccontastorie». Ancora una ventina
d’anni fa, era uno degli ultimi, romantici crocevia dell’Asia pieno
delle più varie mercanzie e varie genti. Ora è una sorta di camera a gas
con l’aria irrespirabile per le esalazioni e le folle sempre più in mal
arnese a causa dei tantissimi rifugiati e mendicanti. Fra le vecchie
storie che ci si raccontavano c’era quella di Avitabile, un napoletano
soldato di ventura arrivato qui a metà dell’Ottocento con un amico di
Modena e diventato governatore di questa città. Per tenerla in pugno,
ogni mattina all’ora di colazione faceva impiccare un paio di ladri dal
minareto più alto della moschea e per decenni ai bambini di Peshawar è
stato detto: «Se non sei buono, ti do ad Avitabile». Oggi le storie che
si raccontano al bazar sono tutte sulla guerra americana. Alcune,
come quella secondo cui l’attacco a New York e Washington è stato opera
dei servizi segreti di Tel Aviv - per questo nessun israeliano sarebbe
andato a lavorare nelle Torri Gemelle l’11 settembre -, e quella secondo
cui l’antrace per posta è una operazione della Cia per preparare
psicologicamente gli americani a bombardare Saddam Hussein, sono già
vecchie, ma continuano a circolare e soprattutto a essere credute.
L’ultima è che gli americani si sarebbero resi conto che con le bombe
non riescono a piegare l’Afghanistan e hanno ora deciso di lanciare
sacchi pieni di dollari sulla gente. «Ogni missile costa due milioni di
dollari. Ne hanno già tirati più di cento. Pensa: se avessero dato a noi
tutti quei soldi, i talebani non sarebbero più al potere», dice un
vecchio rifugiato afghano, ex comandante di un gruppo di mujaheddin
anti-sovietici, venuto a sedersi accanto a me. L’idea
che gli americani son pieni di soldi e disposti a essere generosi con chi
sia disposto a schierarsi dalla loro parte è diffusissima. Giorni fa
alcune centinaia di capi religiosi e tribali della comunità afghana in
esilio si sono riuniti in un grande anfiteatro nel centro di Peshawar per
discutere del futuro dell’Afghanistan «dopo i talebani». Per ore e ore
dei bei, barbutissimi signori - ottimi per i primi piani delle televisioni
occidentali - si sono avvicendati al microfono a parlare di «pace e unità»,
ma nei loro discorsi non c’era alcuna passione, non c’era alcuna
convinzione. «Son qui solo per registrare il loro nome e cercare di
raccogliere fondi americani», diceva un vecchio amico, un intellettuale
pakistano, di origine pashtun come quella gente. «Ognuno guarda l’altro
chiedendosi "e tu quanto hai già avuto?". Quel che gli
americani dimenticano è un nostro vecchio proverbio: un afghano si
affitta, ma non si compra». Per gli
americani la riunione di Peshawar era il primo importante passo per quella
che, sulla carta, pareva loro la ideale soluzione politica del problema
afghano: far tornare il re Zahir Shah, installare a Kabul un governo in
cui tutti fossero rappresentati - compresi alcuni capi talebani moderati -
e mandare l’esercito del nuovo regime a caccia degli uomini di Al Qaeda,
risparmiando così il lavoro e i rischi ai soldati della coalizione. Ma le
soluzioni sulla carta non sempre funzionano sul terreno, specie quando
questo terreno è l’Afghanistan. Già
l’idea che il vecchio re del passato, in esilio a Roma da trent’anni,
possa ora giocare un ruolo nel futuro del paese è una illusione di chi
crede di poter rifare il mondo a tavolino, è una pretesa di quei
diplomatici che non escono dalle loro stanze ad aria condizionata. Basta
andare fra la gente per rendersi conto che il vecchio sovrano non gode di
quel prestigio che le cancellerie occidentali - specie quella italiana -
gli attribuiscono e che il suo non essersi mai fatto vedere, il suo non
aver mai visitato un campo di rifugiati viene preso come una indicazione
di indifferenza per la sofferenza del suo popolo. «Bastava che al tempo
dell’invasione sovietica si fosse fatto fotografare con un fucile in
mano ed avesse sparato un colpo in aria. Oggi lo rispetterebbero - dice
l’amico - ... e poi, poteva almeno l’anno scorso essere andato in
pellegrinaggio alla Mecca, il che, coi tempi che corrono, gli avrebbe dato
un po’ di rilievo anche dal punto di vista religioso». A parte
il re, l’altro uomo su cui gli americani contavano per il loro gioco era
Abdul Haq, uno dei più prestigiosi comandanti della resistenza
anti-sovietica, tenutosi poi fuori dalla guerra civile che seguì. «Non
è qui. E’ andato in Afghanistan» si diceva durante la conferenza di
Peshawar, alludendo ad una «missione» che sarebbe stata decisiva per il
futuro. L’idea ovvia era che Abdul Haq, col suo prestigio e il suo
grande ascendente sui tanti vecchi mujaheddin alleatisi coi talebani,
avrebbe staccato dal regime del Mullah Omar alcuni comandanti regionali e
avrebbe potuto marciare su Kabul alla testa di gruppi pashtun quando la
capitale fosse stata presa dalla Alleanza del Nord, che i pashtun ed i
pakistani non vogliono assolutamente vedere al potere. La «missione»
di Abdul Haq non è durata a lungo. I talebani lo hanno seguito appena
quello è entrato in Afghanistan, dopo alcuni giorni lo hanno catturato e
nel giro di poche ore lo hanno giustiziato come un «traditore» assieme a
due suoi seguaci. Gli americani con tutta la loro attrezzatura elettronica
ed i loro super-elicotteri non sono riusciti a salvarlo. Il
presupposto di tutta questa manovra americana per una soluzione politica
era comunque che il regime dei talebani si sfaldasse, che sotto la
pressione delle bombe cominciassero le defezioni e che nel paese si
creasse un vuoto di potere. Ma tutto questo non è successo. Anzi. Ogni
indicazione è che i talebani sono ancora fermamente in carica. Catturano
giornalisti occidentali che si avventurano oltre la frontiera e fanno
sapere, per scoraggiare altri tentativi, di non avere più spazio, né
cibo per detenerne altri. «Le varie inchieste sono in corso. Verranno
tutti giudicati secondo la sharia, la legge coranica», dicono, come
farebbe un qualsiasi stato sovrano. I talebani passano decreti, fanno
comunicati per smentire notizie false e continuano a sfidare la
strapotenza americana non cedendo terreno e promettendo morte agli afghani
che si schierano con il nemico. Non
solo. Il fatto che i talebani siano ora attaccati da degli stranieri, fa sì
che anche chi aveva poca o nessuna simpatia per il loro regime, ora si
schiera dalla loro parte. «Quando un melone vede un altro melone, ne
prende il colore», dicono i pashtun. Dinanzi agli stranieri, visti di
nuovo come invasori, gli afghani diventano sempre più dello stesso
colore. Per gli
americani, già sotto enorme pressione internazionale per la stupidità
delle loro bombe intelligenti che continuano a cadere su gente inerme e di
nuovo sui magazzini della Croce Rossa, la guerra aerea s’è rivelata un
completo fallimento, quella politica uno smacco. Avevano
cominciato la campagna afghana dicendo di volere Osama Bin Laden, «vivo o
morto», e hanno presto ripiegato sul voler catturare o uccidere il Mullah
Omar, capo dei talebani, sperando che questo avrebbe fatto vacillare il
regime, ma finora quel che son riusciti a fare, oltre a qualche centinaio
di vittime civili, è terrorizzare la popolazione delle città già
ridotte a macerie. Le Nazioni Unite calcolano che le bombe hanno fatto
fuggire da Kandahar, Kabul e Jalalabad il 75% degli abitanti. Questo
vuol dire che almeno un milione e mezzo di persone sono ora senza tetto,
si aggirano nelle montagne del paese e si aggiungono ai sei milioni che,
sempre secondo le Nazioni Unite, erano già «a rischio» per mancanza di
cibo e protezione prima dell’11 settembre. «Quelli
sono gli innocenti di cui dobbiamo occuparci - dice un funzionario
internazionale -. Quelli che non hanno nulla a che fare col terrorismo,
quelli che non leggono i giornali, che non guardano la Cnn. Molti di loro
non sanno neppure che cosa è successo alle Torri Gemelle». Quel
che tutti sanno invece è che bombe, le bombe che giorno e notte
distruggono, uccidono e scuotono la terra come in un costante terremoto,
le bombe sganciate dagli aerei d’argento che piroettano nel cielo di
lapislazzulo dell’Afghanistan, sono bombe inglesi e americane e questo
coagula l’odio dei pashtun, degli afghani e più in generale dei
musulmani contro gli stranieri. Ogni giorno di più l’ostilità è ovvia
sulla faccia della gente. Ero
andato al bazar perché volevo vedere quanti avrebbero partecipato alla
manifestazione pro-talebani che si tiene di routine nella vecchia Peshawar
dopo la preghiera di mezzo giorno, ma l’amico pashtun mi aveva avvertito
che il numero dei dimostranti non vuol dire ormai nulla. «I duri non
marciano più, si arruolano. Vai nei villaggi», m’aveva detto. L’ho
fatto e per un giorno e una notte, in compagnia di due studenti
universitari che in quella regione sembrava conoscessero tutti e tutto, ho
gettato uno sguardo su un mondo la cui distanza dal nostro non è
misurabile in chilometri, ma in secoli: un mondo che dobbiamo capire a
fondo se vogliamo evitare la catastrofe che ci sta davanti. La
regione in cui sono stato è a due ore di macchina da Peshawar, a mezza
strada dal confine afghano-pakistano. Per le popolazioni di qui la
frontiera - anche quella stabilita a tavolino oltre cento anni fa da un
funzionario inglese - non esiste. Dall’una
e dall’altra parte di quella innaturale divisione politica fra identiche
montagne vive un’identica gente: i pashtun (detti anche pathan) che in
Afghanistan sono la maggioranza, in Pakistan una minoranza. I pashtun,
prima che afghani o pakistani, si sentono pashtun e il sogno di un
Pashtunstan, uno stato che aggreghi tutti i pashtun non è mai
completamente tramontato. I pashtun sono i temuti guerrieri
dell’Afghanistan; sono loro che gli inglesi non riuscirono mai a
sconfiggere. «Un pashtun ama il suo fucile più di suo figlio - dicevano
dei loro nemici gli ufficiali di Sua Maestà -. Coraggiosi come leoni,
selvaggi come gatti, ingenui come bambini». I talebani sono pashtun e
quasi esclusivamente pashtun sono le zone in cui ora cadono le bombe
americane. «Mio padre è sempre stato un liberale e un moderato, ma dopo
i bombardamenti anche lui parla come un talebano e sostiene che non c’è
alternativa alla jihad», diceva uno dei miei studenti, mentre lasciavamo
Peshawar. La
strada correva fra piantagioni di canna da zucchero. In lontananza le
prime montagne. Sui muri bianchi che dividono i campi, spiccavano grandi
slogan dipinti di fresco. «La jihad è il dovere della nazione», «Un
amico degli americani è un traditore», «La jihad durerà fino al giorno
del giudizio». Il più strano era: «Il profeta ha ordinato la jihad
contro l’India e l’America». Nessuno
qui si chiede se al tempo del Profeta, mille e quattrocento anni fa,
l’India e l’America esistessero già. Ma è appunto questa accecante
mistura di ignoranza e di fede a essere esplosiva ed a creare, attraverso
la più semplicistica e fondamentalista versione dell’Islam, quella
devozione alla guerra e alla morte con cui abbiamo deciso, forse un po’
troppo avventatamente, di venirci a confrontare. «Quando
uno dei nostri salta su una mina o viene dilaniato da una bomba, prendiamo
i pezzi che restano, i brandelli di carne, le ossa rotte, mettiamo tutto
nella stoffa di un turbante e seppelliamo quel fagotto lì, nella terra.
Noi sappiamo morire, ma gli americani? Gli inglesi? Sanno morire così?».
Dal fondo della stanza un altro uomo barbuto, ricordandosi da dove,
presentandomi, ho detto di venire, apre un giornale in Urdu e ad alta voce
legge una breve notizia in cui si dice che anche l’Italia si è offerta
di mandare navi e soldati e il mio interlocutore personalizza la sua
sfida: «...e voi italiani allora? Siete pronti a morire così? Perché
anche voi venite qui a uccidere la nostra gente, a distruggere le nostre
moschee? Che direste se noi venissimo a distruggere le vostre chiese, se
venissimo a radere al suolo il vostro Vaticano?». Siamo in una sorta di
rudimentalissimo ambulatorio in un villaggio a qualche decina di
chilometri dal confine afghano. Negli scaffali polverosi ci sono delle
polverose medicine; al muro una bandiera verde e nera con al centro un
sole in cui è scritto «Jihad». Attorno al «dottore» che mi parla si
sono riuniti una decina di giovani: alcuni sono veterani della guerra,
altri ci stanno per andare. Uno è appena tornato dal fronte e racconta
dei bombardamenti. Dice
che gli americani sono codardi perché sparano dal cielo, scappano e non
osano combattere faccia a faccia. Dice che il Pakistan impedisce ai
profughi di entrare nel paese e che tanti civili, feriti nei bombardamenti
di Jalalabad, muoiono ora dall’altra parte del confine per mancanza
delle più semplici cure. L’atmosfera
è tesa. Qui, ancora più che al bazar, tutti sono assolutamente convinti
che quella in corso è una grande congiura-crociata dell’Occidente per
distruggere l’Islam, che l’Afghanistan è solo il primo obbiettivo e
che l’unico modo di resistere è per tutto il mondo islamico di
rispondere all’appello per la guerra santa. «Vengano pure gli
americani, così ci potremo procurare delle buone scarpe, togliendole ai
cadaveri - dice uno dei giovani - a voi la guerra costa tantissimo. A noi
nulla. Non sconfiggerete mai l’Islam». Come
non rendersi conto che per combattere il terrorismo siamo venuti a
uccidere innanzitutto degli innocenti e con ciò ad aizzare ancor più un
cane che giaceva? Come non vedere che abbiamo fatto un passo nella
direzione sbagliata, che siamo entrati in una palude di sabbie mobili e
che con ogni altro passo finiremo solo per allontanarci sempre di più
dalla via di uscita? Dopo la conversazione con i fanatici della jihad,
quella fra me e me è continuata per il resto della notte, passata insonne
a tenermi lontano le zanzare. Certo che non è invidiabile una società
come quella che produce dei ragazzi così ottusi e disposti a morire. Ma
lo è forse la nostra? Lo è quella americana? Che accanto agli eroici
pompieri di Manhattan, produce anche gente come il bombarolo di Oklahoma
City, gli attentatori alle cliniche abortiste e forse anche quelli che -
il sospetto cresce - mettono l’antrace nelle buste spedite a mezzo
mondo? Quella su cui avevo appena gettato uno sguardo era una società
carica d’odio. Ma è da meno la nostra che ora, per vendetta o magari
davvero per mettere le mani sulle riserve naturali dell’Asia Centrale,
bombarda un paese che vent’anni di guerra han già ridotto ad una
immensa rovina? Possibile che per proteggere il nostro modo di vivere, si
debbano fare milioni di rifugiati, si debbano far morire donne e bambini?
Per favore, vuole spiegarmi qualcuno esperto in definizioni, che
differenza c’è fra l’innocenza di un bambino morto nel World Trade
Center e quella di uno morto sotto le bombe a Kabul? La verità è che
quelli di New York, sono i «nostri» bambini, quelli di Kabul invece,
come gli altri centomila bambini afgani che, secondo l’Unicef, moriranno
quest’inverno se non arrivano subito dei rifornimenti, sono i bambini «loro».
E quei bambini loro non ci interessano più. Non si può ogni sera,
all’ora di cena, vedere sullo schermo della tv di casa un piccolo
moccioso afghano che aspetta di avere una pagnotta. Lo si è già visto
tante volte; non fa più spettacolo. Anche a questa guerra ci siamo già
abituati. Non fa più notizia e i giornali richiamano i loro
corrispondenti, le televisioni riducono i loro staff, tagliano sui
collegamenti via satellite dai tetti degli alberghi a cinque stelle di
Islamabad. Il circo va altrove, cerca altre storie, l’attenzione è già
stata anche troppa. Eppure
l’Afghanistan ci perseguiterà perché è la cartina di tornasole della
nostra immoralità, delle nostre pretese di civiltà, della nostra
incapacità di capire che la violenza genera solo violenza e che solo una
forza di pace e non la forza della armi può risolvere il problema che ci
sta dinanzi. «Le
guerre cominciano nella mente degli uomini ed è nella mente degli uomini
che bisogna costruire la difesa della pace», dice il preambolo della
costituzione dell’Unesco. Perché non provare a cercare nelle nostre
menti una soluzione che non sia quella brutale e banale di altre bombe e
di altri morti? Abbiamo sviluppato una grande conoscenza, ma non appunto
quella della nostra mente, e ancor meno quella della nostra coscienza, mi
dicevo insonne tentando sempre di scacciare le zanzare. La
notte è fortunatamente breve. Alle quattro la voce metallica di un
altoparlante comincia a salmodiare dall’alto di un minareto vicino;
altre rispondono in lontananza. Partiamo. Nella
hall dell’albergo dove arrivo a fare colazione è già accesa la
televisione. La prima notizia, all’alba, non è più la guerra in
Afghanistan, ma l’annuncio fatto a Washington del «più grande
contratto di forniture belliche nella storia del mondo». Il
Pentagono ha deciso di affidare alla Lockheed Martin la costruzione della
nuova generazione di sofisticatissimi aerei da caccia: 3.000 pezzi per un
valore iniziale di 200 miliardi di dollari. Gli aerei entreranno in
funzione nel 2012. Per
bombardare chi? Mi chiedo. Penso ai ragazzini della madrassa che nel 2012
avranno giusto vent’anni e mi torna in mente una frase dell’invasato
«dottore»: «Se gli americani vogliono combatterci per quattro anni, noi
siamo pronti, se vogliono farlo per 40 anni siamo pronti. Per 400, siamo
pronti».
|
![]() |
IL PROFETA GUERRIERO E QUEL TE NEL BAZAR di Tiziano Terzani QUETTA (Pakistan) - Scrivo queste
righe da una modesta locanda affacciata sul grande bazar della città dove
una medioevale folla di uomini barbuti e inturbantati, avvolti nella
moderna foschia azzurrognola delle esalazioni di autobus e motorini, si
mescola a ciuchi, cavalli, barrocci e carretti. La frontiera afgana è a
un centinaio di chilometri e questa città, acquattata in una conca di
spigolose, brulle montagne grigio-rosa, è una delle spiagge sulle quali
si abbattono le onde della guerra vicina lasciandosi dietro i soliti resti
umani del naufragio: i profughi, gli orfani, i feriti, i mendicanti. Non si fanno due passi senza
essere accostati da mani s carne e supplicanti, da sguardi vuoti di donne
dietro il burqa. Sono riuscito a trovare una camera qui perché il «turista»
americano che la occupava è partito una mattina per l' Afghanistan e non
è più tornato. La prima versione della sua scomparsa è stata che i
talebani lo avevano arrestato e impiccato come agente Cia. Un'altra che è
stato ucciso in uno scontro a fuoco. I talebani hanno semplicemente
detto che il cadavere era all' ospedale di Kandahar e chi voleva poteva
andare a prenderselo. Nessuno l'ha fatto e il padrone della locanda ha
riaffittato la stanza. Secondo lui l'americano si faceva chiamare
maggiore, parlava una paio di lingue locali e mostrava bei rotoli di
dollari. Chi sa chi era davvero e come sono andate le cose. Anche di una
piccola storia così è ormai diventato impossibile stabilire i fatti. Già, i fatti. Tutta la vita ci
son corso dietro convinto che lì - nei fatti accertati e sicuri - avrei
trovato una qualche verità. Ora, a 63 anni, dinanzi a questa guerra
appena cominciata e con l'inquietante presentimento di quel che seguirà,
mi pare che i fatti sono solo un' apparenza e che la verità dentro di
loro è al massimo come una bambola russa: appena la si apre se ne trova
una più piccola ed ancora una più piccola, ed ancora una più piccola
fino a che si resta con un minuscolo seme. Frastornati dai dettagli di tanti
fatti perdiamo sempre di più il senso dell' insieme. A che serve essere
informati ora per ora sulla caduta di Mazar-i-Sharif e di Kabul quando
queste ci sono presentate come «vittorie» e non ci rendiamo conto che,
come umanità, stiamo comunque subendo alcune terribili sconfitte: quella
di ricorrere ancora alla guerra come soluzione dei conflitti e quella di
rifiutare la nonviolenza come la più grande prova di forza. E' un vecchio detto che in tutte
le guerre la verità è la prima a morire. In questa, la verità non ha
fatto neppure in tempo a nascere. Spie, informatori, millantatori e
mestatori pullulano ormai ovunque, specie in una città di frontiera come
questa, ma il loro ruolo è diventato marginale. Quelli che davvero
contano in questa guerra sono gli spindoctor, gli esperti in
comunicazioni, gli addetti alle pubbliche relazioni. Sono loro ad
offuscare il fondo di inutilità di questa guerra e ad impedire così all'
opinione pubblica del mondo, specie quella dell' Europa, di prendere una
posizione morale e creativa in proposito. Un gruppo di questi
scienziati-illusionisti è appena venuto da Washington a stabilirsi ad
Islamabad per «gestire» le centinaia di giornalisti stranieri ora in
Pakistan; un superesperto del ristretto gruppo che fino a ieri lavorava
alla Casa Bianca è andato a stabilirsi al numero 10 di Downing Street per
aiutare Tony Blair nel suo ruolo di imbonitore americano, quasi fosse lui
e non Colin Powell il Segretario di Stato. La verità di questa guerra
sembra essere così indicibile che ha costantemente bisogno di essere
impacchettata, di essere «gestita», di essere oggetto di una astuta
campagna di marketing. Ma così è diventato il nostro mondo: la pubblicità
ha preso il posto della letteratura, gli slogan ci colpiscono ormai più
della poesia e dei suoi versi. L'unico modo di resistere è
ostinarsi a pensare con la propria testa e soprattutto a sentire col
proprio cuore. Due settimane fa ho lasciato Peshawar ed in compagnia dei
miei due studenti di medicina, incontrati per caso, mi son messo in
viaggio per il Pakistan. L'idea era di prendere la temperatura di questo
«paese dei puri» (questo vuol dire Pakistan), nato nel 1947 dalla
spartizione dell' Impero inglese in India per dare una patria ai
musulmani, ed ora in prima linea di un conflitto in cui una delle tante
poste è la sua stessa sopravvivenza. L'idea era di vedere da vicino le
conseguenze della guerra in Afghanistan di cui gli americani continuano a
dire che «è solo la prima fase», per capire cosa succederà al resto
del mondo - il nostro mondo, il mondo di tutti - quando questa guerra da
qui si sposterà verosimilmente in Iraq, in Somalia, in Sudan, forse in
Siria, in Libano e chi sa ancora dove. Sono più di 60 i paesi in cui,
secondo Washington, si annidano i terroristi e chi non collaborerà con
gli Stati Uniti a snidarli sarà considerato un nemico. Possibile che in
Europa si siano levate così poche voci contro questa rigidità, quasi
suicida, dell'America? Possibile che l'Europa sia stata, dopo la verità,
l'altra grande vittima di questa guerra? In questo viaggio, per evitare la
trappola dei percorsi obbligati, predisposti dagli imbonitori, e quella
degli alberghi di lusso, ormai tutti adibiti a tenere occupata la «stampa
internazionale» con le quotidiane conferenze stampa, i comunicati e le
interpretazioni di ex ministri e generali in pensione, abbiamo deciso di
star lontani da tutto ciò che è ufficiale e di seguire la logica di
quell' unico filo che a volte può essere davvero magico: il caso. Così, passando da un incontro
casuale a un altro, abbiamo fatto centinaia di chilometri da un angolo
all' altro del paese, abbiamo parlato con decine di persone, abbiamo
assistito al più grande raduno di musulmani del mondo - se si esclude
quello dei pellegrini alla Mecca - ed alla fine abbiamo provocato un
ordine di arresto nei nostri confronti da parte del ministro degli Interni
del Baluchistan che ha sguinzagliato i suoi commando, per venirci a
ripescare nella cittadina di Chaman, sulla linea di confine con
l'Afghanistan, dove c'eravamo illusi di passare, inosservati, la notte. Il tutto è cominciato in una
casa da tè di quell' affascinante centro della vecchia Peshawar che
ancora è il Bazar dei racconta-storie. Seduto, accanto a noi, sulla
stuoia di paglia lisa e polverosa a bere kawa - un infuso di foglie non
fermentate - da picco li bricchi smaltati, neri di sporco e di
ammaccature, stava un uomo sui trent'anni con una barba foltissima e lo
sguardo stranamente dolce e fermo. Ci siamo guardati; ci siamo parlati ed
il pomeriggio è passato in un soffio con tutti gli altri avventori presto
in cerchio a seguire, coinvoltissimi, la nostra conversazione. Non so se tutto quel che Abu
Hanifah mi ha raccontato era vero, ma, da una serie di controlli fatti poi
con l'aiuto dei miei studenti, penso lo fosse. Diceva di essere nato « 35
o 37 anni fa» nella provincia di Ghazni in Afghanistan, di essere il
comandante di 250 talebani, di aver combattuto contro gli indiani in
Kashmir, di essere stato richiamato in Afghanistan dopo l'inizio dei
bombardamenti e di essere arrivato la s era prima in Pakistan con un
piccolo gruppo dei suoi per una missione. Gli ho chiesto tutto quel che uno
vorrebbe sapere dei talebani e le sue risposte erano pronte, precise e
politicamente informate come quelle un tempo di un commissario politico
cinese o vietcong. Diceva che le bombe e i missili non fanno loro paura («i
gusci dei Cruise già vengono usati per fare dei minareti»), che la
guerra comincerà sul serio solo quando le truppe americane scenderanno a
terra e che i talebani non potranno mai essere completamente eliminati
dall'Afghanistan perché «taleb vuol dire uno che ha studiato in una
madrassa e in ogni famiglia afghana c'è ormai uno come me». Diceva che anche la possibile
morte del mullah Omar, ora il capo dei talebani, non ca mbierà nulla; il
consiglio supremo dai saggi, la Shura, «è fatta di mille mullah Omar ed
ognuno di loro può succedergli». Diceva che ogni città, ogni villaggio
ha una struttura locale che rappresenta la Shura e che quella resterà in
piedi e sarà la v era autorità per la popolazione anche quando i
talebani, in certe fasi della guerra, dovessero essere costretti a cedere
terreno ai nemici per poi tornare ad attaccarli. Forse si illudeva, ma
sembrava convintissimo. L'impressione che ho avuto di
quell'uomo non era quella di un fanatico ignorante, imbevuto di
superstizione come i giovani jihadi che avevo incontrato nei villaggi
fuori Peshawar. Quelli credevano che le bombe americane sarebbero state
fermate da miracolose mani che al momento giusto apparivano in cielo.
Erano ottusi, indottrinati all'odio. Lui no. Sapeva che le armi degli
americani sono «formidabili», ma diceva che alla fine dei conti l'arma
più potente è quella della fede. Era riflessivo, informato sulle cose
del mondo, cosciente. Più che un miliziano, mi pareva un monaco d'un
ordine combattente, come da noi un tempo, forse, erano i Templari. Ho chiesto a Abu Hanifah come era
possibile per lui andare e venire in Pakistan, un paese prima legatissimo
ai talebani, ma or a schierato contro di loro ed alleato degli Stati
Uniti. Come era possibile per lui, ora «il nemico» della guerra contro
il terrorismo essere lì, in una città pakistana, a prendere apertamente
il tè con me? Ha riso lui ed han riso tutti quelli che avevamo attorno.
Questa è la realtà: nonostante l' ufficiale rovesciamento di fronte e la
drammatica presa di posizione del generale Musharraf a favore di
Washington, il Pakistan resta nel fondo estremamente ambivalente nei
confronti della guerra. Il governo di Islamabad sa che i
pashtun, sia quelli che vivono in Afghanistan sia quelli che vivono in
Pakistan, si considerano una unica nazione e che il rischio di
antagonizzarli è una guerra civile lungo i duemila chilometri della
frontiera. Il rischio crescerà se l'Afghanistan verrà praticamente
diviso in due con l'Alleanza del Nord in controllo di Kabul e delle
regioni settentrionali, comunque abitate da non-pashtun, ed i talebani in
controllo del Sud. Islamabad sa che, nonostante le recenti epurazioni
volute da Washington, l'intero apparato statale pakistano, specie quello
delle Forze Armate, è pieno di elementi che coi talebani sono legati a
doppio filo: li hanno concepiti, li hanno tenuti a battesimo e ne
condividono l'ideologia e la fede religiosa. Non è certo un caso che la notte
stessa in cui il generale Musharraf, su pressione degli americani, annunciò
la rimozione del capo dei suoi servizi segreti, un incendio distrusse
tutti i dossier riguardanti i talebani, le storie de i loro capi, le carte
delle loro postazioni, delle loro caverne. Se gli americani avessero messo
le mani su quei documenti la loro caccia a Osama Bin Laden ed al mullah
Omar sarebbe stata molto più semplice. Inoltre Musharraf sa che la guerra
americana in Afghanistan ha creato una grande simpatia per i talebani e
che il mito di Bin Laden, «eroe dei poveri oppressi», «simbolo della
rivolta musulmana contro l'arroganza della superpotenza infedele», si sta
diffondendo fra le masse e potrebbe rivolgersi in ogni momento contro di
lui, già descritto dai fondamentalisti come un kaffir, un infedele, uno
che «mangia dollari americani». Il semplice fatto di aver sfidato gli
Stati Uniti fa di Bin Laden un eroe popolare. Dovunque sono stato in queste due
settimane ho visto i suoi poster nelle rivendite dei giornali, la sua
faccia sul retro degli autobus, dei trisciò, sui vetri delle macchine
private, appiccicata ai carretti dei gelatai ambulanti. Le cassette coi
suoi discorsi sono in tutti i bazar. Persino nei circoli della borghesia
più agiata, quella che manda i figli a studiare in America, che ha legami
economici con gli Stati Uniti e che appoggia il presidente Musharraf perché,
«con la pistola americana puntata alla testa, non aveva altra scelta»,
ho sentito espressioni di odio anti-americano inconcepibili solo alcuni
mesi fa. «Ormai c' è un piccolo Osama in ognuno di noi», mi spiegava,
senza alcuna ironia, una elegante, ingioiellata signora della buona società
di Lahore, durante un a cena. Era stato Abu Hanifah a farmi andare a
Lahore. Mi aveva spiegato che la sua «missione» in Pakistan era di
partecipare all' annuale riunione dei tablighi jamat e così l' ho
seguito. Impressionante. A 30 chilometri da Lahore, in una
piana chiamata Raiwind, per tre giorni, oltre un milione di uomini (non ho
visto una singola donna) venuti da ogni angolo del Pakistan e da varie
parti del mondo si sono ritrovati all' ombra di immensi teloni bianchi;
assieme, in una costante nuvola di polvere gialla sollevata dal vento,
hanno pregato cinque volte al giorno, hanno ascoltato i discorsi degli
anziani ed hanno riaffermato quell' incredibile legame di fratellanza
musulmana che per noi occidentali è a volte difficile da capire, abituati
come si amo a pensare sempre più al «mio» e sempre meno al «nostro». I tablighi sono una strana,
disciplinata e potente organizzazione. Formalmente sono dei missionari
islamici dedicati non alla conversione degli infedeli, ma alla riforma in
senso spirituale dei musulmani «caduti sotto l'influsso del materialismo
occidentale». Ogni membro dell' organizzazione dedica, gratuitamente,
quattro mesi all' anno a quest'opera di missione. A piccoli gruppi, senza
mai leggere i giornali e mai guardare la televisione per non distrarsi,
viaggiano nel paese, vivono nei villaggi più remoti e re-insegnano alla
gente «la originaria via di Allah». Con questo hanno una estesa rete
di contatti ed una grande influenza, non solo in Pakistan, ma ormai in
varie parti del mondo in cui sono presenti. Il loro segreto è che restano
nell' ombra. I tablighi non cercano pubblicità, non vogliono che si
scriva di loro, non permettono di essere fotografati, filmati ed i loro
capi non danno interviste. I tablighi sostengono di essere per la
nonviolenza, di non voler fare politica e non vanno per questo confusi coi
fondamentalisti dei partiti islamici estremisti che qui manifestano contro
il governo ed appoggiano apertamente Osama ed i talebani. Eppure, passando ore ed o re in
quella immensa, disciplinata congrega di uomini, tutti col loro berretto
bianco o un turbante in testa a snocciolare i loro rosari, mi è parso
ovvio che, nonostante tutte le apparenti differenze, c'è fra i tablighi,
Osama ed i talebani una obiettiva coincidenza di interessi ed una
implicita solidarietà. E questa va capita perché, per estensione,
coinvolge ogni musulmano in ogni parte del mondo. Osama ha innanzitutto un
obiettivo politico: la liberazione dei luoghi sacri dell' Islam dalla
presenza degli infedeli e dalla dinastia ora regnante, definita da lui
corrotta. In altre parole, Osama vorrebbe prendere il potere in Arabia
Saudita. Il suo secondo obiettivo è
riportare quel paese, i cui sudditi qui in Pakistan ad esempio sono
popolarmente conosciuti come «sesso ed alcool», ad una forma di Islam più
puro e spirituale. Siccome vede gli Stati Uniti come i protettori
dell'attuale regime saudita ed i corruttori del mondo islamico in genere,
Osama ha dichiarato la sua jihad. Con l 'aspetto politico di tutto questo
i tablighi hanno poco o nulla a che fare. Molto invece con l' aspetto
religioso. Anche loro vogliono tornare ad un Islam più spirituale. Ed in
questo simpatizzano di fondo con Osama ed i talebani. Ma c'è di più. I tablighi, come
molti altri elementi non necessariamente fanatici ed estremisti
dell'universo islamico, hanno una più generica e più esistenziale
aspirazione: quella semplicemente di condurre un'esistenza diversa dalla
nostra, di vivere secondo altri principi, di stare fuori dai meccanismi
internazionali che loro vedono dominati da leggi e valori di stampo
esclusivamente occidentale. Nelle conversazioni con tanti e
diversi tipi di musulmani in Pakistan ho notato un continuo riferimento a
una sorta di violenza di cui molti dicono ora di sentirsi vittime. La
causa? Il confronto con l'Occidente. A torto o a ragione, molti
percepiscono la globalizzazione come uno strumento della nostra «civiltà
atea e materialistica» che, appunto attraverso l'espansione dei mercati,
diventa sempre più ricca e più forte a scapito del loro mondo. Con una
certa paranoia anche i musulmani più colti di questo Paese vedono in ogni
mossa dell'Occidente, compreso il conferimento del premio Nobel della
letteratura a V.S. Naipaul, un attacco all'Islam. Da qui la reazione
difensiva e il ricorrere all'Islam come a un rifugio. La religione diventa
l'arma ideologica contro la modernità, vista come occidentalizzazione.
Per questo anche i moderati come i tablighi, senza voler essere jihadi ,
finiscono per simpatizzare con i talebani e con Osama. Questo è il problema che abbiamo
dinanzi: un problema che non si risolve con le bombe, che non si risolve
andando in giro per il mondo a rovesciare regimi che non ci piacciono per
rimpiazzarli con vecchi re in esilio o coalizioni di convenienza messe
assieme in qualche lontana capitale. Osama può anche venir stanato
dall'Afghanistan; i talebani possono anche essere sgominati e ridotti ad
una forza annidata nelle montagne ad alimentare una nuova guerriglia, ma
il problema di fondo resta. Le bombe non fanno che renderlo più
virulento. A noi può parere strano, ma c'è
oggi nel mondo un crescente numero di gente che non aspira ad essere come
noi, che non insegue i nostri sogni, che non ha le nostre aspettative e i
nostri desideri. Un commerciante di tessuti di 60 anni, incontrato al
raduno dei missionari tablighi me lo ha detto con grande semplicità: «Non
vogliamo vivere come voi, non vogliamo vedere la vostra televisione, i
vostri film. Non vogliamo la vostra libertà. Vogliamo che la nostra
società sia retta dalla sharia , la legge coranica, che la nostra
economia non sia determinata dalla legge del profitto. Quando io alla fine di una
giornata ho già venduto abbastanza per il mio fabbisogno, il prossimo
cliente che viene da me, lo mando a comprare dal mio vicino che ho visto
non ha venduto nulla», mi ha detto. Mi son guardato attorno. E se tutta
quella enorme massa di uomini - l'ultimo giorno si dice fossero un milione
e mezzo - la pensasse davvero come lui? Ero curioso. Nella folla avevo
perso le tracce di Abu Hanifah, ed ho chiesto a quel commerciante se
potevo andarlo a trovare a casa sua. Mi ha dato l'indirizzo. Veniva da
Chaman, una cittadina sulla linea di confine esattamente a mezza strada
fra Quetta, capitale del Baluchistan pakistano, e Kandahar, il centro
spirituale del Mullah Omar in Afghanistan. Chaman è praticamente chiusa
agli stranieri e l'unico modo di andarci è in un convoglio scortato dalla
polizia e con un permesso speciale rilasciato a Quetta. È così che sono
finito in questa locanda. Facendo la prima passeggiata per
orientarmi, ho scoperto che ero vicino all'ospedale della città dove ogni
giorno arrivano i feriti civili dei bombardamenti americani su Kandahar. E
lì ho conosciuto «Abdul Wasey, 10 anni, afghano, vittima di missile
Cruise, gamba fratturata», come dice un cartello scritto a mano ed
attaccato al muro scortecciato dietro il suo letto sporco e polveroso. È
pallidissimo e magro come un'acciuga. Un mattone legato con una corda al
suo calcagno penzola dal fondo del letto per tenergli immobile la gamba
ingessata. L'altra, solo pelle ed ossa, è come il palo di una granata. Abdul giocava a cricket con i
suoi amici in un prato quando sono stati colpiti. Gli altri sette son
morti. Il padre l'ha portato qui con un fratello di 14 anni che ora gli
tiene compagnia. Lui è tornato in Afghanistan. L'ospedale è pieno. Ogni
letto è una storia, ma ho sentito che la mia curiosità non era
benvenuta. E poi a che serve saperne di più? A che serve sapere che i
missili Cruise che hanno ammazzato gli amici di Abdul, stroncato la gamba
a lui e fatto tutti i disgraziati che giacciono immobili e muti in questo
sudicio ospedale di provincia, raggiunto come una grande speranza alla
fine di una giornata di viaggio, sono caduti dove son caduti a causa di
una «errata impostazione del computer»? Quei missili dovremmo
semplicemente smettere di produrli. Il convoglio per Chaman parte da
Quetta, a volte sì a volte no, la mattina alle dieci. L'idea è di
portare un gruppetto di giornalisti autorizzati al posto di frontiera,
farli restare al massimo un paio d'ore e poi riportarli a Quetta. I
pakistani non vogliono rendere troppo pubblici i tanti traffici che
avvengono a quel confine e si dice che incoraggino i ragazzini dei campi
profughi a prendere a sassate i visitatori per tenerli lontani. Odio
questo tipo di visite guidate e, appena messo piede a Chaman, coi miei due
studenti, ci siamo dileguati. La popolazione era ostile e non ce l'abbiamo
fatta a raggiungere la casa del nostro mercante di stoffe. Ci ha salvati
una delle piccole ambulanze di Abdul Saddar Edhi, il «santo» di Karachi,
che vanno oltre la frontiera a prendere i feriti. Nel pomeriggio sono riuscito ad
incontrare una delegazione di talebani a cui ho consegnato una richiesta
di visitare Kandahar il giorno dopo, ma non ho potuto passare la notte a
Chaman. La polizia ci ha trovati e, dopo qualche calcio ai miei studenti
ed un po' di diplomazia da parte mia, siamo stati rilasciati. Anche lì il caso ci ha dato una
mano. Stavamo tornando a Quetta, seguiti a vista da una jeep carica di
commando, quando la nostra macchina, proprio in cima al passo di Khojak,
ha forato concedendomi una sosta d'una decina di minuti e con ciò una
grandiosa, indimenticabile visione dell'Afghanistan e della assurdità di
quel che l'Occidente, con l'America in testa, cerca di farci. Il sole era
appena tramontato ed una mezza luna diafana cominciava ad argentarsi nel
cielo di pastello sopra una distesa di montagne. A volte rosa, a volte
violette o color ocra, brulle, eppure vive, erano come le onde di un
oceano congelato dall'eternità. Su una vetta vicina, una decina
di camionisti avevano disteso i loro tappetini da preghiera sulla polvere
e come ritagli neri di carta contro quell'immensità si inchinavano
ritmicamente verso Occidente, sapendo che altri milioni di musulmani in
quello stesso momento facevano nella stessa direzione gli stessi gesti con
lo stesso pensiero diretto allo stesso, indescrivibile dio che li tiene
tutti uniti in una comunione che a noi ormai sfugge. Ripensavo alla mia ultima
domenica a Firenze, dopo l'11 settembre, quando ho fatto il giro delle
chiese giusto per sentire cosa vi si diceva. Niente. Una grande delusione.
Da San Miniato, a Santo Spirito, a Santa Maria Novella tutti i sacerdoti
leggevano lo stesso passo del Vangelo, tutti facevano gli stessi generici
discorsi, senza un solo riferimento alla vita di oggi, ai problemi e alle
angosce della gente per quel che sta succedendo nel mondo. Qui in Pakistan
ogni venerdì le moschee tuonano, a volte delirano, ma con ciò legano i
fedeli, dando loro qualcosa, magari di sbagliato, a cui pensare, a cui
dedicarsi. Da noi la Chiesa preferisce ancora tacere, invece che rompere i
ranghi dell'ortodossia politica e far sentire con fermezza una sua voce di
pace. Guardavo la sequenza infinita
delle montagne scurirsi rapidamente e mi chiedevo come potranno mai gli
americani trovare in quel labirinto lunare la caverna in cui si nasconde
Osama. Si dice che ce ne siamo almeno 8.000, ognuna con tunnel lunghi a
volte chilometri, con varie entrate, con vari livelli. Ed anche se lo
trovano? La guerra, così come è stata annunciata, non finirà qui. Pensata da quel passo fra le
montagne l'Europa mi pareva lontanissima, così come sono certo che quel
che succede qui pare lontano all'Europa. Eppure non è così. Quel che
avviene in Afghanistan è vicinissimo, ci riguarda. Non solo perché la
caduta di Kabul è tutt'altro che la soluzione ai problemi
dell'Afghanistan, ma perché l'Afghanistan «è solo la prima fase».
L'Iraq, la Somalia, il Sudan sono molto più vicini. Che faremo quando Bush vorrà
andare a bombardare là? Abbiamo fatto i conti con i musulmani che vivono
fra di noi e che ora possono essere indifferenti alla guerra in
Afghanistan, ma meno quando verranno bombardate le loro case? Vogliamo
anche noi partecipare alle uccisioni di stile israeliano di tutti quelli
che la Cia deciderà di mettere sulle sue liste nere? Sarebbe molto più saggio - mi
pare - che ora l'Europa dissentisse e che, invece di lasciare i suoi vari
governi a fare singolarmente la loro parte di «satelliti» di Washington,
si esprimesse con una sola voce ed aiutasse, da vera amica ed alleata,
l'America a trovare una via d'uscita dalla trappola afghana. Giorni fa un
giornale in lingua Urdu argomentava convincentemente che i vari paesi che
ora in un modo o in un altro incoraggiano gli americani ad impegnarsi in
Afghanistan, in fondo lo fanno sperando che gli americani ci si
impantanino e che la loro credibilità di grande potenza venga messa in
discussione. Iran, Cina, Russia ed al limite lo stesso Pakistan, hanno
buone ragioni di risentimento contro gli Stati Uniti e grandi
preoccupazioni per questa nuova presenza militare americana nel cuore
dell'Asia Centrale. L'Europa non è in alcun modo in questa posizione. Allo stesso modo però l'Europa
non può essere del tutto indifferente alla possibilità che gli Stati
Uniti perseguano, dietro il paravento di questa guerra internazionale al
terrorismo, un progetto tutto loro per la realizzazione di un nuovo ordine
mondiale che persegua esclusivamente l'interesse nazionale americano. Il gruppo ora al potere a
Washington, formato principalmente da veterani della Guerra Fredda, con in
testa il Segretario alla Difesa Rumsfeld, fa pensare che questa tentazione
possa essere reale. È quel gruppo, legato fra l'altro agli interessi
dell'industria bellica, che ha da sempre contestato i trattati per la
limitazione degli armamenti ed ora ne chiede l'abrogazione; è quel gruppo
che ha sostenuto la necessità della superiorità nucleare americana ed ha
in passato detto che le armi atomiche son fatte per essere usate e non per
restare per sempre ferme nei silos. Con la fine della Guerra Fredda e
la scomparsa di una vera minaccia, quell'America ha visto con
preoccupazione il ridursi progressivo della spesa militare Usa ed ha fatto
di tutto per identificare un nuovo nemico che giustificasse il rottamaggio
dei vecchi armamenti e la produzione di tutta una serie di nuovi sistemi
bellici «intelligenti» per il campo di battaglia tecnologico del
ventunesimo secolo. Un primo candidato a questo ruolo di «nemico» è
stata la Corea del Nord, finché non si è scoperto che il paese moriva
letteralmente di fame ed era molto improbabile che si mettesse a sfidare
la potenza americana. Poi è stata la volta della Cina, ma è risultato
difficile sostenere che Pechino potesse minacciare più che l'isola di
Taiwan, visto che non ha ancora neppure un bombardiere a lungo raggio. A
questo punto è spuntata l'ipotesi dell'Islam, «nemico» contro cui
difendersi nell'appena inventato «scontro di civiltà». Il massacro dell'11 settembre ha
reso quel nemico estremamente credibile ed ha permesso all'America di
varare tutta una politica che sarebbe stata altrimenti inaccettabile. Il
nemico è stato ora identificato nei «terroristi» ed il processo di
demonizzazione nei confronti di quelli che Washington definisce tali è
cominciato. I primi a farne le spese sono stati i talebani ex mujaheddin
ed Osama Bin Laden creature loro stesse, non va dimenticato, dell'America
quando questa aveva bisogno di loro per combattere l'Unione Sovietica. L'Europa non può seguire, senza
una pausa di riflessione, l'America su questa strada. L'Europa deve
rifarsi alla propria storia, alla propria esperienza di diversità al fine
di trovare la forza per un dialogo e non per uno scontro di civiltà. La grandezza delle culture è
anche nella loro permeabilità. Basta non affrontarsi a colpi di aerei
carichi di civili innocenti e di bombe sganciate, seppur per sbaglio, su
chi non è responsabile di nulla. Anche dei fondamentalisti islamici come
i talebani possono, pur a loro modo, cambiare. Fossero stati riconosciuti
come il governo legittimo dell'Afghanistan nel 1996 quando presero il
potere, forse le statue di Bamyan sarebbero ancora al loro posto e forse
ad Osama Bin Laden non sarebbe stato steso il tappeto rosso. Anche i
talebani vivono nel mondo e debbono, a loro modo, adattarvisi. Quando sono andato al consolato
afghano di Quetta per sollecitare la mia domanda del visto per Kandahar,
il diplomatico talebano che mi ha ricevuto aveva sulla scrivania un bel,
moderno computer. Forse guardava in Internet le ultime notizie sul suo
paese per indovinare quanto ancora sarebbe rimasto al suo posto, ora che
Kabul è caduta. Tornando alla locanda, mi fermo
all'ospedale a salutare Abdul Wasey. Il corridoio è affollato di afghani
appena arrivati con nuovi feriti. Nel letto accanto a quello di Abdul c'è
ora un uomo sulla cinquantina col ventre squarciato da una scheggia. Mi
vede entrare e dare ad Abdul due cose che ho portato. Raccoglie
faticosamente il fiato ed urla: «Prima vieni a bombardarci, poi a
portarci i biscotti. Vergogna». Non so cosa fare. Cerco dentro di
me delle giustificazioni, delle parole da dire. Poi penso ai soldati
francesi, tedeschi ed italiani che presto si uniranno a questa guerra e mi
rendo conto che, alla fine di una vita in cui ho sempre visto feriti e
morti fatti da altri, mi toccherà ancora a vedere, in questo ospedale o
altrove, le vittime delle mie bombe, delle mie pallottole. E mi vergogno
davvero.
|
![]() |
IL
VENDITORE DI PATATE E LA GABBIA DEI VECCHI LUPI di
Tiziano Terzani KABUL
- La vista è stupenda. La più bella che potessi immaginarmi. Ogni
mattina mi sveglio in un sacco a pelo disteso sul cemento e qualche
piastrella di plastica d’uno stanzone vuoto all’ultimo piano del più
alto edificio del centro città e gli occhi mi si riempiono di tutto quel
che un viaggiatore diretto qui ha sempre sognato: la mitica corona delle
montagne di cui un imperatore come Babur, capostipite dei Moghul, avendole
viste una volta, ebbe nostalgia per il resto della vita e desiderò che
fossero la sua tomba; la valle percorsa dal fiume sulle cui sponde è
cresciuta la città a proposito della quale un poeta, giocando sulle due
sillabe del nome Kabul in persiano, scrisse: «La mia casa? Eccola: una
goccia di rugiada fra i petali di una rosa»; il vecchio Bazaar dei
Quattro Portici dove, si diceva, è possibile trovare ogni frutto della
natura e del lavoro artigiano; la moschea di Puli-i-Khisti; il mausoleo di
Timur Shah. Il santuario del Re dalle Due Spade costruito in onore del
primo comandante musulmano che nel Settimo secolo dopo Cristo, pur avendo
già perso la testa, mozzatagli da un fendente, continuò - secondo la
leggenda - a combattere con un'arma per mano, determinato com'era ad
imporre l'Islam, una nuova, aggressiva religione appena nata in Arabia, ad
una popolazione che qui, da più d'un millennio, era felicemente indù e
buddhista; e poi, alta, imponente sulla cresta della prima fila di colli,
proprio di fronte alle mie vetrate, la Fortezza di Bala Hissar nella cui
Residenza hanno regnato tutti i vincitori e nelle cui galere han languito,
o sono stati sgozzati, tutti i perdenti della storia afghana. La
vista è stupenda, ma da quando sono arrivato, più di due settimane fa,
con in tasca una lettera di presentazione per un vecchio intellettuale,
nella borsa una bibliotechina di libri-compagni-di-viaggio e in petto un
gran misto di rabbia e di speranza, questa vista non mi dà pace. Non
riesco a goderne perché mai, come da queste finestre impolverate, ho
sentito, a volte quasi come un dolore fisico, la follia del destino a cui
l'uomo, per sua scelta, sembra essersi votato: con una mano costruisce,
con l'altra distrugge; con fantasia dà vita a grandi meraviglie, poi con
uguale raffinatezza e passione fa attorno a sé il deserto e massacra i
suoi simili. Prima
o poi quest'uomo dovrà cambiare strada e rinunciare alla violenza. Il
messaggio è ovvio. Basta guardare Kabul. Di tutto quel che i miei libri
raccontano non restano che i resti: la Fortezza è una maceria, il fiume
un rigagnolo fetido di escrementi e spazzatura, il bazaar una distesa di
tende, baracche e container ; i mausolei, le cupole, i templi, sono
sventrati; della vecchia città fatta di case in legno intarsiato e fango
non restano, a volte in file di centinaia e centinaia di metri, che dei
patetici mozziconi color ocra come sulla battigia le guglie dei castelli
di sabbia costruiti da bambini e subito espugnati dalle onde. Tanti
monumenti sono letteralmente scomparsi. L'enigmatico Minar-i-Chakari ,
Colonna della Luce, costruito, fuori Kabul sulla vecchia via di Jalalabad,
nel Primo Secolo dopo Cristo, forse per commemorare l'illuminazione di
Buddha, non ha resistito alle cannonate e dal 1998 non è che un triste
cumulo di antichi sassi. Kabul
non è più, in nessun senso, una città, ma un enorme termitaio
brulicante di misera umanità; un immenso cimitero impolverato. Tutto è
polvere ed ho sempre di più l'impressione che nella polvere che mi
annerisce costantemente le mani, che mi riempie il naso, che mi entra nei
polmoni, in questa polvere c'è tutto quel che resta di tutte le ossa, di
tutte le reggie, le case, i giardini, i fiori e gli alberi che hanno un
tempo fatto di quella valle un paradiso. Settanta diversi tipi di uva,
trentatré tipi di tulipani, sei grandi giardini folti di cedri erano il
vanto di Kabul. Non c'è assolutamente più nulla. E questo non per una
maledizione divina, non per l'eruzione di un vulcano, lo straripamento di
un fiume o una qualche altra catastrofe naturale. Il paradiso è finito
una volta e poi di nuovo e poi tante altre volte per una sola, unica
causa: la guerra. La guerra degli invasori di secoli fa, la guerra del
secolo scorso e dell'inizio di questo secolo portata qui dagli inglesi -
che ora, poco delicatamente, son voluti tornare a capo della «Forza di
pace» -, la guerra degli ultimi vent'anni, quella a cui tutti, in un modo
o nell'altro, magari solo vendendo armi ad uno dei tanti contendenti,
abbiamo partecipato; ed ora la guerra americana: una fredda guerra di
macchine contro uomini. Forse
è l'età che mi ha fatto sviluppare una sorta di isterica sensibilità
per la violenza, ma dovunque poso lo sguardo vedo buchi di pallottole,
squarci di schegge, vampate nere di esplosioni ed ho l'impressione di
esserne trafitto, mutilato, bruciato. Forse ho perso, se l'ho mai avuta,
quella obbiettività dell'osservatore non coinvolto, o forse è solo il
ricordo di un verso che Gandhi recitava nella sua preghiera quotidiana,
chiedendo di potersi «immaginare la sofferenza degli altri» per poter
capire il mondo, ma davvero non riesco ad essere distaccato come se questa
storia non mi riguardasse. Dall'alto
della mia finestra vedo un uomo camminare lento e voltarsi continuamente a
guardare una giovane donna che gli arranca dietro senza una gamba. Forse
è sua figlia. Anch'io ne ho una e solo ora, per la prima volta nella
vita, penso che potrebbe saltare su una mina. Il freddo ora screpola la
pelle e vedo gruppi di bambini-mendicanti che accendono dei falò con
sacchetti e pezzi di plastica trovati nei cumuli di spazzatura. Ho un
nipote di quell'età e mi immagino lui a respirare quell'aria puzzolenta e
cancerogena pur di scaldarsi. Dopo giorni di ricerca sono finalmente
riuscito a rintracciare l'anziano signore per il quale avevo una lettera
di presentazione: l'ex curatore del Museo di Kabul. L'ho trovato al bazaar
di Karte Ariana dove ora, per campare la famiglia, vende patate. Avrebbe
potuto succedere a me; potrebbe ancora succedere ad ognuno di noi: a causa
di una guerra. Mi
hanno raccontato che, durante il periodo più duro della guerra, fra il
1992 ed il 1996 quando quelle stesse fazioni dell'Alleanza del Nord che
ora governano Kabul, ma che allora avevano fatto di questa città il loro
campo di battaglia ed il loro mattatoio (più di 50.000 furono i morti
civili), i grandi container di ferro, arrivati via mare e poi via Pakistan
pieni delle armi e munizioni americane per la jihad contro l'Unione
Sovietica, venivano usati dai gruppi di mujaheddin come prigioni per i
loro nemici e che a volte, per rappresaglia, i prigionieri ci venivano
dimenticati dentro, a volte arrostiti bruciandoci attorno taniche di
benzina. Non so se sia vero, ma non riesco più a guardare uno di questi
container - e ce ne sono a migliaia, dappertutto, riciclati in abitazioni,
negozi ed officine - senza ripensare a quella storia. Ogni
oggetto, ogni muro, ogni faccia qui è segnata, mi pare, da questa
orribile violenza che è stata ed è ancora - ora, in questo momento,
mentre scrivo - la guerra. Neppure
l'alba, dopo una notte di dormiveglia col rombo intermittente dei B-52 che
passano alti, è rincuorante a Kabul. Il sole sembra un incendio dietro il
paravento delle montagne che rimangono a lungo come ritagli di carta scura
contro l'orizzonte. Capita che, mentre la città è ancora tutta
nell'ombra, un solitario B-52 si illumini improvvisamente dei primi raggi
dorati e diventi come un misterioso, inquietante, uccello da preda intento
a scrivere con le sue quattro code di fuoco strani messaggi di morte nel
cielo nero-turchese. I
B-52 non sono qui soltanto per bombardare i rifugi degli uomini di Bin
Laden o i convogli sospetti in cui potrebbe nascondersi il Mullah Omar.
Son qui per ricordare a tutti chi sono i nuovi poliziotti, i nuovi
giudici, i nuovi padroni-burattinai di questo paese. L'alzabandiera
americano, messo in scena lunedì scorso, giorno della grande festa
musulmana di Id, alla fine del Ramadan, era fatto esattamente per dire
questo, con la banda dei marines che intonava il «Dio salvi l'America»,
i discorsi di circostanza, il picchetto d'onore ed il lento, lentissimo
issare del vessillo a stelle e strisce sul pennone del giardino. Varie
rappresentanze hanno riaperto a Kabul i loro battenti; diplomatici
iraniani, turchi, francesi, cinesi, inglesi ed italiani hanno rispolverato
le scrivanie e tirato su la bandiera; nessuno ha fatto di questa routine
un tale evento. Gli
americani hanno una loro sorta di ossessione con la bandiera. Quella che
hanno rimesso sulla ambasciata di Kabul è la stessa che avevano ammainato
nel 1989. Ma non era la prima che gli Stati Uniti ripiantavano sul suolo
afghano. Quella l'hanno issata i marines nella loro base alla periferia di
Kandahar agli inizi della campagna militare. La base è stata battezzata
«Campo Giustizia» e la bandiera, tanto perché sia chiaro che «giustizia»
in questo caso vuol dire soprattutto «vendetta», porta le firme dei
familiari delle vittime delle Torri Gemelle. Gli
afghani non hanno alcuna difficoltà a capire questo tipo di cose. Nel
1842 il grande Bazaar dei Quattro Portici con i suoi famosi disegni murali
e le sue decorazioni floreali venne raso al suolo e saccheggiato dalle
truppe inglesi per vendicare l'uccisione di due emissari di Londra ed il
successivo sterminio, da parte degli afghani, di un corpo di spedizione di
16.000 uomini e dipendenti sulla via da Kabul a Jalalabad (solo un medico
sopravvisse a raccontare la storia). Nel 1880 furono di nuovo gli inglesi,
dopo aver impiccato nel cortile della Fortezza 29 capi afghani di una
nuova rivolta indipendentista, a radere al suolo gran parte di Bala Hissar
«perché - come scrisse il generale di Sua Maestà che diresse
l'operazione - indelebile resti il ricordo di come sappiamo vendicare i
nostri uomini». Con
questo tipo di «ricordi» a cui fanno riferimento vari monumenti e nomi
di strade e quartieri nella Kabul moderna, sarebbe certo stato più
corretto da parte di quella misteriosa entità che si definisce «comunità
internazionale» e che in verità sembra sempre di più essere un club ad
uso e consumo degli Stati Uniti, affidare il comando della «Forza di pace»
ad un Paese che non fosse, come l'Inghilterra, identificato qui col
colonialismo, l'aggressione ed un poco meritevole record: il bombardamento
aereo di Kabul e della sua popolazione civile da parte dell'aviazione
inglese nel 1919 fu il primo nella storia. Secoli
prima gli afghani avevano conosciuto un'altra ed ancor più memorabile
vendetta. Passando per la piana di Bamiyan nel 1221, Gengis Khan aveva
visto morire suo nipote, colpito da una freccia afgana, ed aveva ordinato
che in quella valle non fosse lasciato alcun segno di vita. Per giorni i
soldati mongoli sgozzarono ogni uomo, donna, bambino ed animale fino a
che, si dice, le spade erano senza filo e le braccia stanche; poi segarono
ogni albero e sradicarono ogni pianta. Fu così che per centinaia d'anni i
grandi Buddha scolpiti nella roccia, ma già spogli dell'oro originale che
li ricopriva, guardarono con gli occhi vuoti nella valle... aspettando che
altri guerrieri, questa volta i Talebani, armati di bazooka, venissero a
vendicarsi contro la «comunità internazionale» che si rifiutava, contro
ogni evidenza, di riconoscerli come i legittimi governanti
dell'Afghanistan. Ora
tocca ai Talebani essere vittime degli americani che vogliono vendicare i
loro morti e soprattutto vogliono ristabilire nel mondo l'idea della loro
invulnerabilità. Il fatto che i Talebani non siano direttamente - e forse
neppure indirettamente - responsabili di quei morti è ormai irrilevante.
Così come è irrilevante che gli afghani, certo non coinvolti nel
massacro delle Torri Gemelle, siano stati i primi a pagare il conto di
quella vendetta. Quanto caro sia stato resta un mistero. Questa
è una guerra seguita da centinaia di giornalisti, una guerra a cui è
certo dedicata più carta stampata e più ore televisive di qualsiasi
altra guerra precedente, eppure è una guerra che gli Stati Uniti con
grande determinazione riescono a mantenere invisibile e di cui non faranno
mai sapere l'intera verità. Ci
sono in questa guerra domande a cui gli Stati Uniti si rifiutano di
rispondere e che per questo nessuno pone già più. Eccone alcune: quante
sono state finora le vittime civili - quelle assolutamente innocenti - dei
bombardamenti americani? A mio parere già più delle vittime delle Torri
Gemelle. Quante sono state le vittime fra i militari Talebani? A mio
parere oltre diecimila. La
sola prova che ho è piccola, ma significativa. Prima di venire in
Afghanistan sono ripassato da Peshawar e sono tornato nella regione
pakistana dominata dai fondamentalisti islamici dove, subito dopo l'inizio
dei bombardamenti, avevo incontrato i giovani che partivano, entusiasti,
per la jihad. Bene, ne ho rivisto uno che era appena riuscito a tornare:
sconfitto. I bombardamenti a tappeto dei B-52, raccontava, erano stati
terrificanti e micidiali. Assieme ai suoi compagni era andato per
combattere gli americani, ma di quelli non aveva visto neppure l'ombra.
Aveva solo sentito i loro aerei rombare in cielo e visto i devastanti
risultati delle loro bombe attorno a sé. Di un gruppo di 43 erano
sopravvissuti solo in tre. Se è successo lo stesso là dove i Talebani
han cercato di resistere e mantenere il controllo del terreno, come hanno
fatto per settimane a Kandahar, le loro perdite debbono essere state
considerevoli. Un'altra
improponibile domanda è questa: che cosa è successo alle centinaia di
famiglie degli arabi venuti in Afghanistan a combattere, per conto degli
americani, la jihad contro i sovietici e rimasti poi qui al seguito di
Osama Bin Laden? La casa accanto a quella del mio «venditore di patate»
era abitata da un gruppo di famiglie così. «C'erano varie donne ed
almeno una decina di bambini. Una notte sono tutti partiti su dei
camioncini», dice. Dove sono ora? Il
mio giovane jehadi fuori Peshawar raccontava che, tornando verso il
Pakistan, aveva incontrato dei combattenti arabi che andavano dai
contadini pashtun della regione a pregarli di prendere con sé le loro
mogli ed i figli, facendosi promettere che si sarebbero occupati di loro.
Come certi bambini ebrei lasciati a dei contadini ariani perché
sopravvivessero alle retate naziste. Che colpe hanno quella gente? Chi si
occuperà di loro? Ci
sono centinaia di migliaia di afghani (250.000 soltanto a Maslakh, vicino
ad Herat) che per sfuggire ai bombardamenti americani sono finiti in zone
remote del paese dove ora, a causa della neve, è impossibile far arrivare
loro del cibo e che già muoiono di fame e rischiano di scomparire in
massa. Ma la loro è una tragedia che passa inosservata: disturba il
quadro positivo che i portavoce della Coalizione Internazionale contro il
Terrorismo intendono presentare al mondo e, tranne qualche inorridito e
ribelle funzionario delle Nazioni Unite, nessuno ne parla, nessuno si
indigna. Se qualcuno solleva qualche dubbio la risposta è ormai sempre la
stessa: «Ricordatevi dell'11 settembre», come se quelle vittime
potessero giustificare tutto, come se quelle vite fossero diverse dalle
altre e comunque valessero molto, molto di più. Una
forma di violenza si aggiunge ad un'altra. Solo interrompendo questo ciclo
si può sperare in una qualche soluzione, ma nessuno sembra disposto a
cominciare. Fra le tante organizzazioni non governative che si affollano
ora in Afghanistan a portare, coi soldi dei vari governi, la loro versione
di umanità e di aiuti, non ho sentito di nessuna che intenda venire qui a
lavorare per la riconciliazione, a proporre la non violenza, a far
riflettere gli afghani - e forse anche gli altri - sulla futilità della
vendetta. E, mio Dio, se ce ne sarebbe bisogno! Raramente ho visto un
paese così imbevuto di violenza, di ostilità, così propenso alla
guerra. Dovunque mi rivolgo sento odio. I Tagiki odiano i Pashtun, gli
Uzbeki odiano i Tagiki, i Pashtun odiano gli Uzbeki e tutti odiano gli
Hazara, visti ancora oggi come i discendenti delle orde mongole - il loro
nome significa «a migliaia» - ed eredi di Gengis Khan. Ho
sempre creduto che la sofferenza fosse una maestra di saggezza e venendo
in Afghanistan pensavo di trovare qui, dopo tanta sofferenza un terreno
fertile per una riflessione sulla non-violenza ed un impegno alla pace.
Per niente! Neppure là dove sarebbe più ovvio. Il
centro ortopedico del Comitato Internazionale della Croce Rossa, è uno
dei posti più commoventi di Kabul, un concentrato di dolore e di
speranza, diretto da un torinese, schivo ed efficiente, Alberto Cairo. Lui
è la sola persona del Centro ad avere due mani e due gambe. A tutti gli
altri, pazienti ed impiegati, medici e tecnici manca regolarmente
qualcosa. Persino l'uomo delle pulizie è senza una gamba. «Lavorare qui
serve a noi a sentirci utili e serve a chi arriva qui, avendo perso un
pezzo di sé, a vedere che è possibile continuare a vivere», dice l'uomo
che mi accompagna. Era un traduttore. Un giorno, tornando a casa in
bicicletta, un cecchino della Alleanza del Nord lo ha centrato in una
gamba spappolandogliela sopra al ginocchio. «Se non è morto, quel tipo
è ora di nuovo a Kabul», ho commentato come soprappensiero, «Lei lo ha
perdonato?». «No.No. Se potessi lo ammazzerei con le mie mani», mi ha
risposto. Tutti quelli che ci stavano a sentire erano d'accordo. Nella
sezione delle donne una ragazzina di 13 anni, impara a camminare con un
nuovo piede di plastica, andando lentamente lungo un tracciato di orme
rosse sul pavimento. Un giorno, sei mesi fa la madre le ha chiesto di
andare a cercare un po' di legna per il fuoco. Poco dopo ha sentito una
esplosione e le urla. Chiedo alla fisioterapista che l'aiuta, anche lei
senza una gamba, persa anni fa su una mina nascosta nel cortile della
scuola, se pensa possibile un mondo senza guerra. Ride come avessi
raccontato una barzelletta. «Impossibile. Impossibile», dice. Ogni
politico in visita a Kabul si fa vedere al centro di Alberto Cairo e porta
aiuti perché lui continui il suo convincentissimo lavoro. Quel che
nessuno ha il coraggio di dire è che l'unico modo di metter fine a quel
lavoro, agli aiuti ed alle visite dei politici è quello di proibire, ora,
subito il commercio e la costruzione di tutte le mine in tutto il mondo.
Che la «comunità internazionale» mandi una «Forza di pace» a
smantellare qualsiasi fabbrica, dovunque si trovi! Cairo
è in Afghanistan da 12 anni e conta di restarci il resto della vita. Di
lavoro ne ha: oltre al milione di vecchie mine, ci sono ora tutte quelle
nuove lanciate dagli americani. Anche lui sorride della mia speranza in un
mondo senza guerra. «In Afghanistan la guerra è il sale della vita»,
dice, «la guerra è più saporita della pace». Il suo non è cinismo; è
rassegnazione. Ma
io non posso rassegnarmi anche se mi rendo conto che quello che stiamo
vivendo è un momento particolarmente tragico per l'umanità. Da settimane
tutto quello che vedo e che sento a proposito di questa guerra sembra
fatto per dimostrare che l'uomo non è affatto la parte più nobile della
creazione e che nel suo cammino di incivilimento sta subendo ora, davanti
a noi, con la nostra partecipazione, una grande battuta d'arresto. Proprio
all'inizio del terzo millennio, all'inizio di quella che tanti giovani
pensavano fosse «l'Era Nuova», l'uomo ha innescato un pericolosissimo
processo di nuova barbarie. Proprio quando una serie di regole del
convivere umano parevano assicurate e condivise dai più, tutto è stato
sconvolto e l'amministrazione della morte altrui torna ad essere una
routine tecnico-burocratica come alla fine per Eichmann era diventato il
trasporto degli ebrei: sotto gli occhi di soldati occidentali, a volte con
la loro attiva partecipazione, prigionieri con le mani legate dietro la
schiena vengono fucilati ed il massacro, definito convenientemente una «rivolta
carceraria» viene archiviato. Interi villaggi di contadini la cui unica
colpa è di essere nelle vicinanze di una montagna chiamata Tora Bora
vengono rasi al suolo dai bombardamenti a tappeto con centinaia di
vittime, ma la loro esistenza viene spudoratamente negata ripetendo che
tutti gli obbiettivi colpiti sono militari. Una personalità di rilievo
come il Segretario alla Difesa Rumsfeld descrive i combattenti di Osama
Bin Laden come «animali feriti», per questo particolarmente pericolosi e
con ciò possibilmente da abbattere anche quando il rifiutare la resa di
un combattente disarmato è un crimine di guerra secondo le Convenzioni di
Ginevra. Il fatto che le quasi quotidiane apparizioni del Segretario
Rumsfeld al podio del Pentagono siano diventate uno dei programmi più
popolari e più seguiti d'America, dice molto sullo stato di gran parte
dell'umanità oggi. La tortura stessa cessa di essere un tabù nella
coscienza occidentale e nei talk-show si discute ormai apertamente sulla
legittimità di ricorrerci quando si tratti di estrarre al
sospetto-torturato delle informazioni che salvino vite americane.
Pochissimi protestano e la «comunità internazionale» si appresta ad
accettare che l'interesse nazionale americano prevalga su qualsiasi altro
principio, compreso quello finora sacro-santo della sovranità nazionale. La
stessa stampa americana ha messo da parte molti dei vecchi principi che
l'hanno in passato resa importante nel suo ruolo di controllo del potere.
Ho visto con i miei occhi l'originale di un articolo scritto
dall'Afghanistan da un corrispondente di un grande quotidiano e quel che
poi è stato pubblicato. Un tempo sarebbe stato motivo di scandalo. Non
ora. «Ormai siamo diventati la Pravda », diceva il giornalista. La
attuale, diffusa indifferenza verso quel che sta succedendo agli afghani
ed in fondo a noi stessi ha radici profonde. Anni di sfrenato materialismo
hanno ridotto e marginalizzato il ruolo della morale nella vita della
gente, facendo di valori come il danaro, il successo ed il tornaconto
personale il solo metro di giudizio. È
questo nuovo tipo di uomo occidentale, cinico ed insensibile, egoista e
politicamente corretto - qualunque sia la politica -, prodotto della
nostra società di sviluppo che oggi mi fa paura quanto l'uomo col
Kalashnikov e l'aria da grande taglia-gole che ora è ad ogni angolo di
strada a Kabul. I due si equivalgono, sono esempi diversi, dello stesso
fenomeno: quello dell'uomo che dimentica d'avere una coscienza, che non ha
chiaro il suo ruolo nell'universo e diventa il più distruttore di tutti
gli esseri viventi, ora inquinando le acque della terra, ora tagliandone
le foreste, uccidendone gli animali ed usando sempre più sofisticate
forme di varia violenza contro i suoi simili. In Afghanistan tutto questo
mi appare chiaro. E mi brucia e mi riempie di rabbia. Per
questo, a pensarci bene, l'unico momento di gioia che ho avuto in questo
paese è stato quando ci son passato sopra. Dall'oblò di un piccolo aereo
a nove posti della Nazioni Unite in rotta da Islamabad a Kabul, il mondo
appariva come se l'uomo non fosse mai esistito e non ci avesse lasciato
alcuna traccia di sé. Dall'alto il mondo era semplicemente meraviglioso:
senza frontiere, senza conflitti, senza bandiere per cui morire, senza
patrie da difendere. «Ho
pietà di coloro che l'amore di sé / lega alla patria; / la patria è
soltanto / un campo di tende in un deserto di sassi», dice un vecchio
canto himalayano citato da Maraini nel suo Segreto Tibet . Se anche ci
fossero state, quelle tende non le avrei viste. Per
stare al sicuro l'aereo volava a dieci chilometri di altezza e la terra
ora ocra, ora violetta e grigia, era come la pelle grinzosa d'un vecchio
gigante; i fiumi le sue vene. Dinanzi, come un immenso oceano in tempesta
congelatosi all'improvviso, avevamo la barriera innevata dell'Hindu Kush,
«l'assassino di hindù», a causa delle centinaia di migliaia di indiani
morti di freddo in quelle montagne mentre venivano trasportati come
schiavi per l'Asia Centrale dai loro conquistatori Moghul. L'Afghanistan
è stato da sempre, per la sua posizione geografica, il grande corridoio
del mondo. Da qui son passate tutte le grandi religioni, le grandi civiltà,
i grandi imperi; da qui son passate tutte le razze, tutte le idee, tutte
le arti. L'Afghanistan è una miniera di storia umana, sepolta nella terra
di posti come Mazar-i-Sharif, Kabul, Kunduz, Herat e Balkh. «E voi che ci
fate qui?», chiese nel 1924 un viaggiatore americano, sorpreso di vedere
a Kabul, fra quelle delle grandi potenze, anche una ambasciata italiana.
«L'archeologia», si sentì rispondere dall'allora ministro
plenipotenziario Paternò dei Marchi. Dall'inizio del secolo scorso tanti
sono stati gli scavi fatti in Afghanistan da nostre missioni scientifiche
ed era davvero penoso, nelle prime settimane dei bombardamenti, sentire
che i B-52 americani, alla caccia dei Talebani, praticavano ora una loro
nuova forma di archeologia andando a scavare, a suon di bombe a tappeto,
proprio in quei posti preziosi. Questo
d'essere al centro di un qualche interesse altrui è il destino
dell'Afghanistan. È così che, da Alessandro il Macedone, ai mongoli, ai
russi, agli inglesi nell'Ottocento, il Paese è sempre stato la posta di
un Grande Gioco. È esattamente ancora oggi così. Quando
l'aereo delle Nazioni Unite s'è posato sulla pista di Bagram, un posto
che 2.000 anni fa fu capitale di un grande civiltà - Kushan - di cui le
guerre han spazzato via ogni traccia in superficie, i nuovi giocatori
erano tutti lì, su quella pista di cemento in mezzo ad una valle ora
deserta e punteggiata dalla spettrale presenza di carcasse di carri
armati, elicotteri, camion, aerei e cannoni. Mentre tre marines ed un cane
lupo, anche lui americano, venivano ad annusare meticolosamente i miei
bagagli, dei soldati russi poco lontani trafficavano attorno ad un loro
aereo e ad una fila di camion dai tendoni chiusi su cui era scritto «Dalla
Russia per i bambini dell'Afghanistan». Dinanzi alle rovine di una
caserma si vedevano le sagome di alcuni soldati inglesi. Bisognava
guardare le stupefacenti montagne che, al calar del sole, sembrano
prendere vita e muoversi col mutare delle ombre e dei colori, per non
disperarsi: la vecchia storia stava semplicemente rincominciando. La
«comunità internazionale» pensa di aver trovato una soluzione per i
problemi dell'Afghanistan in una formula che combina violenza e soldi,
milizie afghane colpevoli di vari misfatti, ma ora tenute a bada anche
loro dai B-52, ed una persona per bene come il nuovo capo dell'esecutivo
Hamid Karzai, unico e debole Pashtun fra i rappresentanti forti delle
altre etnie. Spero
che la formula funzioni, ma non ci credo. Certo, anche a Kabul la vita
riprende. L'ho vista riprendere a Phnom Penh dopo la fine dei Khmer Rossi,
l'ho vista riprendere nelle foreste del Laos e del Vietnam defoliate dagli
agenti chimici e cancerogeni degli americani. Ma che vita? Una vita nuova,
una vita più consapevole, più tollerante, più serena o la solita vita
di ora: aggressiva, rapace, violenta? Uno
dei momenti che non dimenticherò di questi giorni a Kabul è stata la
visita allo zoo. «Vale la pena, mi creda», aveva suggerito il «venditore
di patate». Era venerdì, giorno di festa per i musulmani e qualche
decina di persone avevano pagato i duemila afghani (150 lire) del
biglietto per entrare a vedere la collezione più patetica e misera di
animali che uno possa immaginarsi: un piccolo orso col naso scortecciato e
purulento, un vecchio leone che non sta più sulle gambe ed a cui è morta
di recente la leonessa, un cerbiatto, una civetta, due aquile
spennacchiate e tanti conigli e piccioni. Durante le battaglie fra i vari
gruppi mujaheddin dell'Alleanza del Nord, prima che arrivassero i Talebani,
lo zoo è stato per po' la linea del fronte; ci son cadute sopra varie
bombe e missili e molte gabbie si sono sfasciate permettendo a vari
animali di scappare. I lupi non sono stati fortunati ed in una gabbia
puzzolentissima, senza acqua, dove un guardiano butta una volta al giorno
degli avanzi di carne, sono rimasti due vecchi esemplari. Sono
lì da anni: soli, prigionieri, chiusi nello stesso spazio. Si conoscono.
Si conoscono bene, eppure strisciano in continuazione guardinghi contro le
pareti ormai lustre e la rete tutta rabberciata e, incrociandosi, ogni
volta ringhiano, si mostrano i denti e si aggrediscono, aizzati da una
piccola folla di uomini che forse s'illudono d'essere diversi e non si
rendono conto d'essere, anche loro, nella gabbia dell'esistenza solo per
morirci. Tanto
varrebbe allora viverci in pace.
|
![]() |
Islam
dall'Enciclopedia Encarta
Religione
fondata all'inizio del VII secolo d.C. da Maometto (in arabo Muhammad)
e praticata oggi da circa un miliardo di fedeli. Confessione diffusa in
larghissima maggioranza non solo in tutti i paesi del Medio Oriente, a
eccezione di Israele, ma anche in Africa centrosettentrionale (Marocco,
Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Mauritania, Senegal, Mali, Niger, Ciad,
Sudan, Somalia), in Turchia, Iran, Afghanistan, Pakistan e Asia centrale
(Azerbaigian, Turkmenistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan), oltre
che in Bangladesh, Maldive, Malesia e Indonesia. In India costituisce una
minoranza significativa; in Europa viene professata dal 70% della
popolazione dell'Albania e da oltre il 40% degli abitanti della
Bosnia-Erzegovina. In Italia i musulmani sono almeno 500.000, per gran
parte immigrati dai paesi nordafricani e dal Senegal. Islam
è parola araba che indica il concetto di sottomissione assoluta
all'onnipotenza di Allah, il Dio unico e invisibile: l'Islam si
caratterizza infatti come espressione di un monoteismo radicale, fin dalla
formula fondamentale – "Non vi è altro Dio all'infuori di Allah, e
Maometto è il profeta di Allah" – recitata nel segno
dell'appartenenza alla comunità degli adoratori dell'unico Dio. Il
seguace dell'Islam viene definito in italiano musulmano, termine coniato
sulla base del persiano musliman, forma equivalente all'arabo muslimun,
plurale di muslim, la parola, che si ritrova nella lingua inglese,
utilizzata per indicare appunto chi si considera sottomesso alla divinità
unica e irraggiungibile nella sua dimensione trascendente. Questa
concezione rigorosamente monoteistica viene considerata dalla stessa
tradizione islamica in continuità con il credo dell'ebraismo e del
cristianesimo, religioni che costituirebbero le tappe fondamentali della
rivelazione divina. Quest'ultima culminerebbe nella predicazione di
Maometto, il profeta per eccellenza e l'ultimo dei latori della
rivelazione di Allah dopo Abramo (in arabo Ibrahim), Mosè (Musa)
e lo stesso Gesù (Isa). A tal proposito occorre precisare che la
tradizione musulmana, riferendosi a Gesù come al più venerabile fra i
profeti vissuti prima di Maometto, considera esclusivamente la sua natura
umana; Maometto stesso non si attribuì mai una natura sovrumana,
presentandosi unicamente come il profeta al quale Allah avrebbe
consegnato, per tramite dell'arcangelo Gabriele, la rivelazione divina
destinata a essere custodita e venerata per sempre dai fedeli. Tale
rivelazione è contenuta nel Corano, il libro sacro dettato da Dio
all'umanità a completamento del messaggio parzialmente trasmesso dalla
Bibbia ebraica e cristiana. Affiancando
a questa concezione teologica un corpus normativo che regolamenta con
precisione la condotta dei fedeli interamente sottomessi al volere divino,
l'Islam ambisce a identificare l'intera società con la comunità dei
fedeli di Allah. A differenza del cristianesimo, il mondo musulmano non ha
mai conosciuto un'autorità suprema ritenuta depositaria della verità in
materia di fede e di etica. In assenza di una figura paragonabile a quella
del papa nel cattolicesimo, la tradizione islamica assegna all'intera
comunità dei fedeli il compito di custodire i precetti della religione e
della retta condotta e accoglie con molte riserve il ruolo di custodi
autorevoli dell'ortodossia attribuito in epoca moderna ai dotti
dell'Università Al-Azhar del Cairo fra i sunniti, e alla gerarchia dei
mullah iraniani fra gli sciiti. Le
origini Vissuto
nell'Arabia occidentale all'inizio del VII secolo d.C., Maometto predicò
agli abitanti di quella terra, in maggioranza seguaci del politeismo, i
dettami della nuova fede rivelatagli direttamente dall'unico Dio.
Nonostante l'ostilità incontrata nella sua città natale, La Mecca, il
profeta riuscì a dar vita, nella città oggi nota come Medina, a una
comunità politico-religiosa che sarebbe riuscita, già prima del 632,
anno della morte del fondatore, a imporre la propria autorità in tutta
l'Arabia, nelle città come fra le tribù nomadi, elevando l'appartenenza
all'Islam al ruolo di elemento di identificazione di una compagine
politica unitaria. L'istituzione
del califfato, mirante a garantire la legittima successione di Maometto
alla guida della nazione islamica, rappresentò l'ambito privilegiato per
la trasmissione delle rivelazioni divine comunicate oralmente dal profeta
ai suoi discepoli più fidati e registrate in forma scritta già all'epoca
del terzo califfo Othman (644-656) nelle 114 sure (capitoli) del
Corano, accettate dall'Islam come definitive e immutabili. I passi del
libro sacro costituirono ben presto il fondamento delle prescrizioni
rituali ed etiche della comunità, che tuttavia accostò alle parole e
alle azioni del profeta anche alcune pratiche non testimoniate dal Corano:
questa tradizione parallela, detta in arabo sunnah, rappresenta
tuttora una fonte autorevole soprattutto per i sunniti, che vi scorgono un
complemento indispensabile alla rivelazione divina. Il saldo governo dei
califfi e la fede comune permise i rapidi successi degli eserciti arabi.
Questi ultimi già prima del 650 sottomisero al dominio del califfato di
Medina, l'Egitto, la Siria, l'Iraq e le regioni occidentali della Persia,
mentre con il passaggio del potere, intorno al 660, alla dinastia degli
Omayyadi, prese avvio la seconda fase della diffusione dell'Islam, che
penetrò nel vastissimo territorio compreso fra il Marocco e
l'Afghanistan, in Spagna e nelle regioni dell'Asia centrale. Monoteismo,
demonologia, escatologia Se
la tradizione musulmana, sottolineando il primato assoluto di Allah, gli
attribuisce le parole rivelate a Maometto e registrate nel Corano, le cui
pagine altro non sarebbero che copie di un archetipo celeste unico e
immutabile, la moderna ricerca storico-religiosa mira a chiarire le
origini del monoteismo islamico considerando primariamente l'influenza
esercitata in Arabia dall'ebraismo e dal cristianesimo, in particolare
nell'ambiente culturale del profeta, al quale non erano ignote le Sacre
Scritture degli ebrei e dei cristiani, salutati con rispetto come
"popoli del libro". Il Corano, infatti, fa riferimento a Mosè
come al tramite della rivelazione divina contenuta nella Torah, mentre Gesù
viene presentato come il custode di un "vangelo" in una
prospettiva tendente a identificare il fondatore del cristianesimo con
l'estensore di un libro dettato dalla divinità. Annoverando
Gesù tra i profeti, analogamente ai personaggi considerati tali
dall'Antico Testamento, il Corano lo presenta come Masih, Messia,
ma respinge come bestemmia suprema l'attribuzione di una natura divina,
pur condividendo con i Vangeli il racconto della sua nascita da una
vergine e dei miracoli compiuti, per poi divergere dalla tradizione
cristiana in merito alla crocifissione: Gesù sarebbe stato infatti
direttamente innalzato al cielo da Dio senza conoscere l'umiliazione del
supplizio, patito in realtà da un uomo reso simile a lui agli occhi dei
suoi persecutori e degli stessi discepoli. Queste e altre asserzioni del
Corano possono essere connesse più o meno precisamente con i racconti dei
Vangeli apocrifi e con le dottrine delle differenti correnti ebraiche e
cristiane diffuse, o comunque conosciute in qualche modo, in Arabia
all'epoca di Maometto, ed è significativo che lo stesso libro sacro,
presentando come fatto riprovevole la divisione dei cristiani in sette
contrapposte l'una all'altra, abbia coscienza dei numerosi movimenti
sviluppatisi in seno al cristianesimo dei primi secoli e in gran parte
condannati come eretici. Fra
le creature di Allah il Corano contempla pure, accanto agli angeli, la
folta schiera dei jinn, gli antichi "spiritelli" che,
venerati nel paganesimo preislamico come divinità minori, sono stati
adottati dall'Islam sia come esseri benefici divenuti fedeli ad Allah sia
come pericoloso esercito di demoni, tra i quali Iblis è il
minaccioso tentatore degli uomini. Per quanto concerne l'escatologia, la
tradizione islamica prevede il giudizio universale, presentato nel Corano,
assieme alla resurrezione, come momento culminante della storia di questo
mondo al termine di una serie di terrificanti cataclismi naturali (sure
81,82,84); il paradiso – adn, nome arabo dell'Eden biblico –
precluso agli infedeli e ai malvagi, destinati al fuoco dell'inferno,
viene descritto (sura 52) come un giardino di delizie, dove i
beati, riconosciuti tali dopo che le loro buone azioni, pesate su una
bilancia, si saranno rivelate più consistenti di quelle cattive, potranno
godere della felicità dei sensi gustando cibi succulenti e allietandosi
con la compagnia di incantevoli fanciulle (vedi Huri). La
tradizione che arricchì successivamente i dati del Corano offre invece la
suggestiva narrazione della fine del mondo preceduta dall'apparizione del dajjal,
la Bestia apocalittica, creatura malefica che regnerà sulla terra per 40
giorni prima di essere sconfitta da Gesù, il precursore del mahdi, figura
escatologica capace di inaugurare un'epoca di felicità e di giustizia che
prelude al giudizio universale. La
legge e i riti La
professione di fede in Allah obbliga i seguaci dell'Islam all'osservanza
di una serie di norme etiche e legali che, regolamentando ogni aspetto
della vita della comunità, costituiscono un complesso e minuzioso codice
giuridico concepito come modello ideale per una società teocratica.
Identificando infatti la società civile con la comunità dei fedeli, la
teologia islamica innalza il diritto, fiqh, "saggezza",
al rango di scienza religiosa, che deve essere coltivata dai dotti con la
massima dedizione per garantire nel futuro la conformità della condotta
dei fedeli ai principi della legge, la shariah. Gli esperti di
giurisprudenza, detti mufti nella tradizione sunnita e mullah
in quella sciita, legiferano in relazione a ogni aspetto della vita civile
e religiosa: essi elaborano sia le norme del codice penale sia le
prescrizioni del diritto di famiglia, ponendo a fondamento delle loro
decisioni non solo i dati del Corano e della sunnah, come si
trovano nelle raccolte dei detti e delle azioni del profeta (vedi
Hadith), ma anche l'orientamento concorde, ijma, di una o più
generazioni di uomini di legge in relazione a una determinata materia;
alle indicazioni di questi cultori del diritto devono attenersi i qadi,
i giudici chiamati a pronunciare le sentenze in merito ai singoli casi
loro sottoposti. Nell'ambito
di competenza della shariah rientrano anche le norme del diritto
matrimoniale. Le nozze per l'uomo possono avere anche carattere
poligamico: alla libertà di sposare fino a quattro donne si associa
l'obbligo di assicurare un identico tenore di vita a ciascuna delle
consorti e ai rispettivi figli. Tale obbligo, soprattutto in epoca
moderna, fa di questa pratica una possibilità limitata agli uomini più
benestanti. Il divorzio, possibile per iniziativa del marito anche in
assenza di particolari motivazioni, può essere ottenuto dalla donna solo
per mezzo di una complessa procedura giuridica, sulla base dello stesso
principio che consente il matrimonio fra un musulmano e una donna di
diverso credo religioso, ma impedisce di dare in sposa una donna musulmana
a un uomo non seguace dell'Islam. Per quanto concerne l'abbigliamento
femminile, l'esortazione rivolta dal Corano alle donne affinché indossino
un mantello che copra il loro corpo da capo a piedi non può essere posta
a fondamento della prescrizione di nascondere anche il volto, introdotta
dai califfi Abbasidi (750-1258) con la consuetudine di confinare le mogli
nell'harem, ovvero "luogo interdetto" agli uomini,
consentendo loro di comparire in pubblico soltanto con il volto coperto. Questo
orientamento non univoco della tradizione antica fa sì che le
prescrizioni in materia di abbigliamento femminile siano tuttora più o
meno rigide nei diversi paesi islamici, analogamente alle altre norme che
regolano le attività delle donne in campo sociale e professionale. Allo
stesso modo, l'applicazione letterale della shariah come
espressione principale del diritto (taglio della mano destra come pena per
il furto o lapidazione per l'adulterio) è prerogativa di paesi, quali
l'Arabia Saudita e l'Iran, più inclini a una visione integralista
dell'Islam. Altrove, ad esempio in Egitto e in Siria, la pratica islamica
convive con un sistema legale parzialmente ispirato a modelli occidentali,
mentre la Turchia è dal 1928 uno stato ufficialmente laico, benché non
vi manchino movimenti religiosi di indirizzo più o meno integralista. Se
questa pluralità di orientamenti costituisce indubbiamente un motivo di
tensione nel mondo musulmano, la quasi totalità dei seguaci di questa
religione offre invece un'immagine di profonda unità per quanto concerne
l'osservanza di quei doveri noti come Cinque pilastri dell'Islam: alla
professione di fede, shahada, nell'unico Dio, il musulmano deve
infatti affiancare la preghiera quotidiana, salat, nelle forme
rituali previste, osservando poi il digiuno, sawm, durante il mese
di Ramadan, oltre a recarsi in pellegrinaggio, hagg, almeno una
volta nella vita alla città santa, La Mecca, e a versare una certa somma
di denaro come decima, zakat, a beneficio dei poveri e della
comunità. Obblighi altrettanto sentiti dai fedeli sono, oltre alla
circoncisione maschile, l'astinenza dal consumo di bevande alcoliche e di
carne di maiale, e il rispetto delle norme della macellazione rituale
degli animali delle cui carni è lecito cibarsi. La
preghiera, certamente la pratica più suggestiva dell'Islam, riunisce per
cinque volte al giorno (soltanto tre fra gli sciiti) l'intera comunità
dei fedeli che, ovunque si trovino, interrompono all'ora stabilita
qualsiasi attività per compiere i gesti di un preciso cerimoniale,
rivolgendosi verso La Mecca su un tappeto, limite dello spazio sacro, a
piedi scalzi e in stato di purità rituale dopo una serie di abluzioni. La
preghiera quotidiana viene recitata in forma collettiva nella moschea, il
luogo di culto dei musulmani, dove il venerdì, giorno festivo per
l'Islam, si tiene a mezzogiorno il rito solenne. Oltre alla salat,
guidata da un imam, viene recitata una sorta di omelia pronunciata
dal pulpito da un khatib, figura che comunque non riveste, al pari
dello stesso imam, alcuna funzione sacerdotale in nome del
principio della pari dignità di tutti i fedeli di fronte ad Allah. Al muezzin,
forma turca dell'arabo muadhdhin, è invece affidato l'incarico di
annunciare dal minareto, la torre annessa alla moschea, l'ora della
preghiera quotidiana e della funzione del venerdì. Il
luogo più sacro per i seguaci dell'Islam è certamente la città natale
del profeta, La Mecca, dove, al centro del cortile della Grande moschea,
la "moschea sacra" per eccellenza, si erge la Kaaba, una
costruzione cubica, larga circa 10 metri e alta 15, verosimilmente
utilizzata in epoca preislamica come santuario pagano dagli adoratori
della celebre Pietra Nera, un meteorite di 30 centimetri di diametro che,
incastonato in un angolo dell'edificio, è divenuto oggetto di venerazione
anche per i musulmani. Considerando infatti la Pietra Nera come dono
inviato dal cielo per confortare Adamo dopo la sua cacciata dal paradiso,
la tradizione islamica vuole che la Kaaba, edificata da Abramo come luogo
dove chiamare a raccolta tutti i popoli invitati a rendere culto all'unico
Dio, fosse caduta nelle mani dei seguaci del politeismo e dell'idolatria,
prima che Maometto la restituisse alla sua funzione originaria di luogo
consacrato alla pratica del monoteismo. Oltre
a sottolineare la sacralità di Medina, dove si trova fra l'altro la tomba
del profeta, il mondo islamico tributa da sempre grande venerazione alla
città di Gerusalemme, il più antico fra i luoghi santi del monoteismo;
qui Maometto, trasportatovi nottetempo dall'arcangelo Gabriele, avrebbe
conosciuto l'esperienza miracolosa dell'ascensione ai sette cieli e
dell'incontro con i massimi profeti, da Adamo a Gesù. Grande importanza
assumono per gli sciiti, in relazione alle attività dei loro imam,
numerose altre città, come Karbala in Irak e Qom in Iran. Facendo
decorrere il computo degli anni dall'Egira, il trasferimento di Maometto
dalla Mecca a Medina, il calendario islamico si articola su un ciclo
lunare di 12 mesi non connessi con il corso delle stagioni. Il nono mese
è il Ramadan, il periodo più sacro dell'anno durante il quale i fedeli
osservano scrupolosamente l'obbligo di digiunare, astenendosi anche dalle
bevande e dai rapporti sessuali, dall'alba al tramonto, per poi celebrare
come momento di gioia, alla comparsa della luna nuova, la festa più
importante dell'anno, il primo giorno del mese successivo a quello del
digiuno. L'ultimo mese dell'anno, quello di Dzu 'l Hijjah, offre
invece lo spettacolo solenne del pellegrinaggio alla Mecca. Nella prima
metà del mese la città santa viene invasa da una folla sterminata di
fedeli che indossano una veste bianca. Terminate le purificazioni rituali
essi procedono verso il cuore della città, la Grande moschea, dove
compiono sette giri intorno alla Kaaba (il rito si chiama tawaf) e
baciano la Pietra Nera, recandosi poi, come ultima tappa di una corsa
frenetica fra le colline, nel piccolo villaggio di Mina. Esaurita in
questo luogo la celebrazione di altri riti, fra cui una lapidazione
simbolica del diavolo, il pellegrinaggio si conclude, il decimo giorno del
mese, con il sacrificio di animali secondo un cerimoniale imitato nei tre
giorni successivi, quelli appunto della "festa del sacrificio"
in tutto il mondo musulmano. Le
tendenze principali Cogliendo
le linee essenziali dello sviluppo storico delle tendenze più
significative tuttora presenti nell'Islam, è possibile far risalire ai
primi decenni successivi alla morte di Maometto l'origine delle correnti
fondamentali, i sunniti e gli sciiti, che sarebbero sorte, assieme ai
kharigiti, fra il 656 e il 661 come fazioni politiche protagoniste di una
dura lotta di potere, per poi acquisire nel corso dei secoli il carattere
di comunità religiose distinte da indirizzi teologici peculiari. Se
l'Islam venne dominato sin dalle origini da una visione sostanzialmente
legalistica dell'esperienza religiosa, emersero ben presto in seno alla
comunità tendenze mistiche e il desiderio di intrattenere un rapporto
diretto con il divino, caratteristica delle numerose scuole del sufismo.
Ostacolati dai giuristi e dai califfi, i mistici musulmani furono spesso
vittime della persecuzione, come nel caso di al Hallaj, giustiziato nel
922 a motivo della sua fede nell'unione mistica con Allah, che ai custodi
dell'ortodossia suonava come una sfida alla dottrina tradizionale della
trascendenza assoluta di Dio. Gli scritti di Al-Ghazali, che contribuì
all'accettazione delle forme di culto del misticismo islamico, chiusero
un'epoca di straordinaria fioritura culturale che, utilizzando le
categorie del pensiero greco (particolarmente il neoplatonismo) come
strumento per un'indagine più profonda dei contenuti spirituali del
Corano, aveva prodotto i capolavori della filosofia islamica. Per
quanto concerne invece l'epoca moderna, il rapporto con la cultura europea
ha certamente costituito il motivo di fondo del dibattito che ha
interessato, già dal XVIII secolo, l'intero mondo musulmano, determinando
talvolta uno stato di tensione a motivo dell'emergere, accanto alle
posizioni decisamente riformistiche, di atteggiamenti di chiusura totale
di fronte a qualsiasi influenza culturale estranea all'antica tradizione
religiosa. Ai teorici di un Islam per così dire "moderato" che
sappia far convivere i suoi ideali tradizionali con le esigenze di una
società moderna e parzialmente occidentalizzata si contrappongono infatti
quanti considerano il primato della legge religiosa nella vita sociale
come elemento irrinunciabile dell'identità islamica, minacciata dal
laicismo politico e sociale dell'Occidente secolarizzato. Il malcontento
diffuso negli ambienti religiosi più tradizionalisti, fortemente critici
verso la politica di quei governi ritenuti responsabili della corruzione
di una società ligia da secoli al rispetto dei principi più puri
dell'Islam, è alla base del fenomeno del cosiddetto fondamentalismo
islamico. È
questa una delle tendenze più vistose dell'Islam del XX secolo, per
quanto sia scorretto sopravvalutarne l'importanza a scapito delle altre
espressioni di questa religione. Sorto propriamente in ambito cristiano in
riferimento alle istanze di quelle denominazioni del protestantesimo che,
alla fine del XIX secolo, promossero negli Stati Uniti una battaglia a
difesa dell'interpretazione letterale del testo biblico, il termine "fondamentalismo"
indica oggi convenzionalmente l'ideologia dei numerosi movimenti nati nel
mondo islamico per propugnare, anche con il ricorso alla violenza, il
ritorno alla rigida osservanza dei precetti della religione come forma di
opposizione politica e culturale all'Occidente. Se
questi ideali caratterizzarono già dal 1928 un gruppo come quello dei
"Fratelli musulmani", il cui esponente di maggior prestigio,
Sayyid Qutb, fu giustiziato per ordine delle autorità egiziane nel 1966,
il fondamentalismo islamico ha conosciuto la sua massima diffusione
nell'ultimo scorcio del secolo con l'attività di numerosi movimenti
politico-religiosi capaci di influire sulla vita sociale in diversi paesi. Il
modello politico a cui molti militanti di questi partiti fanno riferimento
è quello dell'Iran, dove nel 1979 l'ayatollah Khomeini, una delle più
alte autorità dell'Islam sciita, riuscì a conquistare il potere facendo
del fondamentalismo religioso il motivo ispiratore di una rivoluzione
popolare contro il regime filo-occidentale dello scià Reza Pahlavi.
Roccaforte del fondamentalismo è divenuto dal 1989 anche il Sudan, con il
colpo di stato militare che ha portato al potere il Fronte islamico
nazionale di Hassan al Turabi, e la più rigida ortodossia islamica è
stata imposta in Afghanistan dal 1996 con la vittoria dei taliban,
giovani reclutati nelle scuole coraniche e divenuti miliziani di una delle
fazioni in lotta per la supremazia dopo il ritiro degli invasori sovietici
dal paese. In
Turchia il rispetto della costituzione laica non ha impedito al Refah, o
"Partito del benessere" di Necmettin Erbakan, piuttosto vicino
agli ideali del fondamentalismo islamico, di divenire forza politica di
governo. In Algeria il Fronte islamico di salvezza (FIS) fu messo fuori
legge dal partito al potere dopo avere acquisito il ruolo di forza
politica di rilievo ottenendo addirittura la maggioranza dei suffragi nel
primo turno delle elezioni politiche del dicembre 1991; questa decisione
scatenò la reazione violenta del movimento, le cui azioni terroristiche
continuano a insanguinare il paese (60.000 morti alla metà del 1997),
colpendo soprattutto intellettuali, giornalisti e semplici cittadini
contrari alla prospettiva di islamizzazione dello stato. Movimenti
integralisti, come quello di Hamas, si oppongono al processo di pace fra
il popolo palestinese e lo stato di Israele (vedi Questione
palestinese), mentre fazioni integraliste, ad esempio gli Hezbollah
sciiti, sono stati protagonisti della storia recente del Libano. Motivo
ispiratore comune per le azioni di queste compagini politico-religiose è
il concetto di "guerra santa" contro gli infedeli, identificati
indifferentemente con i non musulmani e con i membri della comunità
islamica considerati traditori a motivo delle loro posizioni progressiste
e filo-occidentali. A questo proposito occorre precisare che il termine
arabo jihad, nel quale non solo la cultura occidentale, ma anche
qualche settore dello stesso integralismo islamico, tende a cogliere la
definizione della guerra santa come dottrina essenziale nell'Islam, nel
Corano ha un'accezione più ampia: jihad significa infatti
"sforzo" e il libro sacro, considerando come sforzo maggiore
sulla via di Dio l'impegno del fedele a vincere le proprie tentazioni per
divenire un buon musulmano, presenta la guerra santa contro gli infedeli
soltanto come dovere minore da compiersi in circostanze ben precise sulla
base di una rigorosa definizione giuridica. Non si deve dimenticare
inoltre che, per quanto l'Islam sia penetrato fino in Europa come
conseguenza della forza espansionistica dell'impero ottomano dal 1300 alla
fine della prima guerra mondiale, il diritto musulmano non ha mai
previsto, di fatto, l'imposizione della fede islamica attraverso la
guerra, tenendo distinti i successi militari dei popoli arabi dalla
diffusione della religione predicata da Maometto. Sunniti
La maggioranza dei seguaci dell'Islam (circa l'83%, pari a 680 milioni di
persone), caratterizzati da una tradizione rituale e dottrinale che si
distingue da quella degli sciiti. Il nome deriva dal concetto di Sunna,
la tradizione più antica di norme etiche e morali, stabilite sulla base
dei detti e degli atti di Maometto noti come hadith e considerati,
insieme col Corano, le fonti principali del diritto islamico. Nel
III secolo dell'Islam (il IX secolo d.C.) le raccolte scritte di hadith
erano ormai così numerose che si ritenne necessario procedere a una
valutazione della loro autenticità, attribuendo valore normativo soltanto
a quelle che potevano essere fatte risalire ai discepoli del profeta. Furono
accettate come autentiche 14 collezioni di hadith, che
costituiscono testi canonici ai quali i sunniti attribuiscono un valore
analogo a quello del Corano. Vengono consultati assieme al libro sacro per
definire qualsiasi questione dottrinale e giuridica e sono considerati, in
quanto testimonianza delle parole del profeta, come parte integrante della
rivelazione divina da lui ricevuta. La
riforma dottrinale non riuscì a eliminare le divergenze dei giuristi su
alcune questioni di dettaglio, e ciò condusse, pur nell'accettazione
comune dei principi generali, alla formazione di diverse scuole di
pensiero (mazhab), quattro delle quali sopravvivono tuttora. I loro
nomi derivano da quelli dei giuristi che ne elaborarono i principi nel IX
secolo d.C.: gli hanifiti (da Abu Hanifa), i malikiti (da Malik ibn Anas),
gli shafiti (da al-Shafii) e gli hanbaliti (da Ahmad ibn Hanbal). Dapprima
in competizione, queste scuole di pensiero riuscirono in seguito a
convivere senza tensioni, considerandosi espressioni della comune eredità
sunnita e diffondendosi nei diversi territori del mondo islamico: i
malikiti in Africa settentrionale e occidentale, gli shafiti nel Sud-Est
asiatico e in Africa occidentale, gli hanafiti nelle regioni dell'impero
ottomano e gli hanbaliti in Arabia Saudita. In età moderna, alcune
correnti di pensiero hanno posto come obiettivo dell'Islam sunnita il
raggiungimento di un'unità effettiva tra le diverse scuole. Principale
centro di diffusione della dottrina sunnita fu Baghdad, sede del califfato
dal 762. I califfi, che si proclamarono fin da principio depositari
dell'autorità religiosa, dovettero affrontare le rivendicazioni dei
teologi in una lotta di potere originata da un dissidio dottrinale. I
califfi negavano l'eternità del Corano (sostenuta invece dai teologi) e
ritenevano che il testo sacro fosse stato creato nel tempo. L'abbandono di
quest'ultima teoria, verso l'850, aprì la strada al riconoscimento
dell'autorità effettiva dei teologi in materia religiosa, per quanto i
califfi continuassero a essere considerati guide simboliche della comunità
sunnita. Il
dominio dei califfi di Baghdad sulla maggior parte del mondo islamico rese
possibile il prevalere della dottrina sunnita su altre concezioni non
supportate dall'autorità politica, e l'identità religiosa riuscì a
sopravvivere saldamente anche al crollo del califfato e al passaggio dei
paesi islamici sotto diverse dominazioni. Sciiti
I
seguaci della corrente dell'Islam che si distingue da quella dei sunniti
per origini e concezioni teologiche. Originariamente il termine
"sciiti" indicava i seguaci (in arabo shiah) del partito
di Alì, cugino e genero di Maometto e quarto califfo dell'Islam,
considerato come unico successore legittimo del Profeta alla guida della
comunità: usurpatori sarebbero dunque i tre califfi precedenti,
riconosciuti invece dai sunniti e, con essi, i fondatori della dinastia
degli Omayyadi, anch'essi detentori del califfato. Storicamente, il primo
gruppo dei seguaci di Alì (assassinato nel 661), che in seguito si
separarono da lui, fu quello dei kharigiti. A
questa prima fase di lotte a sfondo politico seguirono in epoca omayyade
(661-750) le tappe dell'elaborazione della teologia caratteristica della
comunità sciita. Essa venne adottata dalle correnti rimaste fedeli alla
tradizione che riconosce in Alì il depositario della segreta essenza
dell'Islam, un sapere esoterico trasmessogli direttamente da Maometto.
Custodi di questa sapienza arcana sarebbero i legittimi discendenti di Alì,
che sono venerati come imam, cioè "guide" della comunità
dotate di poteri sovrannaturali, come l'infallibilità e la capacità di
compiere miracoli, e garanti dell'esistenza dell'universo per mezzo della
loro forza vitale. La catena di successione degli imam si sarebbe
interrotta in seguito all'occultamento dell'ultimo imam, per gli sciiti più
tradizionalisti presente sulla Terra soltanto in una dimensione
invisibile, preludio della sua manifestazione agli uomini nella veste di
apportatore di un regno di giustizia. Questa
concezione, che alcuni gruppi, come i drusi, radicalizzano attribuendo
agli imam carattere divino, si discosta nettamente dalla visione dei
sunniti, unanimi nel venerare in Maometto l'ultimo dei profeti,
depositario della rivelazione definitiva della fede, custodita tuttora
dalle guide della comunità, che sono però considerati uomini privi di
poteri sovrannaturali. La definizione della discendenza di Alì, assai
problematica a motivo dei numerosi figli da lui avuti da mogli diverse, è
alla base della divisione in correnti che ben presto caratterizzò il
corpo sciita: se la maggior parte dei gruppi riconoscono come imam
soltanto i diretti discendenti della genealogia risalente ad Alì e a
Fatima, la figlia di Maometto, non sono mancate altre rivendicazioni, come
quella dei califfi abbasidi, che si consideravano discendenti di uno dei
figli di Alì e di un'altra moglie. Le
correnti Pur
nell'accettazione dei fondamenti comuni della fede sciita, questi diversi
gruppi, fra i quali, in primo luogo, gli imamiti e gli ismailiti, hanno
sviluppato pratiche e dottrine caratteristiche che li identificano
peculiarmente. Cento milioni sono oggi gli sciiti imamiti, detti anche
duodecimami in quanto riconoscono una successione di dodici imam. L'ultimo
di essi sarebbe comparso sulla terra nell'874 e vivrebbe da allora
nascosto in attesa di manifestarsi visibilmente agli uomini. Lo sciismo
duodecimano è religione di stato in Iran dal XVI secolo, quando fu
adottata dalla dinastia dei Safavidi, ed è diffuso anche in Libano, in
Iraq, in Pakistan e in India. Alla tradizione imamita è connessa anche la
religione bahai, che, per quanto apparentemente lontana dai principi
dell'Islam, deriva direttamente dal babismo, una fede sorta sulla base di
alcuni elementi duodecimami. Come
sciiti settimami sono invece noti gli ismailiti, oggi poco più di 15
milioni, che riconoscono una successione di sette imam. Una nuova fase di
rivendicazione della discendenza da Alì in chiave politica si verificò
con la nascita della dinastia dei Fatimidi, che regnò sull'Egitto per
oltre due secoli (909-1171). Le scissioni avvenute in seno alla dinastia
portarono alla formazione della corrente dei nizariti, che attribuiscono
al loro imam il titolo di aga khan e che, a differenza degli altri
gruppi, lo ritengono presente visibilmente fra gli uomini: per i khogia,
la corrente nizarita che vanta oggi il maggior numero di fedeli, l'attuale
aga khan sarebbe infatti il 49° imam. Un altro dei gruppi
distaccatisi nel XII secolo dai Fatimidi è all'origine della comunità
dei bohra (o bohara) che, dapprima emigrati nello Yemen, si
stabilirono in India nel XVI secolo, venerando come legittimo
rappresentante dell'imam occulto il Da'i, capo religioso e autorità
giuridica e dottrinale. Da
Zaid ibn Ali, morto nel 740 combattendo contro gli Omayyadi, prendono il
nome gli zaiditi, che riconoscono in lui il quinto e ultimo imam, per
quanto la loro dottrina presenti alcuni punti discordanti rispetto allo
sciismo tradizionale: Zaid, infatti, decidendo di ribellarsi al potere
degli Omayyadi, propose come modello ideale per i fedeli qualsiasi
discendente di Alì e di Fatima che fosse sufficientemente devoto e
politicamente attivo contro gli usurpatori: egli avvicinò così la figura
dell'imam al modello del califfo quale era concepito dai sunniti. Un
califfato zaidita, fondato nel IX secolo, riuscì a sopravvivere fino al
1963 nello Yemen, dove questa versione dell'Islam vanta ancora oggi circa
5 milioni di fedeli. La
dottrina L'analisi
dello sviluppo storico delle correnti sciite mostra come i duodecimami e
gli ismailiti possano essere considerati gli effettivi custodi della
tradizione teologica originaria che li differenzia nettamente dai sunniti:
per loro, infatti, la saggezza suprema e arcana dell'imam garantisce la
possibilità di un'interpretazione (tawil) mistica del Corano
simile per tanti aspetti a quella del sufismo. Duodecimami e ismailiti
sono sostanzialmente concordi nella venerazione dei primi sei imam fino ad
al-Sadiq, dividendosi però sulla sua linea di successione e nella
condivisione dell'ulteriore formulazione teologica: l'ultimo imam nascosto
diviene per gli sciiti un personaggio escatologico, isolato dalla storia e
destinato a manifestarsi all'umanità soltanto alla fine dei tempi come
mahdi supremo. Proprio il nascondimento dell'imam pone alle due correnti
il problema dell'autorità religiosa e giuridica, giustificando
l'attribuzione, fra i duodecimami, di un ruolo di potere ai giuristi quali
custodi della tradizione risalente al profeta e agli imam stessi. Venerati
dai fedeli come guide nella preghiera del venerdì, i giuristi giunsero
con il passare dei secoli a rivendicare a sé alcune delle prerogative
dell'imam nascosto, ponendosi come garanti della fondatezza di
pronunciamenti legali solenni (vedi Fatwa) e acquisendo la funzione
di autorità suprema in campo politico e religioso: questa situazione fu
codificata nel XVII secolo con la definizione di una precisa gerarchia che
pone la figura degli ayatollah al vertice di tutta la comunità, anche
nelle sue espressioni politiche, com'è avvenuto in Iran dopo la
rivoluzione islamica del 1979. La tradizione dei sunniti considera come
fonte unica e ufficiale di ogni norma giuridica le collezioni degli hadith,
vale a dire le parole e gli atti di Maometto che completerebbero la
rivelazione divina contenuta nel Corano, mentre gli sciiti attribuiscono
valore normativo anche alle parole e alle azioni degli imam, e il
pellegrinaggio alle loro tombe è considerato, accanto al grande
pellegrinaggio alla Mecca, uno dei cinque pilastri dell'Islam. Alì e suo
figlio Hasan sono venerati come martiri da tutti gli sciiti, e i
duodecimami hanno istituito riti durante i quali proclamano la loro fedeltà
a questi personaggi; anche i tragici fatti di Karbala, che portarono al
martirio dell'altro figlio di Alì, Husayn, sono da sempre ben vivi nella
memoria di tutti i fedeli che li rievocano in un rito annuale. In campo
teologico, le due visioni dell'Islam si differenziano anche per
un'ulteriore elaborazione dottrinale che ha portato gli sciiti a concepire
il Corano come creato da Allah nella dimensione temporale, contrariamente
alle convinzioni dei sunniti che ritengono il sacro libro eterno e
increato. In senso più generale, il carattere mistico della teologia
sciita ha favorito sicuramente una maggiore sensibilità nei confronti
della speculazione filosofica, con la propensione a rielaborare
attivamente anche concezioni estranee all'Islam, come il neoplatonismo, e
ad attribuire grande importanza a ogni visione di contenuto spiccatamente
esoterico.
|
![]() |
![]() |
![]() |